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Il ritorno di Europa

di Giuseppe Gario
  Il ritorno di Europa
Data di pubblicazione su web 14/12/2022  


«Auri sacra fames», l’esecranda fame d’oro dell’Eneide virgiliana, conduce a «la miseria de l’avaro Mida, / che seguì a la sua dimanda gorda/  per la quale sempre convien che si rida» (Dante, Purgatorio, XX, 106). Nella modernità l’intelligenza umana si forma in purgatorio.

«Dopo un anno catastrofico i mercati finanziari sono rimbalzati da poco più di un mese», «ma rischia di essere solo illusione, ammonisce la Banca Centrale Europea nel rapporto sulla stabilità finanziaria, il 16 novembre». «Secondo la BCE i mercati finanziari non hanno valutato bene la reale misura della recessione in arrivo». «L’altro monito è più tecnico e inquietante. È sui rischi di disfunzione dei mercati, come nel fallimento della banca americana Lehmann Brothers che nel 2008 provocò un crollo mondiale». «La BCE cita il panico finanziario a settembre nel Regno Unito. Il governo presentò un grande piano di riduzioni fiscali senza copertura di bilancio e provocò l’ovvio rialzo del tasso di interesse delle obbligazioni statali. Ma l’uragano ha fatto tremare parte dei fondi-pensione, possessori di prodotti derivati [contratti finanziari legati al valore di altri cespiti, ndr] che li esponevano a rialzi troppo brutali dei tassi. Nell’emergenza hanno dovuto coprire in contanti le perdite, vendendo di furia altri titoli e aggravando la caduta dei mercati. Solo l’intervento della Banca d’Inghilterra ha ristabilito la calma. La BCE teme che così possa accadere nel settore della energia». «Il problema, secondo la BCE, è che i derivati sono per lo più detenuti da “alcune grandi imprese dell’energia” e forniti solo da un pugno di grandi banche. È un mercato piccolo e gestito da pochi attori, ma riguarda imprese di importanza sistemica. “Posizioni molto concentrate […] pongono rischi di stabilità finanziaria”». «Al momento il mercato ha tenuto. Ma suona la sveglia» (É. Albert, Pour la BCE, le risque financier sur les marchés “augmente”, in «Le Monde», 16 novembre 2022, on line). 

Anche «il boom delle criptovalute è stato enormemente incoraggiato dalle montagne di liquidità iniettata dalle banche centrali nel sistema finanziario. Questo denaro, creato praticamente dal nulla, ha spinto gli investitori a attività sempre più rischiose e sempre più barocche per avere rendimenti sempre più alti. Il ritorno a politiche monetarie più ortodosse ha il merito di bucare la bolla delle criptomonete. Vanno regolate con fermezza» (Èditorial. Réguler enfin les cryptomonnaies, ivi).

«Due settimane fa Sam Bankman-Fried era nella stratosfera. Terza in importanza, la sua criptovaluta FTX era valutata 32 miliardi di dollari; il patrimonio personale 16. Per i prorompenti venture capitalist di Silicon Valley era il genio finanziario che poteva stupire», «a Washington è stato il volto accettabile di crypto». «Oggi restano un milione di creditori furiosi, decine di società di crittografia traballanti e un proliferare di indagini normative e penali». «Che crypto sopravviva o diventi curiosità finanziaria come secoli fa i bulbi di tulipano, non dipenderà dalla regolamentazione». «Non c’è innovazione se investitori e utenti temono che i loro soldi finiscano in nulla. Per risalire, crypto deve trovare usi validi, lasciando perdere le boiate» (Is the end of crypto?, in «The Economist», 19-25 novembre 2022, on line).

Secondo il «presidente Theodore Roosvelt (1901-1909), “Spendere fortune in opere benefiche non potrà mai compensare il comportamento scorretto che ha permesso di accumularle”» (J.-M. Bezat, Philantropie: Jeff Bezos, enfin, in «Le Monde», 16 novembre 2022, on line). Due guerre mondiali dopo, David Bazelon confermava che «il solo significato esistenziale di iniziativa si riferisce a ciò che gli uomini d’affari generalmente stanno facendo in quel momento, e libera è soltanto la concomitante pretesa di esser lasciati in pace a farlo. Nel complesso l’ideologia corrente del mondo economico è soltanto un’evasione dalla realtà della vita accompagnata da pugni sul tavolo. Faceva il gallo nel pollaio prima del New Deal e resta oggi l’interpretazione più onnipresente di Quel che Stiamo Facendo. Ma si è messa sulla difensiva, e da qualche tempo il suo principale contenuto è sempre più: Quel Che Stiamo Facendo di Sbagliato» (D. Bazelon, L’economia di carta, Milano, Edizioni di Comunità, 1964, p. 29).

Ora è il Purgatorio Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri (N. Klein, Milano, Rizzoli, 2012), in cui un «evento inaspettato e non prevedibile, esterno al sistema economico, ne influenza in modo positivo o negativo l’andamento» (Dizionario di economia e finanza, Treccani on line). Per dire, la guerra di Putin che «sta facendo della Russia uno stato fallito, confini fuori controllo, formazioni militari private, popolazioni in fuga, decadenza morale e possibile conflitto civile. E benché sia aumentata la fiducia dei leader occidentali nella capacità dell’Ucraina di resistere al terrore di Putin, cresce l’allarme sulla capacità della Russia di sopravvivere alla guerra. Potrebbe essere ingovernabile e precipitare nel caos» (Russia risks becoming ungovernable and descending into chaos, in «The Economist», “Today”, 22 novembre 2022, on line). Tra superprofitti e alta inflazione, Biden ha varato un piano di protezione e rilancio industriale, ma in UE «bisognerebbe rompere il dogma di libero-scambio, ultimi paesi sviluppati a sostenerlo» e per «accelerare la transizione energetica l’Europa deve comprare cinese, compromettendo la propria rinascita industriale in questi settori. La scelta tra sovranità industriale e clima è già fatta» (P. Escande, Transition ou industrie, le dilemme, in «Le Monde», 3 dicembre 2022, on line). Ma si è infine raggiunto l’accordo franco-tedesco per costruire il prototipo del futuro aereo da combattimento europeo (Accord sur l’avion de chasse européen du futur, ivi).

È il ritorno di Europa.

 

Il ritorno di Europa. La nuova Germania e il vecchio continente di Hagen Schulze, docente di storia contemporanea e teoria della storia all’Università di Berlino, ricorda che «purtroppo la storia non è avara di figure di “capi” generati dal caos, che abbiano tentato di mascherare le contraddizioni interne proiettandole all’esterno (e dichiarando guerra al vicino)». «E fino a quando la democrazia russa sarà una pianticella indifesa senza salde radici, la tentazione del bonapartismo resterà attuale. Non meno rischioso lo scenario alternativo, che vedrebbe una Russia in grado di fermare il processo di disgregazione e avviarsi al prossimo secolo con un sistema moderno e rigenerato» (H. Schulze, Il ritorno di Europa, Roma, Donzelli, p. 7). E «soltanto adesso ci si rende conto di una verità imbarazzante: tutti, persino i più accaniti sostenitori dell’unità europea, in realtà avevano contato sul mantenimento dei due blocchi; nessuno aveva mai davvero progettato e pensato un’Europa unitaria. La logica del filo spinato era stata più forte della speranza» (ivi, pp. 8-9).

«Mancano argomenti geomorfologici in grado di distinguere Asia ed Europa. E così ai geografi riuniti negli anni sessanta in megacongressi organizzati dal Consiglio d’Europa per redigere una volta per tutte definizioni da manuale, non restò che negare ogni base scientifica del continente. Si giunse alla conclusione che l’Europa poteva essere considerata autonomamente solo a partire “dall’uomo e dalle sue opere di colonizzazione del territorio, dalla sua economia, dalla sua cultura, dalla sua storia e dalla sua politica”» (ivi, p. 16) «L’Europa diventa veicolo di identificazione politica in presenza di un nemico avvertito come totalmente “altro”; l’opposizione fondamentale è sempre libertà “europea” / dispotismo “barbaro”; il concetto di Europa scompare con l’allontanarsi della minaccia. Ma queste sono antiche e sparse tracce, delle quali una sola è arrivata a noi in tutta la sua forza: l’idea della libertà» (ivi, p. 18). «È proprio questa la situazione attuale: senza i due despoti del XX secolo, Hitler e Stalin, il movimento unitario europeo non sarebbe mai nato» (ivi, p. 25).

«Ma l’ostacolo decisivo a un senso forte di identità europea sta proprio nella testa della gente. Poiché il sentimento comunitario discende da un passato condiviso, ci si riconosce anzitutto nella propria storia nazionale». «Perché l’Europa prenda corpo dobbiamo imparare a pensarla» (ivi, p. 27). «Si delinea dunque un elemento decisivo dell’identità europea: la varietà delle idee, delle culture, delle regioni e degli stati, che impedisce il perdurare delle egemonie dei singoli». «La varietà dura fino a quando è in grado di autoregolamentarsi: nelle relazioni tra stati, nei rapporti tra stato e cittadino, e tra cittadini di una stessa comunità. Il balance of powers è il corrispettivo della democrazia interna, in cui gli interessi dei cittadini e delle associazioni trovano un equilibrio su base giuridica, per lo più sotto forma di costituzione: attraverso di essa vengono bilanciati non solo diritti, doveri e interessi dei singoli, ma anche le competenze delle istituzioni statali, mediante una vigilanza reciproca che tempera il potere di ciascuna» (ivi, p. 30). «Se dunque parliamo di continuità storica, la potremo intendere soltanto in un senso: l’unità di una cultura caratterizzata dalla pluralità, nata da matrici greche, romane, cristiane, umanistiche, culminata nell’idea di libertà e dignità dell’uomo, protetta dalla democrazia» (ivi, p. 36). Sta qui l’identità europea.

Lo conferma l’aggressione russa all’Ucraina, oltre a confermare che «la distinzione tra identità nazionale soggettiva (modello francese e occidentale) e oggettiva (modello tedesco, mittel-europeo e orientale) non è affatto una costruzione arbitraria degli storici. Ha avuto spesso conseguenze politiche tangibili come nel caso degli alsaziani, tra i primi ad aderire alla repubblica francese dopo la Rivoluzione, e che tuttavia i tedeschi continuarono a considerare parte del proprio territorio a causa della loro lingua. Le tragiche conseguenze dello scontro tra i due modelli di nazione sono visibili ancora oggi. Se persino in Europa occidentale l’ereditaria inimicizia franco-tedesca riuscì a perpetuarsi per centocinquant’anni, si potrà forse immaginare la portata degli odi diffusi in quelle regioni dell’Europa orientale dove quasi ogni villaggio parla una lingua diversa. Le rivalità tra polacchi e lituani, dei bielorussi e degli ucraini, di bulgari, serbi, macedoni, greci e turchi hanno avvelenato l’Europa conducendola alla prima guerra mondiale, sopravvivendo ad ogni conflitto». «L’Europa di oggi corre i medesimi rischi». «Contrariamente alle aspettative, le pressioni del capitale occidentale non sono sufficienti a temperare i conflitti orientali, né a impiantare democrazie pacifiche. I materialisti profeti del benessere si trovano di fronte a una realtà inattesa: i sentimenti nazionali possono essere più forti degli interessi economici» (ivi, pp. 38-39). Ma c’è di più.

«Non è la divisione in nazioni a minacciare l’Europa, ma la pressione di stati nazionali che aspirano all’impossibile coincidenza di nazione, lingua e territorio. In un continente dai confini così angusti, l’impossibilità di tale progetto ha già più volte scatenato la nevrosi di massa del nazionalismo». «Abbiamo bisogno di ordinamenti più ampi» (ivi, p. 41). «Le nazioni europee, all’inizio del XIX secolo ancora costruzioni utopiche, oggi rivelano la loro vitalità culturale e spirituale, e molto di più: esprimono quella pluralità che costituisce l’essenza dell’Europa» (ivi, p. 42) e la sua memoria.

«La memoria, sia individuale sia collettiva, si rivela come il più grande ammortizzatore per lo shock» (Klein, Shock Economy, cit., p. 530). «L’esperienza universale di sopravvivere a un grande shock è la sensazione di essere completamente impotenti: di fronte a forze colossali, i genitori perdono la capacità di salvare i loro bambini, i coniugi sono separati, le case – luoghi di protezione – diventano trappole mortali. Il modo migliore per risollevarsi dall’impotenza si rivela quello di essere d’aiuto: avere il diritto di far parte di un risanamento collettivo» (ivi, p. 533). Il diritto attuato nel Next Generation EU, finanziamento temporaneo 2021-2027 di 806,9 miliardi di euro (750 stando ai prezzi del 2018) per rendere l’Europa più verde, digitale e resiliente. Ma nel Mediterraneo e nella Manica non è rispettata l’antica legge del mare di salvare i naufraghi. Due torti non fanno una ragione, «è tempo di finirla con un blame game (“la faute à l’autre” [“scaricabarile”]) mortale» (Éditorial. Migrations transmanche: l’impossible statu quo, in «Le Monde», 22 novembre 2022, on line). C’è un ottimo motivo per farlo.

Se «i meccanismi della dottrina dello shock sono profondamente e collettivamente compresi, diventa più difficile cogliere di sorpresa intere comunità, diventa più difficile gettarle nella confusione. Sono diventate a prova di shock» (Klein, Shock Economy, cit., p. 525). «A volte, di fronte a una crisi, cresciamo: in fretta» (ivi, p. 529). I popoli e gli scambi – politica e economia – prosperano nella relazione e collassano nel conflitto: come nei rapporti personali, contano durata e qualità della relazione. «Negli Stati Uniti, la crisi del 1929 ha permesso un salto federale (creazione di un’imposta federale sui profitti, legislazione sulle banche, New Deal, ecc.)» (P. Larrouturou, C’est plus grave que ce qu’on vous dit… mais on peut s’en sortir, Paris, Nova Éditions, 2012, p. 95). «Jean Monnet diceva sempre che l’Europa avanza solo con idee semplici. Mettere in comune acciaio e carbone, creare una moneta unica, sono cantieri enormi ma idee semplici che un bambino di cinque anni può capire. L’Europa avanza solo con idee semplici. Semplici, ma radicali» (ivi, p. 96).

Messi in comune carbone e acciaio e ora la moneta, è tempo di un’altra «idea semplice: costruire insieme un’Europa politica, dove il voto dei cittadini ha un impatto diretto sulle politiche europee, e quindi istituire un regime parlamentare» (ivi, p. 97). In area euro, perché una moneta forte fa la differenza tra governo e governatorato, con l’obiettivo storicamente europeo di realizzare «l’idea di libertà e di dignità dell’uomo, protetta dalla democrazia» (Schulze, Il ritorno di Europa, cit. p. 36). Dopo la rivoluzione francese, il crollo degli imperi austroungarico, tedesco, turco, russo e due guerre mondiali, Keynes ci ha aiutati a capire che economia e politica funzionano solo se lavorano insieme per – non contro – i diritti delle persone e dei popoli.






 
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