A notevole distanza dalla scrittura, la rilettura
del testo del drammaturgo tedesco Fassbinder tende ad attenuare la
violenza provocatoria tipica dei suoi personaggi, rifluiti da unintima emblematica
autobiografia. Poco rappresentato in Italia, creato dal Teatro dellElfo (regia
di Bruni e De Capitani) nel 1998, suscitò scandalo e polemiche,
soprattutto a causa dellantisemitismo percepibile nel personaggio del Ricco
Ebreo. La regia di Giovanni Ortoleva mostra lo sforzo di adeguare i
contrasti problematici originali alla sensibilità e alla temperie culturale
odierne.
Mezzo secolo fa, incalzato dalla propria condizione di
artista omosessuale, alieno e ribelle alla patria società, Fassbinder si ispirava
al rituale mitologico e poetico di Jean Genet. Prima che dilagasse lAIDS
e mentre nutriva la rivalsa contro il disprezzo e la persecuzione dei quali si
sentiva bersaglio, già mirava, grazie a teatro e cinema, alla conquista di autonomia
e originalità creative. Sulla scena il dramma svolge in dodici “stazioni” espressioniste
un destino collettivo, incarnato in individui tormentati e tragicamente accomunati.
Attorno al centro, intensamente simbolico, di Roma B., puttana da marciapiede, agiscono
figure tipiche di una città (forse una Francoforte fantasticata) corrotta e
invivibile. I rapporti di potere che si delineano nelle dichiarazioni e nel
comportamento, coerenti e disperati, dellEbreo trovano eco in Roma. Gli altri si
adeguano alle dipendenze, debolezze, vizi e dolori della situazione. Cerca una
via duscita la donna, nel tollerare il magnaccia prepotente e manesco Franz,
omosessuale latente, bisognoso damore, in reciproca funesta simbiosi. Pure
nellodio esasperato per quanto nel maschile senta mostruoso, ella cova per lui
una morbosa attrazione.
Una scena dello spettacolo © Andrea Avezzù - La Biennale
Lincontro di Roma con lEbreo ribalta la
situazione, poiché luomo che le chiede appena di godere da solo, rinunciando
allamplesso, le induce una gratitudine affettuosa. La ragazza si emancipa nel mestiere,
realizza in proprio guadagni esorbitanti e ascende rapida la scala sociale. Franz
labbandona al nuovo ambiente, anche perché attratto da Oscar Cor trafitto. Roma,
intanto, sempre più isolata, ripudiata dalle ex compagne come traditrice, sembra
inseguire una redenzione rovesciata, nel prendere coscienza di doversi
sacrificare per lumanità più miserabile di lei.
Nella scena spoglia, su una pedana sfilano gli
attori, maschere grottesche dei ruoli. Il regista dichiara nellantirealismo la
scelta più opportuna per ambientare la vicenda, composta di allegorie, fuori
della città, oltre la terra, luoghi tanto inquinati moralmente da produrre
rifiuti materiali e umani. Quindi connotativi i nomi dei personaggi, quali
Piccolo Principe (Andrea Delfino, delatore in veste di speaker), Hansel Cor
contento e Oscar Cor trafitto (Edoardo
Sorgente). I costumi da convenzione
sfoggiano bei dettagli coloristici. La musica di Pietro Guarracino,
spesso in forma corale sacra, integra litanie di una liturgia cristiana parodiata
e blasfema, intonata dalle “signorine”. Sono invece canzoni a commentare la
sequenza dei passi dolorosi. La Canzone della città fa da intermezzo
nella prima “sfilata”, doppiata in play-back. La musica solenne, di stridente
sacralità, varia in elegia funebre, evocativa di agonismo fra vita e morte,
quando il convegno fra i due strani amanti compone una patetica (o abietta)
“pietà”. Sgorga la domanda di perdono dellEbreo che, nel linguaggio lirico e verboso
della traduzione di Roberto Menin, confessa a Roma la paura, la
solitudine, le rischiose connivenze mafiose. Il motivo seguente, dei Sogni -
Desideri, colto dalla Cenerentola disneyana, introduce
sarcasticamente alla rivelazione del carattere dei genitori di Roma, coppia dal
bieco, rimosso passato di nazisti.
Una scena dello spettacolo © Andrea Avezzù - La Biennale
Il vecchio padre Signor Müller, nel cabaret dove si esibisce travestito,
si svela alla figlia. È un numero di bravura, seriamente grottesco, inserito a
contrappunto ironico nelle battute sullolocausto, crude e raggelanti per allusività
storica e ideologica. Lusso e sfarfallio di banconote e gioielli ostentati, in
un festino nel locale equivoco. Dopo il pestaggio subìto da Franz dai suoi
rivali, la Canzone Tutta di pelle esalta risibilmente il vizio sado-masochista
e la sua divisa. Il giallo con delitti si addensa nel finale, quando i sensi di
colpa di Roma e il bisogno di immolarsi la convincono ad “abdicare” alla vita. Le
indagini sul delitto sono depistate e per salvare lEbreo, mediatore fra
notabili, anche Piccolo Principe, testimone oculare, viene eliminato. Una scena dello spettacolo © Andrea Avezzù - La Biennale
La recitazione è ben tessuta coralmente. Qualche riserva
sorge sullinterpretazione delle attrici. Camilla
Semino Favro tende a nobilitare laspirazione di Roma al vero amore,
con una dizione lirica fin troppo corretta e contenuta, che però emoziona nel
momento della preghiera decisiva. Anna Manella attenua ogni volgarità
nelle comparse da prostituta e recupera stile asciutto e preciso quale Signora
Müller, inferma su carrozzina. Gabriele
Benedetti disegna egregiamente un archetipo di ebreo, dimesso e laconico,
razionalmente orientato dal determinismo che lo guida. È lunico ad accogliere la
terribile richiesta della sua pupilla. Pare logico il suo gesto inaudito di
ucciderla, quando lo esegue funzionale per strangolamento e offre leroina in sacrificio
per la salvezza della città malvagia. Sul palcoscenico che si oscura, resta
Franz, un Marco Cacciola ammutolito e dolente, nello stupore ingenuo
anchegli capro espiatorio, ma involontario. Accanto, il cadavere della sola
che abbia amata e lo abbia ricambiato.
Spettacolo discutibile, a tratti avvincente, tra la riabilitazione di uno
stile drammaturgico e la denuncia, aggiornata nei nefasti, di una civiltà
malata incurabile.
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