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Il silenzio delle terre dimenticate

di Alessia Guida*
  Utama – le terre dimenticate
Data di pubblicazione su web 09/12/2022  

Con il suo primo lungometraggio l’esordiente regista Alejandro Loayza Grisi conquista il Gran Premio della giuria al Sundance Film Festival ed è ora in corsa per la candidatura agli Oscar 2023 come miglior film internazionale. Utama – le terre dimenticate, prodotto da Alma Films, ci trasporta, attraverso l’incredibile fotografia di Barbara Alvarez, in una Bolivia silenziosa e sconfinata che pian piano viene consumata e inaridita da una crisi climatica sempre più feroce.

Le quasi due ore di proiezione raccontano la storia di un’anziana coppia di nativi Quechua. Virginio (José Calcina) è un pastore e allevatore di lama, costretto ogni giorno a percorrere diversi chilometri per trovare un po’ d’acqua e che segretamente si trascina una malattia che peggiora giorno dopo giorno. Sisa (Luisa Quispe) gestisce delle attività casalinghe. I due, tenacemente attaccati ai loro riti e tradizioni, tentano di sopravvivere in una terra ormai quasi del tutto abbandonata, colpita dai drammatici disastri ambientali. Il nipote Clever (Santos Choque) tenta in ogni modo di convincerli a trasferirsi in città per evitare loro un destino tragico.


Una scena del film

Attraverso la contrapposizione tra i due anziani protagonisti e il giovane nipote, il regista mette in campo uno scontro generazionale fra tradizione e modernità. Da una parte la riluttanza a voltare le spalle alla propria casa, a cambiare le proprie abitudini, a rischiare la cancellazione della propria cultura e di conseguenza la perdita della propria identità; dall’altra la mancanza di sensibilità nello strappare la coppia dalle proprie radici. «Se andiamo via le nostre terre saranno abbandonate al silenzio». Ed è proprio il silenzio la caratteristica principe di questo racconto: un silenzio assordante nella rappresentazione di immensi spazi deserti e aridi di una Bolivia che sembra fin troppo lontana, e un silenzio commovente dato dagli intensi ma semplici sguardi dei protagonisti. Una scelta, quella di Loayza Grisi, di grande efficacia, che colpisce lo spettatore ponendolo di fronte a una verità pungente ma allo stesso tempo lo emoziona attraverso la manifestazione del sentimento viscerale verso la propria terra. 

Nonostante il legame tra nonno e nipote cresca e si intensifichi, Clever diventa per Virginio la personificazione dell’inarrestabile cambiamento ambientale e dell’incredibile forza distruttiva che vuole inghiottire la sua cultura e ritualità. Il loro scontro è mediato dall’anziana donna capace di comprendere entrambi i punti di vista, pur nella consapevolezza dell’impossibilità di abbandonare “utama”, parola che nella lingua dei nativi significa “la nostra casa”. Il tratto realistico di questa rappresentazione è rafforzato dal fatto che i due attori scelti per interpretare Virginio e Sisa sono realmente una coppia di nativi Quechua.


Una scena del film

Un ruolo importante nel film assume il condor, la cui apparizione, per Virginio, presagisce la fine, non solo della sua terra ma anche della sua stessa vita. Il condor, animale sacro in Bolivia, è il protettore delle montagne, oltre che l’incarnazione della fonte della vita. Viene, inoltre, associato all’immortalità per il modo in cui muore, ovvero ritornando al suo nido sulle montagne quasi a celebrare l’inizio di un nuovo ciclo di vita. «Sai cosa fa il condor quando arriva la sua ora, quando sente di essere diventato inutile? Piega le ali, ritrae le zampe e si abbandona al vuoto». Oggi in via di estinzione, l’animale diventa metafora della scomparsa del ciclo ambientale. Ma allo stesso tempo è, per Virginio, un segnale del suo lento addio alla vita che sta per scadere. Un destino segnato, accettato con serenità dall’anziano allevatore di lama, che rifiuta le cure moderne della città decidendo di morire nella sua terra natia, in un ultimo profondo gesto d’amore verso la sua cultura. 

Utama è un film che tenta di sensibilizzare non solo alla problematica ambientale, ma soprattutto al tragico destino di tutte quelle culture, lingue, piccole popolazioni che stanno scomparendo giorno dopo giorno. Lo fa con estrema delicatezza, permettendo allo spettatore di entrare in progressiva empatia con il mondo di questa coppia di nativi, con i loro riti e tradizioni. Attraverso inquadrature fisse, sottolineate dalle musiche evocative di Federico Moreira, la cinepresa riesce a rappresentare il lento scorrere della vita e la desertificazione inesorabile delle terre boliviane. Una pellicola solenne, maestosa, ma al tempo stesso umile, che sfrutta tutti gli strumenti a sua disposizione per lanciare un ultimo straziante grido di aiuto.

Studentessa di Digital humanities per la Storia dello spettacolo del Corso di laurea magistrale in Scienze dello spettacolo, Dipartimento SAGAS, Università di Firenze.




Utama – le terre dimenticate
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La locandina
 
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