Ci sono opere in grado di far
vacillare anche i più intransigenti oppositori dei concetti di “genio” e
“capolavoro”, concetti su cui poggia ledificio monumentale della storia della
musica eurocolta – quel “museo delle cere” che, da Lydia Goehr in avanti, sè cercato a più riprese di discutere e
decostruire. Ebbene, la Messa da Requiem di
Giuseppe Verdi è a pieno titolo una
di queste opere. La storia è nota: dalle ceneri di un omaggio collettivo a Rossini che si fece solo sulla carta
(dunque, non si fece), Verdi riprese il suo originario Libera me Domine e intrecciò unora e mezza di fracassi e mezze
voci, cesellati brusii oltretombali e vette abbacinanti di suono e colore,
immediatamente affrancati dalla destinazione liturgico-cerimoniale degli onori
a Manzoni, il 22 maggio 1874, per
diventare la più teatrale delle messe da morto. Dinanzi allingegno che coglie
labisso e lo segna su carta da musica, vacillano le menti e tremano i polsi;
tanto più se sul podio cè Riccardo Muti,
che solca quelle pagine da oltre cinquantanni. Così sarebbe potuto essere.
Così è stato solo in parte, per una serie di ragioni. Innanzitutto, il contesto. La
produzione di questa Messa da Requiem
è legata a doppio filo alle attività “didattiche” e divulgative che Muti porta
avanti da ormai otto anni nel quadro della sua Italian Opera Academy: una
scuola per giovani direttori e, più in generale, per tutte le maestranze
coinvolte nella resa sonora di unopera del grande repertorio italiano, luogo
di ideale negoziato tra il mondo che fu e quello che viene. Muti, qui, si fa
vate e garante di una specifica tradizione di valori e pratiche, sul filo di
quellidea di golden age che grossa
parte ha nel gioco della cultura musicale, con tanto di simulacri di
autenticazione simbolica – un facsimile dellautografo verdiano presente in
sala, a Ravenna, durante le prove aperte al pubblico. Il trittico di concerti
segue dunque a un processo di scavo che parcellizza la partitura per affidarne
una parte a ciascuno degli allievi, di modo che lunità viene recuperata
soltanto dopo il loro concerto finale (13 dicembre). Poi le maestranze e, in primo
luogo, le masse. Da un lato abbiamo lOrchestra Giovanile Luigi Cherubini,
formazione che raccoglie alcuni tra i migliori giovani musicisti italiani, con
esiti qualitativi che nulla hanno da invidiare a compagini ben più blasonate e
istituzionali. E infatti la loro prova è formidabile per intonazione,
puntualità negli attacchi, duttilità e pienezza di suono, con vertici di
particolare bellezza nel Lacrimosa,
in chiusura di Sequenza, e nellOffertorio. Un momento del concerto Dallaltro lato, invece, un
gruppo vocale che nasce alluopo dallunione tra Cremona Antiqua,
prevalentemente specializzato nel repertorio antico, e il Coro Cherubini, sorta
di fratello minore del progetto orchestrale mutiano. Seppur entrambi siano
guidati da Antonio Greco, qui con
lausilio di Diego Maccagnola, si
percepisce a tratti lassenza di una consuetudine, di una identità. Certo non
giova, a Ravenna, la mancanza di una cassa armonica, al punto che il suono si
disperde in quinta e graticcia; meglio a Bologna, complice la discreta
diffusione a mezzo altoparlanti (necessaria, date le asperità del luogo, e
condivisa anche da orchestra e solisti). In generale, soprattutto, almeno una
ventina di elementi in più avrebbe garantito maggiore presenza, specie nelle
pagine più dense – le molteplici ripetizioni del Dies irae, ad esempio, e il Sanctus,
che Verdi scrive per doppio coro. Bene o benissimo, invece, laddove si tratta
di far polifonia a quattro, o si resta tra il pianissimo e il mezzo-forte.
E veniamo ai solisti. Al netto di
facili frequentazioni cibernetiche di cast stellari del passato e del presente,
è doveroso riconoscere i rispettivi meriti ai quattro bravi (ma non siderali)
professionisti impegnati in questo Requiem.
La voce forse più interessante è quella del mezzosoprano Isabel De Paoli: sporadiche incertezze di intonazione e qualche
sofferenza in acuto sono controbilanciate da formidabili ed emozionanti discese
nel registro di petto – del resto, una qualità che Verdi stesso apprezzava
in Maria Waldmann, creatrice di
Amneris e, due anni più tardi, di questa Messa.
Più convincente di concerto in concerto è la prova di Klodjan Kaçani: se ci limitiamo ai due passaggi forse più iconici
della sua parte, il tenore ci ripaga della salita affrettata al Si bemolle
acuto che conclude lIngemisco con un
Hostias in bellissima mezza voce. Il
più solido è Riccardo Zanellato (basso),
del resto il più navigato dei quattro, oltreché da anni collaboratore di Muti
in numerosi progetti verdiani. La voce non è forse potentissima, ma non ci sono
sbavature di sorta, o accenti che scadano in gigioneria. Infine, la giovane Juliana Grigoryan, vincitrice
dellultimo Operalia di Placido Domingo, affronta le note scritte per Teresa Stolz con uno strumento che, se
sarà sottoposto a rigorose cure nei prossimi anni, le riserverà un posto tra i
cantanti di rango. Per ora sembrano mancare due cose: una stamina che le
consenta di reggere al meglio il legato, soprattutto in passaggi quali la
ricapitolazione del Requiem, nel Libera me domine; e, soprattutto, la
capacità di gestire le gradazioni intermedie tra il forte e il pianissimo
– non incandescente il primo, meravigliosamente perlaceo il secondo. Infine, la direzione. Alla luce
di tutti i summenzionati elementi di contesto e delle caratteristiche della
compagine, Muti sembra prevalentemente impegnato a far di necessità virtù. Un
esempio su tutti: ancora quellultimo Requiem
prima della fuga finale. Qui, semplicemente, si vorrebbe che il tempo si
fermasse; e invece il direttore affretta il passo, rifuggendo da qualsivoglia
fluttuazione agogica che darebbe respiro a due pagine (tante sono nelledizione
critica di David Rosen) tra le più
stupefacenti che Verdi abbia mai scritto. E affretta il passo perché deve
farlo: coro e solista non reggerebbero altrimenti, e rischierebbe di venir meno
il filato sul Si bemolle acuto, essenziale come tutti gli acuti finali.
Peccato. Un momento del concerto Al netto di tutte queste
considerazioni, è da rilevare unaccoglienza di pubblico calorosissima, tanto
più significativa se si considera leterogeneità degli spettatori durante le
tre serate. Per il terzo concerto, ospitato il 19 dicembre dal bolognese
PalaDozza, gli oltre tremila biglietti munificamente offerti alla cittadinanza
dallazienda Illumia sono andati esauriti in poche ore. E pochi posti sono
rimasti vuoti a Ravenna (15 dicembre) e Rimini (17 dicembre), segno tangibile
del livello di attesa generato dallevento e, soprattutto, dal nome del
direttore, con qualche immancabile “Bravo Muti!” balenato da palchi e gradinate. Ma che Requiem abbiamo ascoltato? In definitiva, quello di un grande
vecchio, un Riccardo che ha ormai alle spalle i furori coi quali ha costruito
le fortune di Muti. Forse sono mancate intensità ed emozione tali da
inchiodarci alla sedia; forse, però, è risuonato un pensiero che cercava di
guardare al di là di fracassi e brusii, al cuore della nostra condizione. E un
paio di lacrime, ammettiamolo, sono scorse.
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