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Requiem, oltre Muti

di Daniele Palma
  Messa da Requiem
Data di pubblicazione su web 10/01/2023  

Ci sono opere in grado di far vacillare anche i più intransigenti oppositori dei concetti di “genio” e “capolavoro”, concetti su cui poggia l’edificio monumentale della storia della musica eurocolta – quel “museo delle cere” che, da Lydia Goehr in avanti, s’è cercato a più riprese di discutere e decostruire. Ebbene, la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi è a pieno titolo una di queste opere. La storia è nota: dalle ceneri di un omaggio collettivo a Rossini che si fece solo sulla carta (dunque, non si fece), Verdi riprese il suo originario Libera me Domine e intrecciò un’ora e mezza di fracassi e mezze voci, cesellati brusii oltretombali e vette abbacinanti di suono e colore, immediatamente affrancati dalla destinazione liturgico-cerimoniale degli onori a Manzoni, il 22 maggio 1874, per diventare la più teatrale delle messe da morto. Dinanzi all’ingegno che coglie l’abisso e lo segna su carta da musica, vacillano le menti e tremano i polsi; tanto più se sul podio c’è Riccardo Muti, che solca quelle pagine da oltre cinquant’anni. Così sarebbe potuto essere. Così è stato solo in parte, per una serie di ragioni.

Innanzitutto, il contesto. La produzione di questa Messa da Requiem è legata a doppio filo alle attività “didattiche” e divulgative che Muti porta avanti da ormai otto anni nel quadro della sua Italian Opera Academy: una scuola per giovani direttori e, più in generale, per tutte le maestranze coinvolte nella resa sonora di un’opera del grande repertorio italiano, luogo di ideale negoziato tra il mondo che fu e quello che viene. Muti, qui, si fa vate e garante di una specifica tradizione di valori e pratiche, sul filo di quell’idea di golden age che grossa parte ha nel gioco della cultura musicale, con tanto di simulacri di autenticazione simbolica – un facsimile dell’autografo verdiano presente in sala, a Ravenna, durante le prove aperte al pubblico. Il trittico di concerti segue dunque a un processo di scavo che parcellizza la partitura per affidarne una parte a ciascuno degli allievi, di modo che l’unità viene recuperata soltanto dopo il loro concerto finale (13 dicembre).

Poi le maestranze e, in primo luogo, le masse. Da un lato abbiamo l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, formazione che raccoglie alcuni tra i migliori giovani musicisti italiani, con esiti qualitativi che nulla hanno da invidiare a compagini ben più blasonate e istituzionali. E infatti la loro prova è formidabile per intonazione, puntualità negli attacchi, duttilità e pienezza di suono, con vertici di particolare bellezza nel Lacrimosa, in chiusura di Sequenza, e nell’Offertorio.

Un momento del concerto

Dall’altro lato, invece, un gruppo vocale che nasce all’uopo dall’unione tra Cremona Antiqua, prevalentemente specializzato nel repertorio antico, e il Coro Cherubini, sorta di fratello minore del progetto orchestrale mutiano. Seppur entrambi siano guidati da Antonio Greco, qui con l’ausilio di Diego Maccagnola, si percepisce a tratti l’assenza di una consuetudine, di una identità. Certo non giova, a Ravenna, la mancanza di una cassa armonica, al punto che il suono si disperde in quinta e graticcia; meglio a Bologna, complice la discreta diffusione a mezzo altoparlanti (necessaria, date le asperità del luogo, e condivisa anche da orchestra e solisti). In generale, soprattutto, almeno una ventina di elementi in più avrebbe garantito maggiore presenza, specie nelle pagine più dense – le molteplici ripetizioni del Dies irae, ad esempio, e il Sanctus, che Verdi scrive per doppio coro. Bene o benissimo, invece, laddove si tratta di far polifonia a quattro, o si resta tra il pianissimo e il mezzo-forte.

E veniamo ai solisti. Al netto di facili frequentazioni cibernetiche di cast stellari del passato e del presente, è doveroso riconoscere i rispettivi meriti ai quattro bravi (ma non siderali) professionisti impegnati in questo Requiem. La voce forse più interessante è quella del mezzosoprano Isabel De Paoli: sporadiche incertezze di intonazione e qualche sofferenza in acuto sono controbilanciate da formidabili ed emozionanti discese nel registro di petto – del resto, una qualità che Verdi stesso apprezzava in Maria Waldmann, creatrice di Amneris e, due anni più tardi, di questa Messa. Più convincente di concerto in concerto è la prova di Klodjan Kaçani: se ci limitiamo ai due passaggi forse più iconici della sua parte, il tenore ci ripaga della salita affrettata al Si bemolle acuto che conclude l’Ingemisco con un Hostias in bellissima mezza voce. Il più solido è Riccardo Zanellato (basso), del resto il più navigato dei quattro, oltreché da anni collaboratore di Muti in numerosi progetti verdiani. La voce non è forse potentissima, ma non ci sono sbavature di sorta, o accenti che scadano in gigioneria. Infine, la giovane Juliana Grigoryan, vincitrice dell’ultimo Operalia di Placido Domingo, affronta le note scritte per Teresa Stolz con uno strumento che, se sarà sottoposto a rigorose cure nei prossimi anni, le riserverà un posto tra i cantanti di rango. Per ora sembrano mancare due cose: una stamina che le consenta di reggere al meglio il legato, soprattutto in passaggi quali la ricapitolazione del Requiem, nel Libera me domine; e, soprattutto, la capacità di gestire le gradazioni intermedie tra il forte e il pianissimo – non incandescente il primo, meravigliosamente perlaceo il secondo.

Infine, la direzione. Alla luce di tutti i summenzionati elementi di contesto e delle caratteristiche della compagine, Muti sembra prevalentemente impegnato a far di necessità virtù. Un esempio su tutti: ancora quell’ultimo Requiem prima della fuga finale. Qui, semplicemente, si vorrebbe che il tempo si fermasse; e invece il direttore affretta il passo, rifuggendo da qualsivoglia fluttuazione agogica che darebbe respiro a due pagine (tante sono nell’edizione critica di David Rosen) tra le più stupefacenti che Verdi abbia mai scritto. E affretta il passo perché deve farlo: coro e solista non reggerebbero altrimenti, e rischierebbe di venir meno il filato sul Si bemolle acuto, essenziale come tutti gli acuti finali. Peccato.

Un momento del concerto

Al netto di tutte queste considerazioni, è da rilevare un’accoglienza di pubblico calorosissima, tanto più significativa se si considera l’eterogeneità degli spettatori durante le tre serate. Per il terzo concerto, ospitato il 19 dicembre dal bolognese PalaDozza, gli oltre tremila biglietti munificamente offerti alla cittadinanza dall’azienda Illumia sono andati esauriti in poche ore. E pochi posti sono rimasti vuoti a Ravenna (15 dicembre) e Rimini (17 dicembre), segno tangibile del livello di attesa generato dall’evento e, soprattutto, dal nome del direttore, con qualche immancabile “Bravo Muti!” balenato da palchi e gradinate.

Ma che Requiem abbiamo ascoltato? In definitiva, quello di un grande vecchio, un Riccardo che ha ormai alle spalle i furori coi quali ha costruito le fortune di Muti. Forse sono mancate intensità ed emozione tali da inchiodarci alla sedia; forse, però, è risuonato un pensiero che cercava di guardare al di là di fracassi e brusii, al cuore della nostra condizione. E un paio di lacrime, ammettiamolo, sono scorse.    



Messa da Requiem



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Chi scrive ha potuto assistere agli spettacoli del 15 e 19 dicembre, rispettivamente al Teatro Alighieri di Ravenna e al PalaDozza d Bologna

 
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