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La forza degli archetipi in scena al Teatro Greco di Siracusa

di Caterina Barone
  Agamennone
Data di pubblicazione su web 08/06/2022  

Due titoli giganteschi, archetipici, del repertorio tragico classico hanno fatto da apripista, a giorni alterni, alla 57esima stagione al Teatro Greco di Siracusa: Agamennone di Eschilo, affidato alla regia di Davide Livermore (in scena dal 17 maggio al 12 giugno 2022), ed Edipo re di Sofocle, diretto da Robert Carsen (dal 18 maggio al 3 luglio 2022). Due modi diametralmente opposti di rappresentare la tragedia greca, capaci tuttavia di metterne in luce la densità di temi e intonazioni e di suscitare entrambi nel pubblico un entusiasmo da stadio, segno della perenne necessità e vitalità della cultura classica.

È un cammino à rebours quello percorso da Livermore nell’esplorare l’Orestea. Dopo aver affrontato lo scorso anno la messa in scena di Coefore ed Eumenidi, dandone una lettura prettamente politica, in occasione del centenario dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico che nel 1921 aveva segnato la ripresa delle Rappresentazione Classiche, dopo l’interruzione della prima guerra mondiale, proprio col secondo dramma della trilogia, il direttore dello Stabile di Genova completa il suo lavoro eschileo andando alle radici della vicenda della casa degli Atridi.

In quel dramma esemplare del concetto di hybris, la dismisura di cui si macchia l’uomo, e dell’azione punitrice di Dike, la giustizia divina che tutto governa, Livermore individua la causa prima della catena inesorabile di mali nel sacrificio della figlia Ifigenia da parte di Agamennone, per placare la dea Artemide e consentire la partenza della flotta greca alla volta di Troia. Andando al di là della drammaturgia eschilea, il regista materializza dunque sulla scena la figura di un’esile fanciulla con le trecce, presente per tutta la durata dell’opera e che con la sua presenza conturbante condiziona gli eventi, fino a sdoppiarsi (interpretata da Carlotta Messina e Maria Chiara Signorello) in un’apparizione da film horror, che richiama quella inquietante delle gemelle cinematografiche di Shining. È dunque la figlia ad accompagnare Agamennone lungo il percorso di porpora verso la morte e nel finale arma la mano di Clitennestra, per poi prefigurare in ultimo, in una sinistra visione, la morte violenta che attende la madre.

Un momento dello spettacolo 
© Michele Pantano

La fosca saga di sangue che connota Agamennone trova traduzione scenica in un rutilare di colori, dove predomina il rosso, di bagliori, di suoni dissonanti che sfociano a tratti nella dodecafonia: un mix di musiche sintetizzate elettronicamente (creazione di Mario Conte) alle quali si affianca il suono dal vivo dei due pianoforti a coda che interagiscono con l’azione (pianisti Diego Mingolla e Stefania Visalli).

Sulla scena si consuma una pletora di effetti speciali diffusi, il cui perno visivo insiste su due grandi schermi rotondi, uno posto in verticale e l’altro in orizzontale nello spazio dell’orchestra; una sorta di duplice occhio animato da immagini in movimento che ci proiettano in una dimensione cosmica, come a significare che i sentimenti archetipici accompagnano il cammino dell’uomo attraverso il succedersi del tempo: colorate farfalle in volo, vortici di fuoco, onde spumeggianti, ma anche frammenti di arte classica, come la statua della dea Artemide, la maschera d’oro di Agamennone, il volto marmoreo contratto dal dolore di Laocoonte.

Chiude la scenografia (firmata dallo stesso Livermore insieme a Lorenzo Russo Rainaldi) un fondale di acciaio riflettente, lungo ventisette metri e alto otto, che con la sua imponente presenza abbraccia attori e spettatori rendendoli partecipi del medesimo destino.

Senza sbavature l’interpretazione dei protagonisti che si avvalgono della filologica traduzione di Walter Lapini: Laura Marinoni presta la sua imperiosa presenza a una Clitennestra sanguigna, violenta e aggressiva, e insieme subdola e modernamente carnale, che irretisce il marito con la sottile ambiguità del logos, unito a una prorompente sensualità, messa in evidenza dagli abiti, uno nero, l’altro rosso, che ne fasciano le morbide forme. L’Agamennone di Sax Nicosia è dittatoriale e al tempo stesso disarmato nella presunzione del suo potere. Espressione di un dolore consapevolmente impotente è la sacerdotessa Cassandra di Linda Gennari, lacerata dalla visione dei delitti passati e di quelli futuri di cui anch’ella sarà vittima. E infine Egisto, un grumo di nevrosi, un uomo dominato dall’amante, la cui debolezza si fa vile ferocia in quel suo sparare colpi di pistola a raffica sul cadavere del re morto. Quanto alla carica di sofferta umanità che connota la figura della sentinella, che con il suo monologo apre l’Agamennone, e quella dell’Araldo reduce da Troia, il regista la affida significativamente alla sensibilità di due interpreti femminili, Maria Grazia Solano e Olivia Manescalchi.

Un momento dello spettacolo
© Michele Pantano

Fuori dagli schemi tradizionali, e comunque sacrificato nel suo ruolo di interlocutore privilegiato del senso ultimo della tragedia, si colloca il Coro pensato da Livermore, che ne riduce la presenza a tre anziani veterani di guerra, costretti in carrozzella e assistiti da altrettante infermiere e da due dottori in camice bianco. Li guida la corifea, interpretata con rigorosa durezza da Gaia Aprea che, stretta in un austero tailleur nero con cravatta in stile nazista, si fa rigida custode dei segreti della reggia e delle dinamiche del potere. Il tutto collocato in un’ambientazione in stile anni ’30 (definita anche dai costumi di Gianluca Falaschi) con poltrone e mobiletti d’epoca e un grammofono in primo piano a suggerire un ambiente abitato dall’alta borghesia.

Se nel complesso la filologia cede il passo allo spettacolo e nel rutilare della performance si smarrisce il senso del pathei mathos (la conoscenza attraverso la sofferenza) che traccia i confini del rapporto tra l’uomo e la divinità, tuttavia il lavoro di Livermore ha il merito di catturare gli spettatori e di condurli lungo il testo eschileo, sorreggendoli nel difficile percorso di attraversamento della tragedia.

Dal turgore barocco all’essenzialità scarnificata: è abissale la differenza tra l’Agamennone del regista piemontese e l’Edipo re di Carsen, che ha asciugato la componente spettacolare a favore della parola sofoclea (la traduzione è di Francesco Morosi, la drammaturgia di Ian Burton). Ridotto il contrasto di colori al solo bianco (l’abito stile anni ’50 di Giocasta e le camicie degli uomini) e nero (i costumi di tutti i personaggi, Coro compreso, creazione di Luis F. Carvalho) che spiccano sul grigio della scenografia, creando una sorta di immagine cinematografica degli albori della decima arte, e richiamano la contrapposizione di base luce/tenebre e colpa/espiazione, Carsen ha fatto piazza pulita di ogni elemento scenografico aggiuntivo giocando invece sulla presenza massiccia di un Coro composto da ottanta elementi che abitano lo spazio con geometrica precisione.

Su tutto domina il logos, percepibile con nettezza nel suo scorrere nei meandri linguistici dell’ambiguità sofoclea, da cui scaturisce l’ironia tragica, elemento distintivo di un testo esemplare nella storia del teatro, come già sanciva Aristotele nella Poetica. E così la trama, scandita dal concatenarsi sussultorio degli eventi, con spinte in avanti e brusche frenate nel cammino verso la consapevolezza di Edipo, si dipana con cristallina chiarezza creando uno stato di tensione che attanaglia gli spettatori attratti dalla forza del mythos, il racconto.

L’azione si svolge tra lo spazio dell’orchestra e l’altissima scala in calcestruzzo che insiste sulla scena (opera di Radu Boruzescu) e conduce alla reggia, verso il cui interno i membri della famiglia reale scendono come in un abisso che ingoia fatti e persone, rendendo in tal modo tangibile la dimensione dell’inconscio, componente essenziale della tragedia nel ruolo giocato dai protagonisti, Edipo e Giocasta. Ma la scala simboleggia anche il vertice del potere di Edipo nel suo iniziale, carismatico apparire in cima a essa in risposta alle invocazioni accorate del Coro, supplice nel chiedere il suo intervento salvifico contro la peste che dilania la città. È un potere che crolla e si annienta sotto il peso della colpa: da quelle stesse scale il re, alla fine del suo lacerante cammino verso la verità, scenderà nudo, coperto solo del proprio sangue e della veste che era di Giocasta, e brancolando cieco nel buio al quale ha condannato sé stesso posto di fronte all’orrore del patricidio e dell’incesto risalirà i gradini della cavea verso l’esilio.

Un momento dello spettacolo 
© Maria Pia Ballarino

All’essenzialità visiva si affianca la sobrietà antiretorica della recitazione, sempre controllata, mai sopra le righe anche nei momenti di più intenso pathos. Giuseppe Sartori disegna con duttilità le sfaccettature del personaggio: all’inizio, sicuro di sé stesso e confidente nella forza della propria intelligenza, messa alla prova in passato dall’enigma della Sfinge, ma irruente e tirannico nei confronti di Creonte e Tiresia, sospettati di complottare a suo danno. Poi, sgomento e attraversato dal dubbio della colpa, subito rimosso dalla presunzione di dover fronteggiare unicamente una nascita oscura, eventuale motivo di vanto e non di vergogna. Piagato infine da una realtà indicibile, che lascia spazio solo al lamento.

Materna e insieme amante appassionata è la Giocasta resa con sensibilità nella sua duplice, occulta natura da Maddalena Crippa, eppure connotata da una spiazzante impronta borghese voluta dalla regia forse per evidenziare come la vulnerabilità dell’essere umano di fronte al destino non riguardi solo i personaggi eroici del mito, ma la vita di ognuno. Intensa la prova di Graziano Piazza, nella parte di Tiresia, indovino cieco (realisticamente reso tale sulla scena da un paio di lentine bianche) riluttante a rivelare un’oscena verità, che l’atteggiamento protervo di Edipo lo costringerà a scagliare come un maglio sul suo antagonista. Razionale e misurato Paolo Mazzarelli nel dare vita a un Creonte forte della propria innocenza e arbitro infine della sorte di Edipo.

Eccellente il lavoro fatto dal regista sul Coro che si muove sulle minuziose, schematiche coreografie di Marco Berriel, guidato da Rosario Tedesco (Capo Coro) ed Elena Polic (Corifea). Di forte impatto l’ingresso in scena con i coreuti che indossano nere mascherine sanitarie e recano sulle braccia vuote vesti nere evocative degli infiniti lutti abbattutesi sulla città, così come toccante è la croce formata dai singoli individui rivestiti di un cupo velo che ne copre i volti, lasciando in vista solo le mani a creare un tenue gioco di colore. Ieratica nel suo dinamismo, minimalista ma amplificato dall’alto numero dei coreuti impegnati in gesti gravidi di senso, la compagine delle donne e degli uomini tebani incarna il travaglio di una comunità devastata dalla peste – metafora del male che può colpire la collettività –, e lo sgomento dell’individuo al cospetto degli oscuri disegni degli dei.

Un momento dello spettacolo 
© Maria Pia Ballarino

La scelta stilistica, rigorosa e scabra, del regista canadese anche sul versante delle musiche (firmate da Cosmin Nicolae) ha generato uno spettacolo che, senza nulla concedere agli effetti speciali, nella sua acuminata essenzialità ha liberato la forza dirompente dell’originale, capace di suscitare un’entusiastica adesione anche da parte del pubblico, numeroso, dei giovani.




Agamennone / Edipo Re
Agamennone
cast cast & credits
 
Edipo Re
cast cast & credits
 



Laura Marinoni in Agamennone
© Franca Centaro





Graziano Piazza 
in Edipo Re
© Maria Pia Ballarino

 
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