«Passo gigantesco» verso il proprio
ideale estetico (lo ribadì, mentre ancora ci stava lavorando, in una celebre lettera
del 1844 al pittore Ernst Kietz), Tannhäuser rimase per Wagner
unopera aperta: tre stesure, di cui almeno due con momenti assai diversi
tra loro, e la consapevolezza di non essere mai approdato a una versione definitiva,
come ancor oggi conferma labitudine di proporne vulgate che attingono,
mischiandoli, un po alluno e un po allaltro dei vari materiali disponibili.
Ma Tannhäuser – il personaggio è storico, benché di questo poeta del
tredicesimo secolo sia pervenuto poco – è anche unopera nevralgica nel
rapporto tra Wagner e cultura germanica, dunque tanto estranea allo spettatore
straniero (il fiasco della première parigina sta a dimostrarlo) quanto
problematica per il pubblico tedesco. La sua miscela di fonti medievali e
romantiche approda a una nuova forma di saga, di mito, di teatro musicale: ed è
proprio qui che il compositore getta i semi più fecondi per il suo futuro
transito dalla romantische Oper allopera “totale”, basata sul
completo equilibrio tra canto e parola. Infine, si tratta pure di una creazione
ai confini dellirrappresentabile in termini di disposizioni sceniche. Il
paradosso wagneriano della “scena invisibile” a ben vedere parte da qui, non
dai grandi capolavori della maturità, ed è sintomatico che molti tra i più
importanti Tannhäuser proposti in Germania negli ultimi anni, dalla
messinscena di Koohestani a Darmstadt a quella di Castellucci a
Monaco, giochino la carta della sinergia tra palcoscenico e video.
Una scena dello spettacolo © Silke Winkler
A questa dialettica tra
linguaggio teatrale e cinematografico attinge pure la nuova produzione del
Mecklenburgisches Staatstheater di Schwerin, dove la regia di Martin Berger
cede spesso la mano al videomaker Daniel Weiss e il Dramaturg Philipp
Amelsungen edifica un percorso narrativo parallelo, rispetto a quello del
libretto, che sarebbe incomprensibile senza lausilio delle immagini filmate. Sebbene
la rilettura sia di quelle “estreme”, lo spettacolo ha una coerenza che solo
nellultimo atto tende un po a sfaldarsi e rende giustizia anche allaltro
aspetto di cui si diceva: Tannhäuser come epitome e rimescolamento di
tanta cultura, e storia, tedesca. Con un livido bianco e nero memore di Heimat,
i filmati – muti ma eloquentissimi – partono dal 1972, anno di nascita dun odierno
Tannhäuser (lo vediamo neonato tra le braccia di due genitori molto felici e molto
borghesi), e attraversano mezzo secolo, fino al protagonista cinquantenne nellattuale
2022. Dunque, mentre louverture risuona in orchestra, il video segue la
crescita del piccolo Heinrich (viene utilizzato questo nome fuggevolmente usato
pure nel libretto, che non solo fu, per alcune fonti, il vero nome del protagonista,
ma è quello – non sarà un dettaglio – dellOfterdingen di Novalis).
Ne scaturisce una cavalcata attraverso i decenni, talvolta diacronica e talvolta
ideale: quando Heinrich, giovincello, in triangolo col coetaneo Wolfram e ladolescente
Elisabeth scopre le gioie (ma, nel suo caso, anche le titubanze) dellamore
libero, i tre appaiono in puro stile hippy anni Settanta. Eppure siamo dopo
quel periodo, se il personaggio è nato nel 72.
UnElisabeth niente affatto
verginale fa però venir meno la natura ascetica e, nellepilogo, salvifica del ruolo.
Normalizzato il personaggio (dopo i divertimenti adolescenziali evolve in brava
madre di famiglia con due figli nati proprio dal matrimonio con Heinrich), non
ha più senso la dicotomia tra Elisabeth e Venere, amore spirituale versus
amore carnale: metafora – ad andare oltre la facciata – dun approccio cognitivo
intellettuale o emozionale, per Wagner leros essendo ansia di conoscenza prima
ancora che di piacere. Diventa quindi necessario ripensare tale scontro, che qui
si muta nel transito del protagonista dalleterosessualità alle frontiere del travestitismo.
Sicché pure Venere perde la sua aura di eccezionalità: non demonica signora
della passione, e neppure dea innamorata di un essere umano, ma tenutaria dun
locale di drag queen. Una scena dello spettacolo © Silke Winkler
In questa prosaicizzazione dei
rapporti, un po iconoclasta per il wagneriano tradizionalista (a Schwerin non
sono mancati i dissensi della critica e del pubblico), a fare da contrappeso
alle immagini stridule dei filmati provvede ciò che si vede in palcoscenico. Sebbene
con tale impaginazione lo spettacolo appaia un po latitante di teatralità
autentica, la regia di Berger ha momenti di poesia struggente: a cominciare dal
pastorello che rappresenta il primo incontro del protagonista nella sua
ridiscesa al mondo degli umani, e qui ha le stesse fattezze di Heinrich
adolescente nel video (a “doppiare” la voce del ragazzo è, fuori scena, il
musicalissimo soprano Marie-Louise Tosheva). Tali squarci poetici vengono
poi affiancati da altri più cerebrali, ma non meno stimolanti, come quel campo
di fiori irreali che sono un implicito rimando al fantomatico “fiore blu” di Novalis.
A ricordarci, e infittire la rete dei rimandi allimmaginario tedesco, che – al
pari di Tannhäuser – pure quello di Heinrich von Ofterdingen è un
viaggio alla ricerca di sé stessi.
Introiettato il viaggio interiore
come perno drammaturgico dellopera, resta da percepirne il corollario: che per
Wagner è la struggente esperienza del ritorno. Qui sono soprattutto i filmati –
sorta di ricorrente contrappunto dello spettacolo anche dopo louverture
– a restituire questa Sehnsucht (memorabile le sequenze del trasognato protagonista
con valigia), preparandoci a un epilogo che per un Tannhäuser siffatto non
potrà certo essere catartico. In un apparente lieto fine il protagonista viene reintegrato
nel consesso civile, la moglie riaccoglie di buon grado il marito dopo la
sbandata gay, i bambini giocano con le drag queen, perfino
Venere viene santificata (o globalizzata?) apparendo in manto e corona da
Madonna. Ma lultima immagine è su Tannhäuser/Heinrich che resta solo. Comè
nel destino degli artisti. E, forse, di ogni essere umano.
General Musik Direktor dellorchestra
locale, Mark Rohde compie al tempo stesso un peccato e un atto di
umiltà. Per tutta la durata della Sinfonia e del Baccanale (ossia finché lo
schermo non cede il passo al palcoscenico) si mette al servizio del racconto in
video, facendo retrocedere a una posizione ancillare – la colonna sonora di un film
– quella che resta la più grandiosa introduzione orchestrale del teatro wagneriano.
In termini di estroversione fonica e articolazione strumentale si perde abbastanza
(sebbene sia sufficiente a intuire le potenzialità del direttore, confermate nel
prosieguo della serata), ma in effetti, se allinizio non ci si concentra sulla
narrazione filmata, gli sviluppi della messinscena non saranno semplici da
seguire. E per quanto si possa discutere su questo pragmatico “prima lo spettacolo,
poi la musica”, le qualità di Rohde restano indubbie, sul piano narrativo (un
passo spedito senza però scantonare in inutili velocità) come su quello espressivo
(uno stesso Leitmotiv risuona ogni volta in modo differente, a seconda delle
situazioni in cui si presenta). Lo corroborano lottima risposta di orchestrali
e coristi, tra laltro ottimi attori.
Una scena dello spettacolo © Silke Winkler
Tuttavia, lo spettacolo difficilmente
sarebbe stato una scommessa vinta senza la presenza di Heiko Börner,
non solo bravo tenore, ma eccellente tecnico e grande artista. Pur senza avere lo
spessore massiccio abbinato al metallo rifulgente che la tradizione richiede
allHeldentenor wagneriano, domina tutta la scrittura dal cantabile al
declamato (un paio di occasionali slittamenti demissione non infirmano nulla):
ogni frase, pausa, sfumatura viene assimilata e ricreata, si tratti della
triplice – ogni volta cangiante – richiesta di libertà a Venere, della
sarcastica perorazione durante il certamen poetico o della vocalità
frantumata, sciolta da ogni quadratura sintattica, del racconto del pellegrinaggio
a Roma. E vederlo trasformarsi con una stupefazione obbediente ai casi del
destino in platinata drag queen, oppure certi dolorosi primi
piani filmati del suo volto di cinquantenne sfatto, danno conto dun enorme talento
di attore.
Voce più privilegiata (un autentico colore
baritonale) e musicalità altrettanto salda avrebbe il Wolfram di Brian Davis,
che patisce però la scelta registica di fare del personaggio non linnamorato
platonico di Elisabeth, bensì il suo “ex” ancora preso da lei: linvocazione
alla stella della sera è ben cantata, ma singhiozzi e gesticolamenti al termine
del brano rovinano leffetto. Poco convincente anche al di là della riscrittura
drammaturgica la Venere di Gala El Hadidi (una vocalità molto aspra), mentre
la medietas canora della corretta Camila Ribero-Souza è del tutto
congrua per lElisabeth umanizzata e desantificata di questo spettacolo.
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