Con
il suo primo lungometraggio lesordiente regista Alejandro Loayza Grisi
conquista il Gran Premio della giuria al Sundance Film Festival ed è ora in
corsa per la candidatura agli Oscar 2023 come miglior film internazionale. Utama
– le terre dimenticate, prodotto da Alma Films, ci trasporta, attraverso
lincredibile fotografia di Barbara Alvarez, in una Bolivia silenziosa e
sconfinata che pian piano viene consumata e inaridita da una crisi climatica
sempre più feroce. Le quasi due ore di proiezione raccontano la storia di unanziana coppia
di nativi Quechua. Virginio (José
Calcina) è un pastore e allevatore di lama, costretto ogni giorno a
percorrere diversi chilometri per trovare un po dacqua e che segretamente si
trascina una malattia che peggiora giorno dopo giorno. Sisa (Luisa Quispe) gestisce delle attività
casalinghe. I due, tenacemente attaccati ai loro riti e tradizioni, tentano di
sopravvivere in una terra ormai quasi del tutto abbandonata, colpita dai
drammatici disastri ambientali. Il nipote Clever (Santos Choque) tenta in ogni modo di
convincerli a trasferirsi in città per evitare loro un destino tragico. Una scena del film
Attraverso
la contrapposizione tra i due anziani protagonisti e il giovane nipote, il
regista mette in campo uno scontro generazionale fra tradizione e modernità. Da
una parte la riluttanza a voltare le spalle alla propria casa, a cambiare le
proprie abitudini, a rischiare la cancellazione della propria cultura e di
conseguenza la perdita della propria identità; dallaltra la mancanza di
sensibilità nello strappare la coppia dalle proprie radici. «Se andiamo via le nostre terre saranno abbandonate al
silenzio». Ed è proprio il silenzio la caratteristica principe di questo
racconto: un silenzio assordante nella rappresentazione di immensi spazi
deserti e aridi di una Bolivia che sembra fin troppo lontana, e un silenzio
commovente dato dagli intensi ma semplici sguardi dei protagonisti. Una scelta,
quella di Loayza Grisi, di grande efficacia, che colpisce lo spettatore ponendolo
di fronte a una verità pungente ma allo stesso tempo lo emoziona attraverso la
manifestazione del sentimento viscerale verso la propria terra.
Nonostante il legame tra
nonno e nipote cresca e si intensifichi, Clever diventa per Virginio la
personificazione dellinarrestabile cambiamento ambientale e dellincredibile
forza distruttiva che vuole inghiottire la sua cultura e ritualità. Il loro
scontro è mediato dallanziana donna capace di comprendere entrambi i punti di
vista, pur nella consapevolezza dellimpossibilità di abbandonare “utama”, parola
che nella lingua dei nativi significa “la nostra casa”. Il tratto realistico di
questa rappresentazione è rafforzato dal fatto che i due attori scelti per
interpretare Virginio e Sisa sono realmente una coppia di nativi Quechua. Una scena del film
Un
ruolo importante nel film assume il condor, la cui apparizione, per Virginio,
presagisce la fine, non solo della sua terra ma anche della sua stessa vita. Il
condor, animale sacro in Bolivia, è il protettore delle montagne, oltre che lincarnazione
della fonte della vita. Viene, inoltre, associato allimmortalità per il modo
in cui muore, ovvero ritornando al suo nido sulle montagne quasi a celebrare
linizio di un nuovo ciclo di vita. «Sai cosa fa il condor quando arriva la sua
ora, quando sente di essere diventato inutile? Piega le ali, ritrae le zampe e
si abbandona al vuoto». Oggi in via di estinzione, lanimale diventa metafora della
scomparsa del ciclo ambientale. Ma allo stesso tempo è, per Virginio, un
segnale del suo lento addio alla vita che sta per scadere. Un destino segnato,
accettato con serenità dallanziano allevatore di lama, che rifiuta le cure
moderne della città decidendo di morire nella sua terra natia, in un ultimo
profondo gesto damore verso la sua cultura.
Utama è un film che
tenta di sensibilizzare non solo alla problematica ambientale, ma soprattutto al
tragico destino di tutte quelle culture, lingue, piccole popolazioni che stanno
scomparendo giorno dopo giorno. Lo fa con estrema delicatezza, permettendo allo
spettatore di entrare in progressiva empatia con il mondo di questa coppia di
nativi, con i loro riti e tradizioni. Attraverso inquadrature fisse,
sottolineate dalle musiche evocative di Federico Moreira, la cinepresa riesce a rappresentare il
lento scorrere della vita e la desertificazione inesorabile delle terre
boliviane. Una pellicola solenne, maestosa, ma al tempo stesso umile, che sfrutta
tutti gli strumenti a sua disposizione per lanciare un ultimo straziante grido
di aiuto. * Studentessa di Digital humanities per la Storia dello spettacolo del Corso di laurea magistrale in Scienze dello spettacolo, Dipartimento SAGAS, Università di Firenze.
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