Fedora di Umberto Giordano è
unopera che apre al Novecento. Lo fa perché il suo debutto è del 1898, ma
ancor di più perché porta sulle scene dellopera un racconto “di genere”, uno
di quelli che il pubblico avrebbe consumato con avidità crescente nei libri, nei
fumetti, al cinema e poi alla televisione per tutto il secolo seguente e oltre.
Il genere qui è il “giallo”. Non che nelle opere mancassero cospirazioni, delitti
e quindi suspence o colpi di scena fino a quelle date. Certo è che però poche ne sono
totalmente dominate come Fedora. Merito del dramma di Victorien
Sardou che ne è allorigine (la sua Fédora è del 1882); merito anche del libretto di Arturo Colautti che di quel dramma conserva tutte le peculiarità.
La storia è quella di un delitto eccellente, luccisione
a San Pietroburgo del conte Vladimiro Andrejevich, cui fanno seguito sia giuramenti
di vendetta (quello della sua promessa sposa Fedora, su una croce bizantina),
sia – e questo è laspetto interessante – le indagini della polizia. La vicenda
si complica con spostamenti a Parigi e nelle Alpi bernesi, dove, sullo sfondo
di feste e intrighi, si scoprono i colpevoli e si consuma la tragedia, come
nella migliore tradizione dei gialli. Detta così sembra la storia di un film. E
infatti, è risaputo quanto il cinema debba alla drammaturgia di Sardou, e, soprattutto,
a quelle opere che lhanno assorbita e diffusa consegnandola al futuro e ai
nuovi media in forme più asciutte, icastiche e quindi efficaci. Fedora di Giordano è una
di queste opere. Non solo per il libretto, ma anche per la musica che lautore
scrive. Nel saggio pubblicato nel programma di sala (Il ritmo drammatico di “Fedora” e il gioco della “suspence”), Marco Targa sottolinea il taglio
cinematografico dellopera (sorprendente perché Fedora è del 1898, quando il cinema era ancora un esperimento) e l«accorciamento
e condensazione» delle melodie, intense e brevissime, così da non intralciare
lo scorrere dellazione, come se lopera fosse già un film.
Una scena dello spettacolo © Brescia e Amisano - Teatro alla Scala
Eppure, nonostante la sua drammaturgia
cinematografica, la modernità di Fedora è presto passata di moda, e lopera è finita per essere come tutte
quelle di parte della “Giovane Scuola” un esempio del cattivo gusto
melodrammatico “di una volta”. Infatti, quando, con larrivo di Riccardo Chailly, alla Scala si sono
riviste opere da tempo non frequentate, sono sorti da più parti dubbi e anche
qualche malumore, per scelte di repertorio che sembravano voler tirare fuori
dal baule titoli ormai usurati dal tempo. Finora Giordano è stato il campione
di questa linea editoriale scaligera: il teatro ha iniziato con Andrea Chénier, che ha avuto addirittura
lonore di inaugurare una stagione, quella del 2018 (e sarà ripresa il prossimo
maggio), preceduta nel 2016 dalla ancora più sorprendente Cena delle beffe, a cui
fa seguito adesso Fedora. Opere tra loro molto diverse, ma tutte affidate alla regia di Mario
Martone, che della loro diversità ha fatto la chiave interpretativa delle
sue letture.
Una scena dello spettacolo © Brescia e Amisano - Teatro alla Scala
Per Martone Fedora è lopera del Novecento di cui si diceva poco fa; lopera i cui personaggi vivono situazioni e sentimenti che richiamano più i migliori noir del grande schermo che quelli tipici del melodramma. Nello spettacolo, se il primo atto si svolge in un ambiente contemporaneo qualsiasi (un attico elegante tra i grattacieli di una metropoli di oggi), il secondo e il terzo sono calati nelle evidenti citazioni di due celebri quadri di Magritte (LEmpire des lumiéres, il secondo; LAssasin menacé, il terzo) – nel secondo atto cè poi anche una citazione nella citazione (Les Amants). Queste scelte visive hanno leffetto di farci percepire la vicenda in modi del tutto nuovi, perché consentono a Martone di esaltarne gli aspetti inquietanti, finora mai messi in evidenza nelle regie realistiche che hanno da sempre caratterizzato gli allestimenti dellopera. Con Martone invece i protagonisti vivono in un mondo dorato, ma circondati dalla minaccia costante che emerge da quegli ambienti così perfetti da suscitare un senso di angoscia. Seguendo lopera raccontata da Martone, ci si
chiede costantemente che cosa si celerà dietro i fondali ben disegnati à la Magritte, così
netti, perentori e per questo così misteriosi (scene di Margerita Palli;
ludi di Pasquale Mari). Chi sono e cosa vogliono gli onnipresenti omini
col cappello (tutti rigorosamente modello “Fedora”; costumi di Ursula Patzak)
che osservano noi e la scena, generando una tensione ansiosa che contrappunta
tutta la storia? Grazie alla regia la musica di Giordano acquista effetti
sorprendenti, perché i suoi squarci lirici così «accorciati e condensati»
sembrano brevi tentativi di fuga da un mondo spietato e ormai incomprensibile,
incapace ormai di dare ai personaggi protezione o anche solo consolazione anche
quando si rifugiano nei paradisi del turismo moderno (Parigi o le Alpi svizzere). Una scena dello spettacolo © Brescia e Amisano - Teatro alla Scala
La direzione di Marco Armiliato spegne lo slancio modernista della lettura di
Martone: tempi estremamente comodi, fraseggio enfatico e sonorità tendenzialmente
forti, riportano questa Fedora nella gabbia “verista” dalla quale invece il regista la libera.
Causano anche qualche problema di bilanciamento acustico, dato che le voci
risultano di frequente coperte dal suono spesso dellorchestra. Anche la prova
degli interpreti vocali lascia qualche perplessità, con alcune differenze
significative. Sonya Yoncheva è una Fedora convinta dal punto di vista
scenico. Si nota però che il suo registro medio-basso non è quello che il ruolo
richiederebbe, e ciò incide sulla definizione del personaggio, la cui
complessità risulta sminuita (Fedora è una donna innamorata, ma allo stesso
tempo unamante ferita assetata di vendetta). Roberto Alagna (Loris) canta
tutto in modo ineccepibile, ma la voce ha perso in pastosità e brillantezza; inoltre,
la sua recitazione non è quella che si potrebbe definire “magrittiana”. George
Petean offre una buona prova attoriale come De Siriex, non sostenuta da una
vocalità di pari livello: ci si chiede come mai il ruolo non sia stato affidato
piuttosto allottimo Andrea Pellegrini, qui nel ruolo secondario di
Cirillo. Molto bene, invece, Serena Gamberoni, a suo agio nel ruolo
brillante di Olga. Bene il resto del cast, sebbene non tutto di ottimo livello
come in genere alla Scala (del resto comprensibile per Fedora, opera che richiede
un numero elevato di personaggi secondari).
Il successo alla prima è
stato pieno, sebbene non entusiastico, con qualche stanco buuu di prammatica per
Martone proveniente dal loggione.
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