Nelle ultime stagioni, pure
avversate da tanti malanni e vicissitudini, Un ballo in maschera è fra
le opere più ricorrenti nei cartelloni italiani di maggiore impegno. Assistiamo
alla produzione del Carlo Felice di Genova, mentre riecheggiano ancora quelle
del Teatro alla Scala (2022) e del Festival Verdi di Parma (2021), in attesa
della prova del Teatro di Modena a marzo. Lattuale allestimento proviene da
Teatri emiliani, riproposto nella regia di Leo Nucci (ripresa da Salvo Piro),
con cast, direzione e maestranze aggiornati. Una scena dello spettacolo
Lambientazione scenica aderisce a
quella stabilita da Verdi nella Boston di fine Settecento, governata dal Conte di Warwick, sovrano illuminato e benvoluto. La corte
è servita e attorniata da un popolo di pelle nera, segno della vigente
schiavitù. Ma non pesano ormai più, come allepoca della novità verdiana, le
questioni dopportunità politica e quindi di censura. Lo spettacolo è concepito
secondo tradizione consolidata, sia figurativa sia di trasposizione simbolica e
non procede allattualizzazione, come ad esempio la applicava Damiano
Michieletto alla Scala nel 2013. La compagnia di canto assortita incontra un
gradimento testimoniato dagli applausi tempestivi a scena aperta, tipici dun
loggione di melomani esigenti e “puri”. I tanti spazi scenici – il palazzo del governatore,
la dimora della maga chiromante, larea campestre dellincontro fra gli
innamorati clandestini, labitazione della famiglia di Renato e Amelia, il
salone del ballo – richiedono mutamenti con sospensioni aggiunte agli
intervalli, prolungando la durata dei tre atti oltre le tre ore.
Leo Nucci, interprete storico di
Renato, da regista onora dellautore la morale e i sentimenti, notando il
parallelismo fra la vicenda di Gustavo III di Svezia e quella della guerra dindipendenza americana, segno daspirazione
condivisa alla libertà. La messa in scena si vuole illustrazione fedele del
pensiero del compositore, vero regista. Lo scopo pare ben raggiunto, con
laiuto dei collaboratori in scenografia, costumi e luci, responsabili della
tecnologia capace di potenziare immagini e messaggi del musicista creatore. Non
altrettanto originale e cattivante risulta lapporto del librettista con il
poema in versi (tratto da Gustave III, ou le bal masqué di Scribe
del 1833) frutto duna convenzione oggi anacronistica. La musica invece resta
puro e sostanziale apporto, anche non dovendo rivaleggiare con effetti scenici
collaterali o sovrapposti. La parte visiva in prospettive reali è suffragata da
fondali dipinti o proiettati nel disegno ricco e preciso di Carlo Centolavigna,
illuminato dalle luci di Claudio Schimd, sempre intonate al clima musicale.
Questo sorge da una direzione che porta lorchestra a dettagliare suites
autonome, di leggerezza operettistica e di profondità misteriose; a dar risalto
alle arie e
ai concertati in movimenti brillanti, nella distinzione dogni personaggio e
relativo intreccio, dalla solo al quintetto. Attenzione
impegnativa e gratificante coinvolgimento toccano così lo spettatore
nellalternanza dosata di emozioni e pensieri, in concordia di partitura e
recitazione, secondo il primato logico ed estetico della componente musicale.
Una scena dello spettacolo
Il racconto melodrammatico alterna
dunque episodi cangianti e salienti, sia per brio e ironia (affabilità
del conte, interventi del paggio Oscar en travesti
e persino la predizione che Riccardo sollecita e subito deride), sia per la
tensione degli stati danimo personali: dichiarazione damore fra gli amanti,
scontro fra marito e moglie, trama dei congiurati e tranello per la vittima
durante il ballo, quando la costante del travestimento e della mascherata
diventa funzionale anche allo svelamento dello stato più intimo dei
protagonisti. La prolungata agonia di Riccardo pugnalato scandisce diverse
variazioni melodrammatiche, con lorchestrina in scena (dal suono attutito) che
resta fino allultimo coperta dai convitati, mentre neanche le evoluzioni dei
ballerini al proscenio distraggono dallevento in atto.
Donato Renzetti dichiara la sua estetica su «questopera, che
considero non sperimentale ma di svolta, per la tendenza a rendere più
realistica la vocalità storica tradizionale» (da programma di sala). Nellalternarsi
di scherzo e dramma si nota la compresenza di
registri complementari e contrastanti. Il protagonismo dellorchestra,
crescente nella maturazione verdiana, è quindi misurabile nellansia tormentata
di Amelia e «la tinta orchestrale è discreta e ispiratrice nei momenti
gioiosi, possente e autoritaria nei momenti drammatici» (ibid.). Il risultato è nel ritmo temporale che,
mantenendo un rapporto pregnante con il silenzio – come nellincontro notturno
nel secondo atto – produce livelli sonori più compatibili fra strumenti e
attori. Una scena dello spettacolo
Ampia conferma di qualità
interpretative offrono i cantanti. Francesco Meli, a suo agio davanti al
pubblico concittadino, fuga certe riserve sui limiti delle potenzialità, più
fisiche che espressive, del carattere di Riccardo, suo cavallo di battaglia.
Misura ed equilibrio segnano momenti di suggestione lirica e dessenza sonora,
commisurabili ai modelli consacrati. Modulati a perfezione i passaggi, fino al
pianissimo e alla nitidezza delle mezze voci. In “Di tu se fedele...”, canzone
allatto primo; il duetto con Amelia, allatto secondo, in cui la tesa
gestualità è allunisono con la voce incalzante della dichiarazione e della
supplica incontenibili, “Mami, Amelia...” e “Astro di queste tenebre...”,
conclusi nel bacio del primo addio. Addio ripetuto, nella sospensione del
finale, in duetto con lamata. UnAmelia che Carmen Giannattasio possiede e interiorizza per fasi crescenti in estensione e
chiarezza di sfumature, sciolta da vincoli registici sulla recitazione. Così nellatto
secondo la ricerca dellerba magica si fa per lei straziante; poi subito, di
fronte allinnamorato: “Deh soccorri tu, cielo…”. Opposta al marito, allatto
terzo, “Morrò, ma prima in grazia...”, quando la richiesta di abbracciare il
figlio strappa il consenso e lapplauso. E lultimo commiato, ricamo di dolore
accanto allamato morente.
Una scena dello spettacolo
In Renato, il baritono Roberto De
Candia dispiega registri cangianti, duttili nel frangente che gli mostra il
lato sconosciuto della moglie. Assume durezze e toni sprezzanti nel rimpianto,
tormentato dal tradimento e vendicativo verso lamico che guarda in ritratto: “Eri
tu che macchiavi quellanima… O dolcezze perdute! O memorie…”, nellaria
accolta da unovazione. Le brevi scene di Ulrica indovina vedono Maria
Ermolaeva (contralto che sostituiva Agostina Smimmero) tratteggiare momenti
cupi e sentenziosi con qualche calo o esitazione. Gradita sorpresa il soprano Anna
Maria Sarra nel ruolo del paggio di scattante mobilità e di voce cordiale.
Truci e incisivi i congiurati di John Paul Huckle (Samuel) e Romano Dal Zovo
(Tom). Un coro dalla tenuta sicura, diretto da Claudio Marino Moretti, nutre di
armoniche ampie e corpose gli interventi più
concitati.
Linteresse complessivo di
questa ripresa rinnovata, se non entusiasma per invenzione o per dettagli
formalmente decisivi, può gustarsi come una sobria pausa di riflessione. La
musica comunque espande, ben oltre la tavolozza dellarcobaleno naturale, il
potere della sua bellezza. Alla passione, alla violenza e il dolore in risalto rispondono più misurati e profondi i sensi della pietà e
del pudore.
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