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L’opera in giallo

di Vincenzo Borghetti
  Fedora
Data di pubblicazione su web 28/10/2022  

Fedora di Umberto Giordano è un’opera che apre al Novecento. Lo fa perché il suo debutto è del 1898, ma ancor di più perché porta sulle scene dell’opera un racconto “di genere”, uno di quelli che il pubblico avrebbe consumato con avidità crescente nei libri, nei fumetti, al cinema e poi alla televisione per tutto il secolo seguente e oltre. Il genere qui è il “giallo”. Non che nelle opere mancassero cospirazioni, delitti e quindi suspence o colpi di scena fino a quelle date. Certo è che però poche ne sono totalmente dominate come Fedora. Merito del dramma di Victorien Sardou che ne è all’origine (la sua Fédora è del 1882); merito anche del libretto di Arturo Colautti che di quel dramma conserva tutte le peculiarità. 

La storia è quella di un delitto eccellente, l’uccisione a San Pietroburgo del conte Vladimiro Andrejevich, cui fanno seguito sia giuramenti di vendetta (quello della sua promessa sposa Fedora, su una croce bizantina), sia – e questo è l’aspetto interessante – le indagini della polizia. La vicenda si complica con spostamenti a Parigi e nelle Alpi bernesi, dove, sullo sfondo di feste e intrighi, si scoprono i colpevoli e si consuma la tragedia, come nella migliore tradizione dei gialli. Detta così sembra la storia di un film. E infatti, è risaputo quanto il cinema debba alla drammaturgia di Sardou, e, soprattutto, a quelle opere che l’hanno assorbita e diffusa consegnandola al futuro e ai nuovi media in forme più asciutte, icastiche e quindi efficaci. Fedora di Giordano è una di queste opere. Non solo per il libretto, ma anche per la musica che l’autore scrive. Nel saggio pubblicato nel programma di sala (Il ritmo drammatico di “Fedora” e il gioco della suspence”), Marco Targa sottolinea il taglio cinematografico dell’opera (sorprendente perché Fedora è del 1898, quando il cinema era ancora un esperimento) e l’«accorciamento e condensazione» delle melodie, intense e brevissime, così da non intralciare lo scorrere dell’azione, come se l’opera fosse già un film.


Una scena dello spettacolo
© Brescia e Amisano - Teatro alla Scala

Eppure, nonostante la sua drammaturgia cinematografica, la modernità di Fedora è presto passata di moda, e l’opera è finita per essere come tutte quelle di parte della “Giovane Scuola” un esempio del cattivo gusto melodrammatico “di una volta”. Infatti, quando, con l’arrivo di Riccardo Chailly, alla Scala si sono riviste opere da tempo non frequentate, sono sorti da più parti dubbi e anche qualche malumore, per scelte di repertorio che sembravano voler tirare fuori dal baule titoli ormai usurati dal tempo. Finora Giordano è stato il campione di questa linea editoriale scaligera: il teatro ha iniziato con Andrea Chénier, che ha avuto addirittura l’onore di inaugurare una stagione, quella del 2018 (e sarà ripresa il prossimo maggio), preceduta nel 2016 dalla ancora più sorprendente Cena delle beffe, a cui fa seguito adesso Fedora. Opere tra loro molto diverse, ma tutte affidate alla regia di Mario Martone, che della loro diversità ha fatto la chiave interpretativa delle sue letture. 


Una scena dello spettacolo
© Brescia e Amisano - Teatro alla Scala

Per Martone Fedora è l’opera del Novecento di cui si diceva poco fa; l’opera i cui personaggi vivono situazioni e sentimenti che richiamano più i migliori noir del grande schermo che quelli tipici del melodramma. Nello spettacolo, se il primo atto si svolge in un ambiente contemporaneo qualsiasi (un attico elegante tra i grattacieli di una metropoli di oggi), il secondo e il terzo sono calati nelle evidenti citazioni di due celebri quadri di Magritte (L’Empire des lumiéres, il secondo; L’Assasin menacé, il terzo) – nel secondo atto c’è poi anche una citazione nella citazione (Les Amants). Queste scelte visive hanno l’effetto di farci percepire la vicenda in modi del tutto nuovi, perché consentono a Martone di esaltarne gli aspetti inquietanti, finora mai messi in evidenza nelle regie realistiche che hanno da sempre caratterizzato gli allestimenti dell’opera. Con Martone invece i protagonisti vivono in un mondo dorato, ma circondati dalla minaccia costante che emerge da quegli ambienti così perfetti da suscitare un senso di angoscia. 

Seguendo l’opera raccontata da Martone, ci si chiede costantemente che cosa si celerà dietro i fondali ben disegnati à la Magritte, così netti, perentori e per questo così misteriosi (scene di Margerita Palli; ludi di Pasquale Mari). Chi sono e cosa vogliono gli onnipresenti omini col cappello (tutti rigorosamente modello “Fedora”; costumi di Ursula Patzak) che osservano noi e la scena, generando una tensione ansiosa che contrappunta tutta la storia? Grazie alla regia la musica di Giordano acquista effetti sorprendenti, perché i suoi squarci lirici così «accorciati e condensati» sembrano brevi tentativi di fuga da un mondo spietato e ormai incomprensibile, incapace ormai di dare ai personaggi protezione o anche solo consolazione anche quando si rifugiano nei paradisi del turismo moderno (Parigi o le Alpi svizzere).


Una scena dello spettacolo
© Brescia e Amisano - Teatro alla Scala

La direzione di Marco Armiliato spegne lo slancio modernista della lettura di Martone: tempi estremamente comodi, fraseggio enfatico e sonorità tendenzialmente forti, riportano questa Fedora nella gabbia “verista” dalla quale invece il regista la libera. Causano anche qualche problema di bilanciamento acustico, dato che le voci risultano di frequente coperte dal suono spesso dell’orchestra. Anche la prova degli interpreti vocali lascia qualche perplessità, con alcune differenze significative. Sonya Yoncheva è una Fedora convinta dal punto di vista scenico. Si nota però che il suo registro medio-basso non è quello che il ruolo richiederebbe, e ciò incide sulla definizione del personaggio, la cui complessità risulta sminuita (Fedora è una donna innamorata, ma allo stesso tempo un’amante ferita assetata di vendetta). Roberto Alagna (Loris) canta tutto in modo ineccepibile, ma la voce ha perso in pastosità e brillantezza; inoltre, la sua recitazione non è quella che si potrebbe definire “magrittiana”. George Petean offre una buona prova attoriale come De Siriex, non sostenuta da una vocalità di pari livello: ci si chiede come mai il ruolo non sia stato affidato piuttosto all’ottimo Andrea Pellegrini, qui nel ruolo secondario di Cirillo. Molto bene, invece, Serena Gamberoni, a suo agio nel ruolo brillante di Olga. Bene il resto del cast, sebbene non tutto di ottimo livello come in genere alla Scala (del resto comprensibile per Fedora, opera che richiede un numero elevato di personaggi secondari). 

Il successo alla prima è stato pieno, sebbene non entusiastico, con qualche stanco buuu di prammatica per Martone proveniente dal loggione.




Fedora



cast cast & credits
 
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Roberto Alagna nello spettacolo visto il 15 ottobre 2022 al Teatro alla Scala di Milano
© Brescia e Amisano

 
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