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Incubi borghesi a ritmo ebbro di vaudeville

di Gianni Poli
  Il delitto della via dell’Orsina
Data di pubblicazione su web 26/01/2023  

Nello spirito della miglior tradizione boulevardière parigina, l’operazione della regista del Teatro Franco Parenti riesce a parlare, in modo chiaro, della società in evoluzione fra passato e presente. Convenzioni lontane e modi fioriti sui palcoscenici più vicini dell’avanspettacolo e della rivista sono integrati con intelligenza in un intrattenimento d’alto stile e di satira di costume convalidata nel tempo. Andrée Ruth Shammah compone un amalgama omogeneo fra ingredienti drammaturgici con sapiente lettura, in confidenza creativa con i propri attori. Nobilitati nella sensibilità, liberati dal cabotinage, pericoloso per chi ama confrontarsi sinceramente con il pubblico e s’impegna a far ridere, profittando delle situazioni ambigue e amplificandone le facoltà allusive. Ciò che potrebbe restare uno studio sulle potenzialità del buffo e del grottesco (inseguito mediante caricatura e distorsione) diventa meccanismo di azioni e reazioni di decisa efficacia drammatica. 

Due ex compagni di scuola (il benestante Zancopè e il cuoco Mistenghi), ritrovatisi a una festa commemorativa, cedono alla bisboccia e, per eccesso d’alcol e d’entusiasmo, finiscono in stato d’incoscienza. Cresce l’imbarazzo quando al risveglio si trovano nello stesso letto e con i postumi della sbronza. Il disagio si muta in senso di colpa e poi in certezza di reato perché la moglie di Zancopè, sfogliando un giornale, commenta un delitto consumatosi proprio nei dintorni, vittima una carbonaia, in circostanze e indizi che collimano con la scappatella dei compari.  


Un momento dello spettacolo
© Francesco Bozzo

Dai pochi elementi accertati, ingigantiti, equivocati, vengono a galla piccoli segreti significativi di vizi e vezzi familiari che scatenano la ridda di sentimenti e gesti tipici del tentativo di salvare la propria reputazione. Ricatti e ripicche, tentazioni perverse e criminali si rivelano via via non soltanto immaginabili, ma praticabili. Alla concitazione degli eventi risponde in scena una freddezza imprevista, di fronte a lapsus clamorosi e a menzogne palesi insistite, capaci di guastare ogni contatto autentico. Certo si ride, ma d’un sorriso dal gusto agro, per un malessere più profondo, inerente alla natura della vicenda e della coppia che la vive. 


Un momento dello spettacolo
© Francesco Bozzo

Questa avventura di Labiche (e Albert Monnier e Édouard Martin collaboratori), che parrebbe vivere della complicità di due attori che giocano a farsi da "spalla", suggerisce poi anche la figura di un doppio latente, in grado di incarnare due gemelli o raffigurare maschere d'origine diabolica. Nella schietta recitazione, un distacco mirabile dal gesto naturalistico è mantenuto. Negata l'ilarità condiscendente della farsa, sorge un'asciutta crudeltà di nuove relazioni insospettate. Un distanziamento direi brechtiano regola tutti i personaggi (affiancati dalle sagome curiose di Paolo Ventura, mosse dall'addetto Luca Cesa-Bianchi) sospesi sull'orlo della pagliacciata, motivabile con una verve goliardica in follia senile. Dai gesti ripetitivi del rimosso nasce inoltre una sostanziale, profonda amarezza, nella sospensione raggelata del giudizio morale di fronte alle conseguenze nefaste delle scelte impellenti.

Scenografia fissa, ma dal meccanismo complesso che rende semplice e fluida la funzionalità degli spazi mutevoli, nelle pareti e nel sipario. Con porte, varchi, vie di fuga, aperti al moto incessante dei personaggi, in mezzo ai quali Norina indaga da sagace detective. Le musiche originali di Alessandro Nidi sono nate da prove sui testi reinventati dei couplets, intercalati in canto, vocalizzo e recitativo, adattati a un’Italia più recente di un secolo rispetto a quella originale del 1857. In tournée mancano purtroppo i musicisti in scena, esecutori alla creazione delle note impressionistiche brevi e laconiche, molto importanti per valenza gestuale oltre che ritmica. 


Un momento dello spettacolo
© Francesco Bozzo

La recitazione richiesta dalla regista è affettuosa e riconoscente verso attori generosi, ben legati a una viva tradizione. Il dialogo, che comprende gli “a parte” e lo scambio con il pubblico, infrange la quarta parete, nel gioco che rompe e poi rinsalda la finzione. Massimo Dapporto in Zancopè è ironicamente dimostrativo della propria arte sedimentata e raffinata. Antonello Fassari, concreto e lieve clown di maliziose movenze e pure feroce e rude per farla franca. Cercano insieme l’uscita dal labirinto allucinante, prima di separarsi in identità autonome, quando Mistenghi svanirà nell’inesistente donde proveniva (nell’originale, veniva rispedito come pacco postale). Altra variante, il maggiordomo aggiunto: al giovane Giustino (Christian Pradella) s’affianca il pensionando Amedeo (Andrea Soffiantini), in un passaggio di consegne fra generazioni, per le quali vale il ritornello: «Ruba ogni giorno un po’». Susanna Marcomeni è la signora Zancopè, puntuale nell’interrompere con interventi vocali ogni svolta scenica del pasticciaccio. Calma e razionale, riesce la più adeguata a risolvere l’inquietante progressione del caso. Il cugino Potardo (Antonio Cornacchione) è presenza pretestuosa necessaria nel contesto familiare, comparsa nel giorno del battesimo di suo figlio. I versetti didascalici si fanno sempre più espliciti nella corsa verso il finale, con notazioni e sentenze d’un vaudeville ormai nostro contemporaneo. 

Dopo il bisogno di lavarsi le mani dei presunti complici nel crimine anacronistico e immaginario – momento in cui le macchie di carbone alludono a quelle di sangue di un Macbeth di provincia – la precisazione sulla data del giornale annunciatore del misfatto dissolve il mistero, risibile infine. Più liberatorio, allora, il canto inneggia al quieto vivere, fonte e frutto di routine, di compromesso e di beato conformismo.   



Il delitto della via dell’Orsina
cast cast & credits
 



Un momento dello spettacolo visto il 18 gennaio 2023 al Teatro "Gustavo Modena" di Genova
© Francesco Imbriani

 
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