Nello spirito della miglior tradizione boulevardière
parigina, loperazione della regista del Teatro Franco Parenti riesce a
parlare, in modo chiaro, della società in evoluzione fra passato e presente.
Convenzioni lontane e modi fioriti sui palcoscenici più vicini dellavanspettacolo
e della rivista sono integrati con intelligenza in un intrattenimento dalto
stile e di satira di costume convalidata nel tempo. Andrée Ruth Shammah compone un amalgama omogeneo fra ingredienti
drammaturgici con sapiente lettura, in confidenza creativa con i propri attori.
Nobilitati nella sensibilità, liberati dal cabotinage, pericoloso per
chi ama confrontarsi sinceramente con il pubblico e simpegna a far ridere,
profittando delle situazioni ambigue e amplificandone le facoltà allusive. Ciò
che potrebbe restare uno studio sulle potenzialità del buffo e del grottesco
(inseguito mediante caricatura e distorsione) diventa meccanismo di azioni e
reazioni di decisa efficacia drammatica. Due ex compagni di scuola (il benestante Zancopè e il
cuoco Mistenghi), ritrovatisi a una festa commemorativa, cedono alla bisboccia
e, per eccesso dalcol e dentusiasmo, finiscono
in stato dincoscienza. Cresce limbarazzo quando al risveglio si trovano nello
stesso letto e con i postumi della sbronza. Il disagio si muta in senso di
colpa e poi in certezza di reato perché la moglie di Zancopè, sfogliando un
giornale, commenta un delitto consumatosi proprio nei dintorni, vittima una
carbonaia, in circostanze e indizi che collimano con la scappatella dei
compari. Un momento dello spettacolo © Francesco Bozzo Dai pochi elementi accertati, ingigantiti, equivocati,
vengono a galla piccoli segreti significativi di vizi e vezzi familiari che
scatenano la ridda di sentimenti e gesti tipici del tentativo di salvare la
propria reputazione. Ricatti e ripicche, tentazioni perverse e criminali si
rivelano via via non soltanto immaginabili, ma praticabili. Alla concitazione
degli eventi risponde in scena una freddezza imprevista, di fronte a lapsus
clamorosi e a menzogne palesi insistite, capaci di guastare ogni contatto
autentico. Certo si ride, ma dun sorriso dal gusto agro, per un malessere più
profondo, inerente alla natura della vicenda e della coppia che la vive. Un momento dello spettacolo © Francesco Bozzo Questa avventura di Labiche (e Albert Monnier
e Édouard Martin collaboratori), che parrebbe vivere della complicità di due attori che giocano a farsi da "spalla", suggerisce poi anche la figura di un doppio latente, in grado di incarnare due gemelli o raffigurare maschere d'origine diabolica. Nella schietta recitazione, un distacco mirabile dal gesto naturalistico è mantenuto. Negata l'ilarità condiscendente della farsa, sorge un'asciutta crudeltà di nuove relazioni insospettate. Un distanziamento direi brechtiano regola tutti i personaggi (affiancati dalle sagome curiose di Paolo Ventura, mosse dall'addetto Luca Cesa-Bianchi) sospesi sull'orlo della pagliacciata, motivabile con una verve goliardica in follia senile. Dai gesti ripetitivi del rimosso nasce inoltre una sostanziale, profonda amarezza, nella sospensione raggelata del giudizio morale di fronte alle conseguenze nefaste delle scelte impellenti. Scenografia fissa, ma dal meccanismo complesso che
rende semplice e fluida la funzionalità degli spazi mutevoli, nelle pareti e
nel sipario. Con porte, varchi, vie di fuga, aperti al moto incessante dei
personaggi, in mezzo ai quali Norina indaga da sagace detective. Le musiche
originali di Alessandro Nidi sono
nate da prove sui testi reinventati dei couplets, intercalati in canto,
vocalizzo e recitativo, adattati a unItalia più recente di un secolo rispetto
a quella originale del 1857. In tournée mancano purtroppo i musicisti in
scena, esecutori alla creazione delle note impressionistiche brevi e laconiche,
molto importanti per valenza gestuale oltre che ritmica. Un momento dello spettacolo © Francesco Bozzo La recitazione richiesta dalla regista è affettuosa e
riconoscente verso attori generosi, ben legati a una viva tradizione. Il
dialogo, che comprende gli “a parte” e lo
scambio con il pubblico, infrange la quarta parete, nel gioco che rompe e poi
rinsalda la finzione. Massimo
Dapporto in Zancopè è ironicamente dimostrativo della propria arte
sedimentata e raffinata. Antonello
Fassari, concreto e lieve clown di maliziose movenze e pure feroce e rude
per farla franca. Cercano insieme luscita dal labirinto allucinante, prima di
separarsi in identità autonome, quando Mistenghi svanirà nellinesistente donde
proveniva (nelloriginale, veniva rispedito come pacco postale). Altra
variante, il maggiordomo aggiunto: al giovane Giustino (Christian Pradella) saffianca il pensionando Amedeo (Andrea Soffiantini), in un passaggio di
consegne fra generazioni, per le quali vale il ritornello: «Ruba ogni giorno un
po». Susanna Marcomeni è la signora
Zancopè, puntuale nellinterrompere con interventi vocali ogni svolta scenica
del pasticciaccio. Calma e razionale, riesce la più adeguata a risolvere
linquietante progressione del caso. Il cugino Potardo (Antonio Cornacchione) è presenza pretestuosa necessaria nel
contesto familiare, comparsa nel giorno del battesimo di suo figlio. I versetti
didascalici si fanno sempre più espliciti nella corsa verso il finale, con
notazioni e sentenze dun vaudeville ormai nostro contemporaneo. Dopo il bisogno di lavarsi le mani dei presunti
complici nel crimine anacronistico e immaginario – momento in cui le macchie di
carbone alludono a quelle di sangue di un Macbeth
di provincia – la precisazione sulla data del giornale annunciatore del
misfatto dissolve il mistero, risibile infine. Più liberatorio, allora, il
canto inneggia al quieto vivere, fonte e frutto di routine, di compromesso e di
beato conformismo.
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