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La solitudine dell’artista (e della drag queen)

di Paolo Patrizi
  Tannhäuser
Data di pubblicazione su web 04/11/2022  

«Passo gigantesco» verso il proprio ideale estetico (lo ribadì, mentre ancora ci stava lavorando, in una celebre lettera del 1844 al pittore Ernst Kietz), Tannhäuser rimase per Wagner un’opera aperta: tre stesure, di cui almeno due con momenti assai diversi tra loro, e la consapevolezza di non essere mai approdato a una versione definitiva, come ancor oggi conferma l’abitudine di proporne vulgate che attingono, mischiandoli, un po’ all’uno e un po’ all’altro dei vari materiali disponibili. Ma Tannhäuser – il personaggio è storico, benché di questo poeta del tredicesimo secolo sia pervenuto poco – è anche un’opera nevralgica nel rapporto tra Wagner e cultura germanica, dunque tanto estranea allo spettatore straniero (il fiasco della première parigina sta a dimostrarlo) quanto problematica per il pubblico tedesco. La sua miscela di fonti medievali e romantiche approda a una nuova forma di saga, di mito, di teatro musicale: ed è proprio qui che il compositore getta i semi più fecondi per il suo futuro transito dalla romantische Oper all’opera “totale”, basata sul completo equilibrio tra canto e parola. Infine, si tratta pure di una creazione ai confini dell’irrappresentabile in termini di disposizioni sceniche. Il paradosso wagneriano della “scena invisibile” a ben vedere parte da qui, non dai grandi capolavori della maturità, ed è sintomatico che molti tra i più importanti Tannhäuser proposti in Germania negli ultimi anni, dalla messinscena di Koohestani a Darmstadt a quella di Castellucci a Monaco, giochino la carta della sinergia tra palcoscenico e video.


Una scena dello spettacolo
© Silke Winkler

A questa dialettica tra linguaggio teatrale e cinematografico attinge pure la nuova produzione del Mecklenburgisches Staatstheater di Schwerin, dove la regia di Martin Berger cede spesso la mano al videomaker Daniel Weiss e il Dramaturg Philipp Amelsungen edifica un percorso narrativo parallelo, rispetto a quello del libretto, che sarebbe incomprensibile senza l’ausilio delle immagini filmate. Sebbene la rilettura sia di quelle “estreme”, lo spettacolo ha una coerenza che solo nell’ultimo atto tende un po’ a sfaldarsi e rende giustizia anche all’altro aspetto di cui si diceva: Tannhäuser come epitome e rimescolamento di tanta cultura, e storia, tedesca. Con un livido bianco e nero memore di Heimat, i filmati – muti ma eloquentissimi – partono dal 1972, anno di nascita d’un odierno Tannhäuser (lo vediamo neonato tra le braccia di due genitori molto felici e molto borghesi), e attraversano mezzo secolo, fino al protagonista cinquantenne nell’attuale 2022. Dunque, mentre l’ouverture risuona in orchestra, il video segue la crescita del piccolo Heinrich (viene utilizzato questo nome fuggevolmente usato pure nel libretto, che non solo fu, per alcune fonti, il vero nome del protagonista, ma è quello – non sarà un dettaglio – dell’Ofterdingen di Novalis). Ne scaturisce una cavalcata attraverso i decenni, talvolta diacronica e talvolta ideale: quando Heinrich, giovincello, in triangolo col coetaneo Wolfram e l’adolescente Elisabeth scopre le gioie (ma, nel suo caso, anche le titubanze) dell’amore libero, i tre appaiono in puro stile hippy anni Settanta. Eppure siamo dopo quel periodo, se il personaggio è nato nel ’72. 

Un’Elisabeth niente affatto verginale fa però venir meno la natura ascetica e, nell’epilogo, salvifica del ruolo. Normalizzato il personaggio (dopo i divertimenti adolescenziali evolve in brava madre di famiglia con due figli nati proprio dal matrimonio con Heinrich), non ha più senso la dicotomia tra Elisabeth e Venere, amore spirituale versus amore carnale: metafora – ad andare oltre la facciata – d’un approccio cognitivo intellettuale o emozionale, per Wagner l’eros essendo ansia di conoscenza prima ancora che di piacere. Diventa quindi necessario ripensare tale scontro, che qui si muta nel transito del protagonista dall’eterosessualità alle frontiere del travestitismo. Sicché pure Venere perde la sua aura di eccezionalità: non demonica signora della passione, e neppure dea innamorata di un essere umano, ma tenutaria d’un locale di drag queen.


Una scena dello spettacolo
© Silke Winkler

In questa prosaicizzazione dei rapporti, un po’ iconoclasta per il wagneriano tradizionalista (a Schwerin non sono mancati i dissensi della critica e del pubblico), a fare da contrappeso alle immagini stridule dei filmati provvede ciò che si vede in palcoscenico. Sebbene con tale impaginazione lo spettacolo appaia un po’ latitante di teatralità autentica, la regia di Berger ha momenti di poesia struggente: a cominciare dal pastorello che rappresenta il primo incontro del protagonista nella sua ridiscesa al mondo degli umani, e qui ha le stesse fattezze di Heinrich adolescente nel video (a “doppiare” la voce del ragazzo è, fuori scena, il musicalissimo soprano Marie-Louise Tosheva). Tali squarci poetici vengono poi affiancati da altri più cerebrali, ma non meno stimolanti, come quel campo di fiori irreali che sono un implicito rimando al fantomatico “fiore blu” di Novalis. A ricordarci, e infittire la rete dei rimandi all’immaginario tedesco, che – al pari di Tannhäuser – pure quello di Heinrich von Ofterdingen è un viaggio alla ricerca di sé stessi. 

Introiettato il viaggio interiore come perno drammaturgico dell’opera, resta da percepirne il corollario: che per Wagner è la struggente esperienza del ritorno. Qui sono soprattutto i filmati – sorta di ricorrente contrappunto dello spettacolo anche dopo l’ouverture – a restituire questa Sehnsucht (memorabile le sequenze del trasognato protagonista con valigia), preparandoci a un epilogo che per un Tannhäuser siffatto non potrà certo essere catartico. In un apparente lieto fine il protagonista viene reintegrato nel consesso civile, la moglie riaccoglie di buon grado il marito dopo la sbandata gay, i bambini giocano con le drag queen, perfino Venere viene santificata (o globalizzata?) apparendo in manto e corona da Madonna. Ma l’ultima immagine è su Tannhäuser/Heinrich che resta solo. Com’è nel destino degli artisti. E, forse, di ogni essere umano. 

General Musik Direktor dell’orchestra locale, Mark Rohde compie al tempo stesso un peccato e un atto di umiltà. Per tutta la durata della Sinfonia e del Baccanale (ossia finché lo schermo non cede il passo al palcoscenico) si mette al servizio del racconto in video, facendo retrocedere a una posizione ancillare – la colonna sonora di un film – quella che resta la più grandiosa introduzione orchestrale del teatro wagneriano. In termini di estroversione fonica e articolazione strumentale si perde abbastanza (sebbene sia sufficiente a intuire le potenzialità del direttore, confermate nel prosieguo della serata), ma in effetti, se all’inizio non ci si concentra sulla narrazione filmata, gli sviluppi della messinscena non saranno semplici da seguire. E per quanto si possa discutere su questo pragmatico “prima lo spettacolo, poi la musica”, le qualità di Rohde restano indubbie, sul piano narrativo (un passo spedito senza però scantonare in inutili velocità) come su quello espressivo (uno stesso Leitmotiv risuona ogni volta in modo differente, a seconda delle situazioni in cui si presenta). Lo corroborano l’ottima risposta di orchestrali e coristi, tra l’altro ottimi attori.


Una scena dello spettacolo
© Silke Winkler

Tuttavia, lo spettacolo difficilmente sarebbe stato una scommessa vinta senza la presenza di Heiko Börner, non solo bravo tenore, ma eccellente tecnico e grande artista. Pur senza avere lo spessore massiccio abbinato al metallo rifulgente che la tradizione richiede all’Heldentenor wagneriano, domina tutta la scrittura dal cantabile al declamato (un paio di occasionali slittamenti d’emissione non infirmano nulla): ogni frase, pausa, sfumatura viene assimilata e ricreata, si tratti della triplice – ogni volta cangiante – richiesta di libertà a Venere, della sarcastica perorazione durante il certamen poetico o della vocalità frantumata, sciolta da ogni quadratura sintattica, del racconto del pellegrinaggio a Roma. E vederlo trasformarsi con una stupefazione obbediente ai casi del destino in platinata drag queen, oppure certi dolorosi primi piani filmati del suo volto di cinquantenne sfatto, danno conto d’un enorme talento di attore. 

Voce più privilegiata (un autentico colore baritonale) e musicalità altrettanto salda avrebbe il Wolfram di Brian Davis, che patisce però la scelta registica di fare del personaggio non l’innamorato platonico di Elisabeth, bensì il suo “ex” ancora preso da lei: l’invocazione alla stella della sera è ben cantata, ma singhiozzi e gesticolamenti al termine del brano rovinano l’effetto. Poco convincente anche al di là della riscrittura drammaturgica la Venere di Gala El Hadidi (una vocalità molto aspra), mentre la medietas canora della corretta Camila Ribero-Souza è del tutto congrua per l’Elisabeth umanizzata e desantificata di questo spettacolo.




Tannhäuser



cast cast & credits
 
trama trama



Una scena dello spettacolo visto al Mecklenburgisches Staatstheater di Schwerin il 25 ottobre 2022
© Silke Winkler
 
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