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Il ritmo della storia

di Giuseppe Gario
  Il ritmo della storia
Data di pubblicazione su web 30/06/2022  

In un magistrale saggio, Anatole France fa dialogare Ponzio Pilato, ex procuratore della potenza globale di turno, con un giovane amico (Il procuratore della Giudea, Palermo, Sellerio, 2001). Sul fatto cerniera della vita sua, poi dell’impero romano, d’Europa e del mondo, «dopo qualche istante di silenzio: “Gesù?” mormorò “Gesù il Nazareno? No, non ricordo”» (ivi, p. 31). Leonardo Sciascia nota che, come Tacito, «Ponzio Pilato ha dimenticato del tutto Cristo e i cristiani; Tacito si ha il sospetto che ha voluto – per profonda insofferenza o per lungimirante preoccupazione – dimenticarli. Il passo in cui ne parla, a proposito dell’incendio di Roma, è per noi propriamente misterioso, suggestivo e sollecitante; dà alla fantasia, come si dice che un vino dà alla testa. E vale la pena di rileggerlo: “Ma nulla, né gli umani soccorsi, né le larghezze del principe, né i sacrifici ai numi, valse a distruggere l’infamante opinione che l’incendio fosse stato comandato. Nerone, allora, per soffocar questa voce, mise avanti come rei dell’incendio gente odiata pei suoi mali costumi, che il volgo chiamava Cristiani: e inflisse loro i più raffinati supplizi. […] Ond’è, che pur di fronte a una genìa colpevole e degna di esemplare novità di pene, si faceva strada la pietà, come verso chi era sacrificato, più che al bene di tutti, alla ferocia di un solo”» (ivi, p. 37).

Prosegue Sciascia: «il sapere, mentre scriveva, che quella “esecrabile superstizione” era dovunque esplosa e il rifiutarsi all’attenzione, al parlarne, al descriverla; l’approvare e il disapprovare insieme quella repressione; la constatazione che “si faceva strada la pietà”, e cioè ad un passo dal constatare che proprio nel farsi strada della pietà era la vittoria del cristianesimo: sono elementi che sommamente si prestano alla fantasia di chi non può non dirsi cristiano. E si dirà che sono riconducibili a uno solo, oggettivamente tacitiano: l’odio alla tirannia, l’idea che la tirannia – in sé negazione della legge – nulla mai possa compiere di legittimo e di giusto, nulla che non sia delitto; ma non riusciamo a non conferire a Tacito – a quello che ha scritto, e più a quello che non ha scritto – l’ombra di un interno dissidio, di una certa inquietudine. Ma il racconto di France, pur così breve e così netto da parere non contenga oscure allusioni e ambiguità, non si può racchiudere nella formula di omaggio alla dimenticanza (non a quella burocratica, da uomo d’ordine e quasi da precursore di Eichmann, di Ponzio Pilato; ma a quella storica, civile, pietosa della grandezza di Roma, di Cornelio Tacito) e di apologia dello scetticismo. Si può dire anzi che questa formula è suscettibile di contraddizione e rovesciamento: supremo omaggio, in definitiva, dello scetticismo a se stesso» (ivi, pp. 38-39).

Supremo omaggio a sé stesso dello scetticismo, coerente e autocritico, che condivide con la pietà il rifiuto della tirannia, in sé nemica della legge, illegittima e ingiusta anche verso «gente odiata pei suoi mali costumi». Mali costumi perché resistenti al tiranno di turno e alla antica pedagogia d’odio svelata dall’interno nei documenti di lavoro di Joseph Goebbels, ministro della propaganda di Hitler. Allora come sempre, «era tutto imperniato sulla sua persona; era lui a dare l’impronta, tutto girava intorno a lui; lui solo decideva, sollevava problemi, distribuiva lode e biasimo, aveva trovate brillanti, faceva lunghe disquisizioni critiche, proponeva gli argomenti e tagliava corto alle obiezioni. Era il solo a decidere che cosa fosse attuale e “popolare”» (W.A. Boelcke, La guerra è bella!: Goebbels e la propaganda di guerra, Firenze, Vallecchi, 1973, p. 3). «In fin dei conti dunque ai partecipanti alla conferenza non restava altro che il ruolo di comparse, su quella scena della quale solo Goebbels teneva in mano le fila. Ma, evidentemente, questi Reichskopsfnicker [teste signorsì di ogni tirannide, ndr] gli erano necessari per la rapida esecuzione delle sue direttive» (ivi, p. 5). «Contemporaneamente egli scatenò operazioni di polizia e persecuzioni giudiziarie; fece sì che la giustizia pronunciasse sentenze intimidatorie e provvide a che i resoconti dei processi avessero la necessaria efficacia propagandistica» (ivi, p. 9). Come già a suo tempo Nerone e come sempre. E di nuovo ora in Europa.

«Goebbels dovette costantemente occuparsi delle “voci di pace” sorte all’interno e all’estero; nei primi anni di guerra egli proibì che le vere e proprie iniziative di pace venissero fatte conoscere dalla stampa e dalla radio. Notizie dall’estero, spesso risorgenti, su trattative per un armistizio dovettero essere smentite; altre notizie furono messe in circolazione dalla propaganda clandestina». «I suoi stessi pensieri di pace Goebbels parve volerli allontanare, a partire dal 1942, con questa osservazione: “come un viandante nel deserto non deve pensare sempre all’acqua, così un uomo che partecipa alla guerra non deve mai pensare alla pace» (ivi, p. 15). Ma «così come darebbe prova di colpevole leggerezza chi sottovalutasse gli effetti della moderna propaganda politica di massa, non sarebbe nemmeno giusto, d’altro lato, sopravvalutare Goebbels e la sua propaganda. Goebbels non era affatto quel “mago”, come si usa spesso dire di lui, che durante la guerra era capace di manipolare lo stato d’animo di tutto un popolo a suo completo piacimento, che era capace di cambiare in due e due quattro uno stato di depressione in uno stato d’esaltazione o di trasformare quello che, a giudizio del governo, era un atteggiamento negativo del popolo nei confronti della guerra in entusiasmo per la guerra» (ivi, p. 14).

I vincenti sono tali finché vincono, oggi «un’élite transnazionale o globale che, nei suoi vari spazi e posti, è capace di trarre vantaggio dalle condizioni sociali e politiche intrinseche alla democrazia neoliberista. La variante della narrativa democratica occidentale è allora utile non solo agli ideologi USA che invocano il “manifest destiny” come pietra angolare della leadership americana, ma anche a ognuno dei numerosi regimi al potere in Medio Oriente, Asia, Africa e Europa orientale, che possono facilmente manipolare con successo le promesse del libero mercato neoliberista a proprio (antidemocratico) vantaggio» (S.J. Rosow-J. George, Globalization & Democracy, Lanham, Rowman & Littlefield, 2014, pp. 26-27). Politica e/o economico-finanziaria, è tirannia.

Sono «gli anni di Putin: riportare lo stato dentro, lasciando fuori la democrazia» (ivi, p. 109). Come Trump in USA, dove il 16 giugno 2022 «la Commissione d’inchiesta della Camera dei Rappresentanti ha documentato come l’ex-presidente e il suo entourage hanno invano premuto sul vice-presidente affinché impedisse la certificazione dell’elezione presidenziale il 6 gennaio 2021». «Alle 14,24 del 6 gennaio il Campidoglio è assalito. Donald Trump guarda la televisione. In un nuovo tweet fustiga la mancanza di coraggio del suo vice-presidente» (P. Smolar, Assaut du Capitole: comment Donald Trump a voulu enrôler Mike Pence dans un coup d’Etat, «Le Monde», 17 giugno 2022, on line).

La pretesa di bloccare la storia dell’umanità e del mondo sotto il dominio dei potenti di turno è una costante nel ritmo della storia.



Il ritmo della storia, scrive Franco Cardini (Bologna, Rizzoli, 2001), ci lascia sempre «disorientati e affascinati. Eppure, se ci volgiamo un istante indietro, ci sorprendiamo a chiederci come sia stato possibile che proprio gli straordinari progressi tecnologici dell’ultimo secolo, anzi degli ultimi decenni, non ci abbiano messo per tempo sull’avviso a proposito dell’imprevedibilità del processo (processo: non progresso) storico. Per millenni, la vita del genere umano – nello stesso ambito eurasiomediterraneo ch’è stato uno dei grandi laboratori culturali dell’umanità e che dal XVI secolo ha imposto la fine del mondo “a compartimenti-stagno” e il decollo dell’economia-mondo – si è svolta secondo parametri caratterizzati, se non da immobilità, quanto meno da una lenta dinamica sia pur scandita da alcune “rivoluzioni” (l’agricola, la commerciale, la filosofico-scientifica, l’industriale e così via). Eppure, di tutto ciò era possibile accorgersi relativamente poco. Nella Londra del Seicento si viveva più o meno come nella Roma imperiale: anzi, molto peggio quanto a condizioni igieniche, a livello di consumi, a sicurezza» (ivi, pp. 9-10).

Ancor peggio a Manchester nel 1845. «Un giorno camminavo verso Manchester in compagnia di uno di quei signori del ceto medio. Gli parlavo dei bassifondi miseri e malsani e gli facevo notare le condizioni di quella parte della città dove vivevano gli operai delle fabbriche. Gli dissi che non avevo mai visto in vita mia una città così mal costruita. Mi ascoltò pazientemente e, all’angolo della via dove ci separammo, disse soltanto: “Eppure, qui si fa un mucchio di denaro. Buongiorno, signore!» (F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, cit. in E.J. Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi: 1789-1848, Milano, Il Saggiatore, 1963, p. 255).

Oggi si fa denaro a volontà speculando su tre crisi globali concomitanti (climatica, pandemica, bellica) in assenza d’ogni controllo sui mercati globali neoliberisti, discendenti algoritmici di re Mida che, secondo la leggenda, in premio per il ritrovamento dello smarrito Bacco Sileno chiese il potere di trasformare in oro tutto ciò che toccava, andando alla morte per fame e sete e perciò «posto tra gli esempi di avarizia punita che le anime dei penitenti gridano la notte nel quinto girone del Purgatorio, XX 106: “la miseria de l’avaro Mida, / che seguì a la sua dimanda gorda, / per la qual sempre convien che si rida”» (Enciclopedia Treccani, on line). È il girone dell’«élite transnazionale o globale che, nei suoi vari spazi e posti, è capace di trarre vantaggio dalle condizioni sociali e politiche intrinseche alla democrazia neoliberista», «a proprio (antidemocratico) vantaggio» (Rosow-George, Globalization & Democracy, cit., p. 27). Ma Jacques Le Goff (La nascita del Purgatorio, Torino, Einaudi, 1982) ci ricorda che il purgatorio porta prima o poi al paradiso.

«Se pure per buona parte della storia violenza e fame sono state due degli strumenti più efficaci di cui si è servita la morte, l’unica che è riuscita a spazzare via un quarto della Terra in un colpo solo è stata proprio la malattia da contagio. La peste ha messo fine all’età antica e segnato l’inizio del Rinascimento. Varie infezioni hanno plasmato l’epoca degli imperi globali, e contenerle ha permesso di rafforzare l’economia del mondo moderno. Né la guerra né la carestia possono rivendicare un ruolo equivalente» (C. Kenny, La danza della peste. Storia dell’umanità attraverso le malattie infettive, Torino, Bollati Boringhieri, 2021, p. 210,). Ora guerra e speculazione fanno velo alla pandemia, ma abbiamo i mezzi per venirne fuori.

È quanto ci ricorda «un pragmatico puro che diffida delle teorie. Per lui “la realtà è più importante dell’idea”. È anche uno dei suoi principi d’azione. Sa anche lavorare sulla durata. Un altro è il suo principio di azione. Lo esprime così, “il tempo è superiore allo spazio”. Francesco si spiega nell’esortazione apostolica La gioia del Vangelo: “Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione di risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di auto-affermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che li porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci”» (J.M. Guénois, Jusqu’où ira François ?, Paris, JC Lattés, 2014, pp. 108-109).

È il profilo genetico dell’Unione Europea, il cui sostegno è oggi fondamentale – nel contesto della crisi bellica e alimentare fomentata dai «vincenti nel contesto neoliberista» – per attuare la riforma fiscale di un’imposta minima del 15% sugli utili delle grandi multinazionali, a partire dal 31 dicembre 2023, dando corpo al progetto adottato nel 2021 da 140 paesi sotto l’egida dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico. Con il mondo intero di cui avere cura, fornire gambe al farsi strada della pietà è supremo omaggio dello scetticismo a sé stesso.








 
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