Erano anni che non si vedeva così tanto
cinema iraniano alla Mostra del Cinema di Venezia con addirittura due film nel
concorso principale: Khers Nist di Jafar Panahi e Shab,
Dakheli, Divar di Vahid Jalilvand, autori di generazioni diverse, ma
entrambi fortemente attratti dal rapporto spesso perverso tra la realtà, i
fatti, la loro interpretazione e la loro rappresentazione.
Da quando, nel 2010, Panahi è stato condannato
per propaganda contro il governo iraniano, ha iniziato la sua odissea di
arresti (è tuttora in carcere), confinamenti domiciliari, sorveglianze continue,
divieti di scrivere e persino di girare. Tutto questo lo ha portato a vivere in
condizioni tali da costringerlo a ripensare e riadattare il suo cinema come necessità
e urgenza creativa, spesso clandestina, trasformandolo in una persistente riflessione
(solo apparentemente autoreferenziale) sullopera nel suo farsi. Khers Nist è ovviamente un ulteriore tassello in
questo ininterrotto scambio osmotico tra vita e racconto.
Sono due le tracce narrative che
compongono il film: da una parte cè una troupe che sta girando il nuovo film
di Panahi in una città sul confine turco-iraniano, dallaltra la cronaca di ciò
che accade al regista nel paesino iraniano dallaltro lato dello stesso
confine, dove lui ha scelto di trasferirsi per essere il più vicino possibile
al set (e poter avere senza intermediari gli hard disk con il materiale girato).
Due storie che, se in premessa sembrano essere chiare e ben distinte, finiranno
poi per intrecciarsi e confondersi fino a ribaltarsi e rispecchiarsi una
sullaltra, come lascia intuire la prima, lunghissima inquadratura (un solo piano
con due sequenze) che parte dalla ripresa di una scena del film che si sta
girando in Turchia, che un lento carrello allindietro svela essere sullo
schermo del computer di Panahi che sta seguendo e dirigendo tutto collegato da
remoto con il set. Un incipit che ricorda molto da vicino quello dellultima
pellicola di Monte Hellman Road to Nowhere.
Una scena di Khers Nist
A poco a poco scopriamo che il film in fieri racconta la storia di una
coppia iraniana la quale, dalla Turchia, vuole fuggire in Francia con dei
documenti falsi, ma che al tempo stesso anche i due attori protagonisti sono
marito e moglie nella vita e davvero stanno pensando a una fuga come quella. Contemporaneamente
il regista (già “sorvegliato speciale” perché riprende e fotografa
continuamente ciò che ha intorno) viene trascinato dentro una storia dai
contorni kafkiani, legata a una presunta fotografia dellincontro tra un
ragazzo e una ragazza che dalla nascita era stata promessa a un altro uomo, cosa
che sconvolge la vita di tutto il paese, innescando una ingiustificata serie di
conseguenze in continua oscillazione tra il grottesco e il violento, per
ottenere quella foto che peraltro lui non ha mai scattato. Ecco che la finzione
si fa documentario e il documentario finzione; così la “flagranza” del piano sequenza
perdura, insiste e pedina gli attori sul set turco, laddove invece la
“manipolazione” del montaggio interviene a mostrare il precipitare degli eventi
di cui Panahi è, suo malgrado, la causa nel piccolo paese che lo ospita.
Un film girato sul confine (quello fisico,
politico e culturale tra Iran e Turchia), che ne tocca inevitabilmente molti
altri: quello linguistico (nella pellicola si parla farsi, turco e azero), quello
sottile tra verità e menzogna (che Panahi attraversa con disinvoltura nel
rapporto con chi lo circonda, nel tentativo vano di non fare degenerare la
situazione), quello più definito tra lecito e illecito (che invece decide di
non infrangere del tutto, tornando rapidamente indietro dalla pietra dove
inizia la Turchia), quello confuso tra leggi, usi e tradizioni (che sempre
Panahi non riesce più a comprendere e tantomeno a contenere), fino a quello
eticamente cruciale della morte e della sua rappresentazione, che squassa
entrambe le storie. Come accade in Tre volti anche in Khers Nist
Panahi forza i limiti di quellhortus conclusus in cui la giustizia
iraniana vorrebbe costringerlo, portando il suo sguardo “errante” a rivelare le
contraddizioni e le derive di un paese tuttaltro che riconciliato.
Una scena di Shab, Dakheli, Divar
Se Panahi è la coda della generazione nata
allombra di Kiarostami e Naderi, Jalilvand è uno degli autori
più interessanti di quel rinnovamento che indubbiamente ha in Asghar Farhadi
il suo punto di riferimento. Jalilvand torna a Venezia cinque anni dopo Il
dubbio - Un caso di coscienza, (vincitore della miglior regia e miglior
attore protagonista della sezione Orizzonti) e lo fa con un film profondamente
diverso dal precedente. Shab, Dakheli, Divar infatti non ha la solida
linearità de Il dubbio e lo si capisce fin dalla prima scena dove
vediamo il protagonista Alì (Navid Mohammadzadeh), un uomo quasi
totalmente cieco, che cerca di togliersi la vita, quando nel suo piccolo appartamento
di un grande palazzo entra, di nascosto, una donna ricercata dalla polizia e
disperata per aver perso il figlio di quattro anni, durante gli scontri seguiti
a una manifestazione di lavoratori che si sta (o si stava?) svolgendo nella
piazza sottostante. Poco dopo arriva anche il poliziotto che sembra aver già
capito tutto, quasi divertendosi a far cadere Alì in contraddizione.
In fin dei conti il regista mette in scena
un altro “caso di coscienza”, dove però tutto appare completamente destrutturato:
i piani narrativi e temporali si sovrappongono e si intersecano; i personaggi scompaiono
e ricompaiono; i tempi si dilatano; le azioni, le reazioni, i dialoghi e le
stesse immagini non sembrano congruenti, tanto da chiedere allo spettatore lo
sforzo di mettere insieme i tasselli di una storia che rimbalza dalle
claustrofobiche riprese allinterno dellappartamento ai numerosi campi lunghi
con cui viene mirabilmente filmata la manifestazione degli operai e la violenta
reazione delle forze dellordine, il tutto passando per le enigmatiche
inquadrature di una videocamera di sorveglianza. Una scena di Shab, Dakheli, Divar
Ma chi è veramente Alì? Cosa gli sta davvero
accadendo? Cosa sta succedendo (o è già successo?) durante la protesta di
piazza? Chi è davvero la donna-fantasma che lui prova a proteggere in casa sua
e che fine ha fatto il suo bambino? Chi gli scrive quelle lettere che lui
avidamente cerca di leggere con quel poco di vista rimasta? Sono queste alcune
delle domande che arrivano alla mente durante la visione e che trascinano
inesorabilmente lo stesso spettatore allinterno di un labirinto dove la
flagranza del ricordo, limpressione e limmaginazione del reale si susseguono
senza soluzione di continuità, come inevitabile conseguenza di uno sguardo
inquieto su una società chiaramente inquieta.
Khers Nist e Shab, Dakheli,
Divar sono quindi due film profondamente diversi che marcano ancora di più
le differenze generazionali tra i due autori: da un lato Panahi che continua a
perseguire il suo cinema (o perlomeno quello che le restrizioni imposte gli
rendono possibile) cercando sempre e comunque di forzarne i limiti; dallaltro Jalilvand
che invece si prende il rischio di sorprendere e spiazzare per andare alla
ricerca di una forma filmica nuova che finalmente possa davvero superare (pur senza
tradire) leredità dei “padri fondatori” e ridefinire i confini e le stesse
potenzialità produttive del cinema iraniano. Insomma, due opere distanti ma
ugualmente importanti, che alla fine rappresentano con buona approssimazione il
punto più alto tra i film in concorso alla 79ª Mostra Internazionale dArte Cinematografica
di Venezia.
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