Nello spazio fantasiosamente immaginato e attrezzato da Emanuele Luzzati, la sala storica allitaliana spicca in palcoscenico nei drappeggi e nel fondale di un intenso azzurro mediterraneo. Dai palchetti dipinti, il pubblico partenopeo assiste alle evoluzioni di un gruppo di cinque Pulcinella, servi di scena invisibili che animano mimicamente i trucchi e le faccende dei Signori Attori. Spazio e luce abbondanti (purtroppo non si svela tutto lincanto delle luci progettate da Luciano Novelli e realizzate da Gianni Bertoli, causa sciopero parziale dei tecnici) danno risalto ai costumi di Santuzza Calì, di foggia e pittura cangianti. Opportuna rievocazione, con perfetta “ricostruzione” funzionale, di un allestimento storico. Ma la novità e soprattutto la sfida stanno nel cast inedito e insolito dei cantanti-attori, diplomati allAccademia di alto perfezionamento e inserimento professionale del Teatro Carlo Felice di Genova. Quasi debutto, dunque, per una compagnia che dimostra il frutto cospicuo del lavoro intenso condotto sotto la guida di Francesco Meli. Italo Nunziata regista poteva ispirarsi alle precedenti creazioni di Egisto Marcucci, realizzate per il Rossini Opera Festival (1983 e 1986) con Luzzati e Calì collaboratori. Spettacolo ripreso a Genova nel 2009 in omaggio al grande scenografo. Gustare, assimilare e reinventare è stata la bella fatica attuale per Nunziata, che inserisce i Pulcinella (istruiti da Danilo Rubeca) accanto agli “zingari” turcheggianti per farli interagire coreograficamente nel gioco del teatro-nel-teatro, guidato dal poeta (e drammaturgo) Prosdocimo, sempre demiurgo consapevole e divertito, piacevole sulla scena.
Un momento dello spettacolo © Teatro Carlo Felice
Il direttore Sesto Quatrini si prodiga con slancio per «dare alla narrazione un ritmo serrato, portando i caratteristici sillabati rossiniani quasi al parossismo e provando a unire i numeri chiusi ai recitativi, laddove possibile, senza soluzione di continuità» ( Programma di sala). La fedeltà alla scelta estetica produce qualche sovrapposizione o sfasatura, rincorsa di ritmo, nella dizione impegnata fino allo scioglilingua. Lenergia sonora resta comunque rispettosa della partitura, ouverture compresa, che con calma e nitore trasmette in seguito sospensione e sinuosità agli intermezzi. Il sostegno ai solisti cerca necessarie cautele, sia per lesposizione allattesa della voce “nuova”, sia per la scrittura (ri-scrittura) delle “cadenze”, specialmente calibrata sul registro proprio di ogni cantante. Così, per le arie reintegrate (quella di Albazar) o inedite, come quella di Fiorilla (atto II) e di Geronio, Se ho da dirla, avrei molto piacere…, quando, al tocco limpido e affettuoso di Sirio Restani, lintervento del fortepiano offre una feconda sinergia alla ripresa del marito, “scimunito” e sconfortato, allorché azzarda il “ritratto” della moglie. La qualità del canto merita sostanziali consensi, tanto per la tecnica quanto per lespressione degli interpreti. Indecisioni o smagliature veniali non intaccano le omogeneità individuali né il valore dassieme, nel prevalere della spontaneità e della gioia sul rischio della prova. Nella parte principale si apprezza Iolanda Massimo, Fiorilla già autorevole allentrata. Attraversa comicità e malizia con relativa facilità e destrezza; eppure, nei momenti più drammatici e patetici del personaggio, ne acuisce i tormentosi risvolti in partecipazione toccante. Di grande intensità e precisione, nel crollo del suo stato privilegiato); nella risposta al ripudio e alla cacciata ( Torna a Sorrento!, le intima lo sposo offeso) e nel pentimento che prepara la riconciliazione. Un impegno moltiplicato dal rapporto con il marito, con il cavalier servente e con il focoso pretendente doccasione, in cui il soprano si collauda in diverse modalità espressive. Netta e nobile, quasi estatica, laria Squallida veste…, di buona limpidezza e omogeneità di timbro nel fondere rimpianto, dolore e pentimento. Selim di Omar Cepparolli ha sicurezza gestuale e di emissione. Il suo basso non cede ad alterazione di timbro se non alle frequenze più alte. Parrebbe forse superficialità dongiovannesca lestemporaneo sbocco del sentimento e linsistenza nelle profferte e nelle richieste rispetto ai mezzi per soddisfarle.
Un momento dello spettacolo © Teatro Carlo Felice
Geronio trova i giusti connotati della sua insipienza e della risibile gelosia in Francesco Auriemma, che li tratteggia degnamente con impacci e titubanze. Nella festa mascherata, genuino nello sconcerto che gli causa il coinvolgimento nella ridda degli inganni. Seppure vittima delle proprie debolezze, ne evita la caricatura di convenzione. Affida al canto la denuncia dei difetti caratteriali, ma nellurgenza del fraseggiare serrato gli manca un po il volume, in rapporto allorchestra. Il basso, adeguato allo stile del “buffo”, scansa il ridicolo con lironia; magari nel condiscendere allomaggio dellospitalità allitaliana con il bacio allorlo della veste del principe viaggiatore. Zaida, appassionata, ma savia tessitrice di concordia, esibisce un corposo e a volte severo contralto in Gabriella Ingenito. Narciso ha in Antonio Mandrillo modestia ed eleganza. Nel sentimento, purtroppo rassegnato del servente, il tenore sillumina in Tu seconda il mio disegno dolce amor… (atto II), quasi a risarcimento dello scacco amoroso subìto. Si prodiga da amico vero per Zaida, il sobrio e disinteressato Albazar di Matteo Straffi, anchegli convincente e gratificato dallaria Ah sarebbe troppo dolce…, di fine modulazione melodica. Speciale protagonista Nicola Zambon, onnipresente “regista” e direttore al contempo, il già ricordato Prosdocimo, centrale nel progetto registico appunto per saperne esaltare la funzione metateatrale. In cerca del soggetto per un “dramma buffo”, lo coglie nei fatti che gli capitano sotto gli occhi e dai quali trae spunto e prende appunti. Al musicista, e al librettista soprattutto, non interessa il dilemma fra lessere e lapparire, ma la corrispondenza tra la commedia svolta dallautore e quanto egli vive nellaccadere, da cui la teatralità efficace anche quale metafora della vita. I suoi recitativi scorrono nellaccelerazione della vicenda, pure imponendo spesso moventi personali, più intimi, riflessivi e pratici. Per la verve e la destrezza, diventa il beniamino dei ragazzi in sala.
Un momento dello spettacolo © Teatro Carlo Felice
La storia offre inoltre crescendo emotivi e soluzioni sceniche suggestive: dalla concitazione degli episodi corali alle soste e alle suspences degli “a solo”. Allora è il Coro degli Zingari o del seguito di Selim o di Geronio (guidato da Francesco Aliberti) co-protagonista dei concertati vivaci, come nella festa in maschera, momento di equivoci contrastati e divertenti, fino alla confusione; indi risolta in agnizione dei ruoli effettivi e dei destini relativi. Secondo Quatrini, il Turco è «lopera più mozartiana di Rossini». A dirla con Carmelo Bene, quella musica si gusta quale un «precipitato di non eventi». Varrebbe a dire, per lo spettatore odierno: complice la tradizione luzzatiana, che diffonde caos e spavento, si ricompone giocosamente larmonia di vecchio e nuovo, di comico e tremendo. Una costante, condivisa epicità accomuna tutti gli interpreti nel rivolgersi direttamente al pubblico per connivenza e con simpatia. Si susseguono gli applausi a scena aperta e per tutti. Le chiamate sono insistenti e prolungate al calar del sipario.
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