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Il gusto leggero della tragedia

di Gianni Poli
  Un ballo in maschera
Data di pubblicazione su web 04/02/2023  

Nelle ultime stagioni, pure avversate da tanti malanni e vicissitudini, Un ballo in maschera è fra le opere più ricorrenti nei cartelloni italiani di maggiore impegno. Assistiamo alla produzione del Carlo Felice di Genova, mentre riecheggiano ancora quelle del Teatro alla Scala (2022) e del Festival Verdi di Parma (2021), in attesa della prova del Teatro di Modena a marzo. L’attuale allestimento proviene da Teatri emiliani, riproposto nella regia di Leo Nucci (ripresa da Salvo Piro), con cast, direzione e maestranze aggiornati.


Una scena dello spettacolo
© Marcello Orselli

L’ambientazione scenica aderisce a quella stabilita da Verdi nella Boston di fine Settecento, governata dal Conte di Warwick, sovrano illuminato e benvoluto. La corte è servita e attorniata da un popolo di pelle nera, segno della vigente schiavitù. Ma non pesano ormai più, come all’epoca della novità verdiana, le questioni d’opportunità politica e quindi di censura. Lo spettacolo è concepito secondo tradizione consolidata, sia figurativa sia di trasposizione simbolica e non procede all’attualizzazione, come ad esempio la applicava Damiano Michieletto alla Scala nel 2013. La compagnia di canto assortita incontra un gradimento testimoniato dagli applausi tempestivi a scena aperta, tipici d’un loggione di melomani esigenti e “puri”. I tanti spazi scenici – il palazzo del governatore, la dimora della maga chiromante, l’area campestre dell’incontro fra gli innamorati clandestini, l’abitazione della famiglia di Renato e Amelia, il salone del ballo – richiedono mutamenti con sospensioni aggiunte agli intervalli, prolungando la durata dei tre atti oltre le tre ore. 

Leo Nucci, interprete storico di Renato, da regista onora dell’autore la morale e i sentimenti, notando il parallelismo fra la vicenda di Gustavo III di Svezia e quella della guerra d’indipendenza americana, segno d’aspirazione condivisa alla libertà. La messa in scena si vuole illustrazione fedele del pensiero del compositore, vero regista. Lo scopo pare ben raggiunto, con l’aiuto dei collaboratori in scenografia, costumi e luci, responsabili della tecnologia capace di potenziare immagini e messaggi del musicista creatore. Non altrettanto originale e cattivante risulta l’apporto del librettista con il poema in versi (tratto da Gustave III, ou le bal masqué di Scribe del 1833) frutto d’una convenzione oggi anacronistica. La musica invece resta puro e sostanziale apporto, anche non dovendo rivaleggiare con effetti scenici collaterali o sovrapposti. La parte visiva in prospettive reali è suffragata da fondali dipinti o proiettati nel disegno ricco e preciso di Carlo Centolavigna, illuminato dalle luci di Claudio Schimd, sempre intonate al clima musicale. Questo sorge da una direzione che porta l’orchestra a dettagliare suites autonome, di leggerezza operettistica e di profondità misteriose; a dar risalto alle arie e ai concertati in movimenti brillanti, nella distinzione d’ogni personaggio e relativo intreccio, dall’a solo al quintetto. Attenzione impegnativa e gratificante coinvolgimento toccano così lo spettatore nell’alternanza dosata di emozioni e pensieri, in concordia di partitura e recitazione, secondo il primato logico ed estetico della componente musicale.


Una scena dello spettacolo
© Marcello Orselli

Il racconto melodrammatico alterna dunque episodi cangianti e salienti, sia per brio e ironia (affabilità  del conte, interventi del paggio Oscar en travesti e persino la predizione che Riccardo sollecita e subito deride), sia per la tensione degli stati d’animo personali: dichiarazione d’amore fra gli amanti, scontro fra marito e moglie, trama dei congiurati e tranello per la vittima durante il ballo, quando la costante del travestimento e della mascherata diventa funzionale anche allo svelamento dello stato più intimo dei protagonisti. La prolungata agonia di Riccardo pugnalato scandisce diverse variazioni melodrammatiche, con l’orchestrina in scena (dal suono attutito) che resta fino all’ultimo coperta dai convitati, mentre neanche le evoluzioni dei ballerini al proscenio distraggono dall’evento in atto.

Donato Renzetti dichiara la sua estetica su «quest’opera, che considero non sperimentale ma di svolta, per la tendenza a rendere più realistica la vocalità storica tradizionale» (da programma di sala). Nell’alternarsi di scherzo e dramma si nota la compresenza di registri complementari e contrastanti. Il protagonismo dell’orchestra, crescente nella maturazione verdiana, è quindi misurabile nell’ansia tormentata di Amelia e «la tinta orchestrale è discreta e ispiratrice nei momenti gioiosi, possente e autoritaria nei momenti drammatici» (ibid.). Il risultato è nel ritmo temporale che, mantenendo un rapporto pregnante con il silenzio – come nell’incontro notturno nel secondo atto – produce livelli sonori più compatibili fra strumenti e attori.


Una scena dello spettacolo
© Marcello Orselli

Ampia conferma di qualità interpretative offrono i cantanti. Francesco Meli, a suo agio davanti al pubblico concittadino, fuga certe riserve sui limiti delle potenzialità, più fisiche che espressive, del carattere di Riccardo, suo cavallo di battaglia. Misura ed equilibrio segnano momenti di suggestione lirica e d’essenza sonora, commisurabili ai modelli consacrati. Modulati a perfezione i passaggi, fino al pianissimo e alla nitidezza delle mezze voci. In “Di’ tu se fedele...”, canzone all’atto primo; il duetto con Amelia, all’atto secondo, in cui la tesa gestualità è all’unisono con la voce incalzante della dichiarazione e della supplica incontenibili, “M’ami, Amelia...” e “Astro di queste tenebre...”, conclusi nel bacio del primo addio. Addio ripetuto, nella sospensione del finale, in duetto con l’amata. Un’Amelia che Carmen Giannattasio possiede e interiorizza per fasi crescenti in estensione e chiarezza di sfumature, sciolta da vincoli registici sulla recitazione. Così nell’atto secondo la ricerca dell’erba magica si fa per lei straziante; poi subito, di fronte all’innamorato: “Deh soccorri tu, cielo…”. Opposta al marito, all’atto terzo, “Morrò, ma prima in grazia...”, quando la richiesta di abbracciare il figlio strappa il consenso e l’applauso. E l’ultimo commiato, ricamo di dolore accanto all’amato morente.


Una scena dello spettacolo
© Marcello Orselli

In Renato, il baritono Roberto De Candia dispiega registri cangianti, duttili nel frangente che gli mostra il lato sconosciuto della moglie. Assume durezze e toni sprezzanti nel rimpianto, tormentato dal tradimento e vendicativo verso l’amico che guarda in ritratto: “Eri tu che macchiavi quell’anima… O dolcezze perdute! O memorie…”, nell’aria accolta da un’ovazione. Le brevi scene di Ulrica indovina vedono Maria Ermolaeva (contralto che sostituiva Agostina Smimmero) tratteggiare momenti cupi e sentenziosi con qualche calo o esitazione. Gradita sorpresa il soprano Anna Maria Sarra nel ruolo del paggio di scattante mobilità e di voce cordiale. Truci e incisivi i congiurati di John Paul Huckle (Samuel) e Romano Dal Zovo (Tom). Un coro dalla tenuta sicura, diretto da Claudio Marino Moretti, nutre di armoniche ampie e corpose gli interventi più concitati.     

L’interesse complessivo di questa ripresa rinnovata, se non entusiasma per invenzione o per dettagli formalmente decisivi, può gustarsi come una sobria pausa di riflessione. La musica comunque espande, ben oltre la tavolozza dell’arcobaleno naturale, il potere della sua bellezza. Alla passione, alla violenza e il dolore in risalto rispondono più misurati e profondi i sensi della pietà e del pudore.



Un ballo in maschera



cast cast & credits
 
trama trama



Una scena dello spettacolo visto al Teatro Carlo Felice di Genova
© Marcello Orselli

 
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