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Cinema oltre il confine. Su “Khers Nist” e “Shab, Dakheli, Divar”

di Luigi Nepi
  Cinema oltre il confine
Data di pubblicazione su web 24/09/2022  

Erano anni che non si vedeva così tanto cinema iraniano alla Mostra del Cinema di Venezia con addirittura due film nel concorso principale: Khers Nist di Jafar Panahi e Shab, Dakheli, Divar di Vahid Jalilvand, autori di generazioni diverse, ma entrambi fortemente attratti dal rapporto spesso perverso tra la realtà, i fatti, la loro interpretazione e la loro rappresentazione.

Da quando, nel 2010, Panahi è stato condannato per propaganda contro il governo iraniano, ha iniziato la sua odissea di arresti (è tutt’ora in carcere), confinamenti domiciliari, sorveglianze continue, divieti di scrivere e persino di girare. Tutto questo lo ha portato a vivere in condizioni tali da costringerlo a ripensare e riadattare il suo cinema come necessità e urgenza creativa, spesso clandestina, trasformandolo in una persistente riflessione (solo apparentemente autoreferenziale) sull’opera nel suo farsi. Khers Nist è ovviamente un ulteriore tassello in questo ininterrotto scambio osmotico tra vita e racconto.

Sono due le tracce narrative che compongono il film: da una parte c’è una troupe che sta girando il nuovo film di Panahi in una città sul confine turco-iraniano, dall’altra la cronaca di ciò che accade al regista nel paesino iraniano dall’altro lato dello stesso confine, dove lui ha scelto di trasferirsi per essere il più vicino possibile al set (e poter avere senza intermediari gli hard disk con il materiale girato). Due storie che, se in premessa sembrano essere chiare e ben distinte, finiranno poi per intrecciarsi e confondersi fino a ribaltarsi e rispecchiarsi una sull’altra, come lascia intuire la prima, lunghissima inquadratura (un solo piano con due sequenze) che parte dalla ripresa di una scena del film che si sta girando in Turchia, che un lento carrello all’indietro svela essere sullo schermo del computer di Panahi che sta seguendo e dirigendo tutto collegato da remoto con il set. Un incipit che ricorda molto da vicino quello dell’ultima pellicola di Monte Hellman Road to Nowhere.


Una scena di Khers Nist

A poco a poco scopriamo che il film in fieri racconta la storia di una coppia iraniana la quale, dalla Turchia, vuole fuggire in Francia con dei documenti falsi, ma che al tempo stesso anche i due attori protagonisti sono marito e moglie nella vita e davvero stanno pensando a una fuga come quella. Contemporaneamente il regista (già “sorvegliato speciale” perché riprende e fotografa continuamente ciò che ha intorno) viene trascinato dentro una storia dai contorni kafkiani, legata a una presunta fotografia dell’incontro tra un ragazzo e una ragazza che dalla nascita era stata promessa a un altro uomo, cosa che sconvolge la vita di tutto il paese, innescando una ingiustificata serie di conseguenze in continua oscillazione tra il grottesco e il violento, per ottenere quella foto che peraltro lui non ha mai scattato. Ecco che la finzione si fa documentario e il documentario finzione; così la “flagranza” del piano sequenza perdura, insiste e pedina gli attori sul set turco, laddove invece la “manipolazione” del montaggio interviene a mostrare il precipitare degli eventi di cui Panahi è, suo malgrado, la causa nel piccolo paese che lo ospita. 

Un film girato sul confine (quello fisico, politico e culturale tra Iran e Turchia), che ne tocca inevitabilmente molti altri: quello linguistico (nella pellicola si parla farsi, turco e azero), quello sottile tra verità e menzogna (che Panahi attraversa con disinvoltura nel rapporto con chi lo circonda, nel tentativo vano di non fare degenerare la situazione), quello più definito tra lecito e illecito (che invece decide di non infrangere del tutto, tornando rapidamente indietro dalla pietra dove inizia la Turchia), quello confuso tra leggi, usi e tradizioni (che sempre Panahi non riesce più a comprendere e tantomeno a contenere), fino a quello eticamente cruciale della morte e della sua rappresentazione, che squassa entrambe le storie. Come accade in Tre volti anche in Khers Nist Panahi forza i limiti di quell’hortus conclusus in cui la giustizia iraniana vorrebbe costringerlo, portando il suo sguardo “errante” a rivelare le contraddizioni e le derive di un paese tutt’altro che riconciliato.



Una scena di Shab, Dakheli, Divar

Se Panahi è la coda della generazione nata all’ombra di Kiarostami e Naderi, Jalilvand è uno degli autori più interessanti di quel rinnovamento che indubbiamente ha in Asghar Farhadi il suo punto di riferimento. Jalilvand torna a Venezia cinque anni dopo Il dubbio - Un caso di coscienza, (vincitore della miglior regia e miglior attore protagonista della sezione Orizzonti) e lo fa con un film profondamente diverso dal precedente. Shab, Dakheli, Divar infatti non ha la solida linearità de Il dubbio e lo si capisce fin dalla prima scena dove vediamo il protagonista Alì (Navid Mohammadzadeh), un uomo quasi totalmente cieco, che cerca di togliersi la vita, quando nel suo piccolo appartamento di un grande palazzo entra, di nascosto, una donna ricercata dalla polizia e disperata per aver perso il figlio di quattro anni, durante gli scontri seguiti a una manifestazione di lavoratori che si sta (o si stava?) svolgendo nella piazza sottostante. Poco dopo arriva anche il poliziotto che sembra aver già capito tutto, quasi divertendosi a far cadere Alì in contraddizione. 

In fin dei conti il regista mette in scena un altro “caso di coscienza”, dove però tutto appare completamente destrutturato: i piani narrativi e temporali si sovrappongono e si intersecano; i personaggi scompaiono e ricompaiono; i tempi si dilatano; le azioni, le reazioni, i dialoghi e le stesse immagini non sembrano congruenti, tanto da chiedere allo spettatore lo sforzo di mettere insieme i tasselli di una storia che rimbalza dalle claustrofobiche riprese all’interno dell’appartamento ai numerosi campi lunghi con cui viene mirabilmente filmata la manifestazione degli operai e la violenta reazione delle forze dell’ordine, il tutto passando per le enigmatiche inquadrature di una videocamera di sorveglianza.


Una scena di Shab, Dakheli, Divar

Ma chi è veramente Alì? Cosa gli sta davvero accadendo? Cosa sta succedendo (o è già successo?) durante la protesta di piazza? Chi è davvero la donna-fantasma che lui prova a proteggere in casa sua e che fine ha fatto il suo bambino? Chi gli scrive quelle lettere che lui avidamente cerca di leggere con quel poco di vista rimasta? Sono queste alcune delle domande che arrivano alla mente durante la visione e che trascinano inesorabilmente lo stesso spettatore all’interno di un labirinto dove la flagranza del ricordo, l’impressione e l’immaginazione del reale si susseguono senza soluzione di continuità, come inevitabile conseguenza di uno sguardo inquieto su una società chiaramente inquieta. 

Khers Nist e Shab, Dakheli, Divar sono quindi due film profondamente diversi che marcano ancora di più le differenze generazionali tra i due autori: da un lato Panahi che continua a perseguire il suo cinema (o perlomeno quello che le restrizioni imposte gli rendono possibile) cercando sempre e comunque di forzarne i limiti; dall’altro Jalilvand che invece si prende il rischio di sorprendere e spiazzare per andare alla ricerca di una forma filmica nuova che finalmente possa davvero superare (pur senza tradire) l’eredità dei “padri fondatori” e ridefinire i confini e le stesse potenzialità produttive del cinema iraniano. Insomma, due opere distanti ma ugualmente importanti, che alla fine rappresentano con buona approssimazione il punto più alto tra i film in concorso alla 79ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.




Cinema oltre il confine
Khers Nist
cast cast & credits
 
Shab, Dakheli, Divar
cast cast & credits
 



La locandina di Khers Nist



La locandina di Shab, Dakheli, Divar
 

 
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