Il vascello fantasma attracca
nuovamente nel porto amico della città felsinea, che le diede i natali italiani
centoquarantasei anni or sono quando il wagnerismo infuriava a tempesta per la
penisola, e non solo. Questa volta, però, la cornice è quella del Teatro
EuropAuditorium, tappa doppiamente provvisoria nel transito del Comunale verso
la sua sala Nouveau, allorché quella
del Bibiena resterà chiusa per anni causa necessari lavori di manutenzione. E
non cera forse titolo migliore per unoccasione del genere: in un gioco di
rispecchiamenti che Wagner avrebbe
probabilmente apprezzato, la mistica di viaggio, trasformazione e redenzione
incarnata dai personaggi dellOlandese
trova eco in una prima di stagione inconsueta, giocata al crocevia tra gli
usuali tratti di solennità di un simile evento e gli spiazzamenti obbligati di
un luogo geograficamente e simbolicamente tanto lontano dai portici del centro.
Sul piano più eminentemente
pragmatico (del resto, non meno caro al compositore tedesco), fare opera allEuropAuditorium
vuol dire confrontarsi con uno spazio difficile per acustica e logistica, se
non addirittura ostile. Buca poco profonda e schiacciata in lungo, che impone
il rimescolamento delle posizioni orchestrali, coi primi violini al centro e
corni staccati dagli altri ottoni e a essi affrontati per farne emergere i
giochi contrappuntistici; poi, un palco altrettanto largo e dispersivo,
ulteriormente deficitario di graticcia e quinte. La prova della compagine
orchestrale riesce comunque pregevole per intensità e tenuta sulle lunghe
campate di senso wagneriane – ad esempio, non si registra alcuna perdita di
tensione per tutto il terzo atto, nonostante la scelta wagneriana di
posizionare un lungo terzetto tra Erik, Senta e Olandese dopo la scena corale in
apertura. Il merito va senza dubbio alla visione dinsieme forte di Oksana Lyniv, direttrice stabile del
Comunale, che con questo titolo ha debuttato a Bayreuth nel 2021, prima donna
in assoluto a occuparne il podio.  Una scena dello spettacolo
© Andrea Ranzi
Lo stesso non si può dire dello
spettacolo curato da Paul Curran,
pure regista intelligente e capace che, però, rimane pressoché entro il solco
del già visto. Certo non è semplice disancorare Olandese dagli immaginari marinareschi di cui sono imbevuti
libretto e partitura (gli «Hojohe! Hallojo!» di timoniere e marinai, seppure su
linee melodiche vagamente italianeggianti): da qui assistiamo a un florilegio
di cerate gialle, lanci di cime e casse contenenti tesori o altrettanto
preziosi liquori. Il tutto, poi, è incistato in una scena necessariamente
semplice e statica, in virtù delle caratteristiche logistiche di cui sè già
detto. In questo senso, le scelte di Robert
Innes Hopkins sono mirate innanzitutto a riportare lo sguardo al centro,
laddove la forma del palco (e la distribuzione spaziale del suono in buca)
porterebbe a disperderlo lateralmente. Abbiamo dunque due alti praticabili
laterali sagomati a mo di prue, sorta di cornice per
un fondale in legno e tendaggi, pensati e utilizzati come diaframma tra terreno
e oltretombale. Da qui sbuca lOlandese nel primo atto; lì vengono proiettate
la sua ombra e quella di Senta, dopo il di lei sacrificio finale. Garantiscono
un seppur limitato movimento i cambi di attrezzeria (le postazioni da cucito
del secondo atto, rimosse dai figuranti, a scena aperta, durante la transizione
al terzo) e soprattutto le video-proiezioni di Driscoll Otto: per lo più onde, ma anche riferimenti pittorici (il Viandante di Friedrich, epiteto perfetto dellHolländer) e un occhio strizzato a Dario Argento nel coro dei fantasmi. Spettacolo solido,
interessante fintanto che punta a umanizzare lamore per il reietto e ci
risparmia lennesima Senta sognante o inderogabilmente invasata; in definitiva,
però, poco emozionante.
Un giudizio consimile potrebbe
applicarsi al cast vocale: di pagine capaci di commuovere o inchiodare alla
poltrona ce ne sarebbero, ma ciò non accade. Nei panni delleroe eponimo, Thomas Johannes Mayr recita
ottimamente, forse fin troppo: la sua prova vocale è spesso risolta nel
parlato, meglio, in forme di sussurro intelligentemente dosate per
caratterizzare il personaggio, a volte però a discapito dello spessore
cantabile di alcune frasi, come ad esempio nella dolente (e meravigliosa)
invocazione al «gepriesner Engel Gottes» (atto primo, seconda scena). La Senta
di Elisabet Strid convince per
timbro e fraseggio, un po meno per solidità in acuto, zona in cui si sente
qualche costrizione e il tentativo (certo riuscito) di superarle di forza.
Metallicamente monocorde, ma non senza fascino, è Adam Smith, che porta a casa la parte di Erik senza gli ingolamenti
o le nasalizzazioni che molti suoi colleghi tenori spesso non riescono a
evitare. Infine, perfettamente in parte Peter
Rose, un Daland abbastanza ideale per voce, azione e figura; precisa Marina Ogii, costretta a confrontarsi
con la parte ingrata (per non dire sadicamente scomoda) di Mary; suadente lo
Steuermann di Paolo Angioletti,
dotato di bel timbro da tenore lirico, rotondo e squillante come italica
tradizione, a quanto dicono, vorrebbe.
Una menzione finale va ai due cori
presenti in sala: quello del Comunale, guidato da Gea Garatti Ansini, e quello del Teatro di Piacenza, preparato da Corrado Casati per affrontare il
cromaticissimo coro dei fantasmi nel terzatto, cantato alle spalle degli spettatori
dal fondo della sala. Seppure siamo lontani dal muro di suono che aveva
galvanizzato il pubblico nel Lohengrin
dello scorso autunno (ovviamente, anche in virtù della differente scrittura
wagneriana), la prova di entrambe le compagini è puntuale e convincente, ben
bilanciata per volumi e colori con la buca, e ben orchestrata nello spazio.
Ulteriore dimostrazione di quel “fare di necessità virtù” che i melomani
bolognesi dovranno recitare quale mantra per un bel po di tempo.
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