Due
titoli giganteschi, archetipici, del repertorio tragico classico hanno fatto da
apripista, a giorni alterni, alla 57esima stagione al Teatro Greco di Siracusa:
Agamennone di Eschilo, affidato alla regia di Davide Livermore
(in scena dal 17 maggio al 12 giugno 2022), ed Edipo re di Sofocle,
diretto da Robert Carsen (dal 18 maggio al 3 luglio 2022). Due modi diametralmente
opposti di rappresentare la tragedia greca, capaci tuttavia di metterne in luce
la densità di temi e intonazioni e di suscitare entrambi nel pubblico un
entusiasmo da stadio, segno della perenne necessità e vitalità della cultura
classica.
È
un cammino à rebours
quello percorso da Livermore nellesplorare lOrestea. Dopo aver
affrontato lo scorso anno la messa in scena di Coefore ed Eumenidi,
dandone una lettura prettamente politica, in occasione del centenario
dellIstituto Nazionale del Dramma Antico che nel 1921 aveva segnato la ripresa
delle Rappresentazione Classiche, dopo linterruzione della prima guerra
mondiale, proprio col secondo dramma della trilogia, il direttore dello Stabile
di Genova completa il suo lavoro eschileo andando alle radici della vicenda
della casa degli Atridi.
In
quel dramma esemplare del concetto di hybris, la dismisura di cui si
macchia luomo, e dellazione punitrice di Dike, la giustizia divina che
tutto governa, Livermore individua la causa prima della catena inesorabile di
mali nel sacrificio della figlia Ifigenia da parte di Agamennone, per placare
la dea Artemide e consentire la partenza della flotta greca alla volta di
Troia. Andando al di là della drammaturgia eschilea, il regista materializza
dunque sulla scena la figura di unesile fanciulla con le trecce, presente per
tutta la durata dellopera e che con la sua presenza conturbante condiziona gli
eventi, fino a sdoppiarsi (interpretata da Carlotta Messina e Maria
Chiara Signorello) in unapparizione da film horror, che richiama quella inquietante
delle gemelle cinematografiche di Shining. È dunque la figlia ad
accompagnare Agamennone lungo il percorso di porpora verso la morte e nel
finale arma la mano di Clitennestra, per poi prefigurare in ultimo, in una
sinistra visione, la morte violenta che attende la madre. Un momento dello spettacolo © Michele Pantano
La
fosca saga di sangue che connota Agamennone trova traduzione scenica in
un rutilare di colori, dove predomina il rosso, di bagliori, di suoni
dissonanti che sfociano a tratti nella dodecafonia: un mix di musiche
sintetizzate elettronicamente (creazione di Mario Conte) alle quali si
affianca il suono dal vivo dei due pianoforti a coda che interagiscono con lazione
(pianisti Diego Mingolla e Stefania Visalli).
Sulla
scena si consuma una pletora di effetti speciali diffusi, il cui perno visivo
insiste su due grandi schermi rotondi, uno posto in verticale e laltro in
orizzontale nello spazio dellorchestra; una sorta di duplice occhio animato da
immagini in movimento che ci proiettano in una dimensione cosmica, come a
significare che i sentimenti archetipici accompagnano il cammino delluomo
attraverso il succedersi del tempo: colorate farfalle in volo, vortici di
fuoco, onde spumeggianti, ma anche frammenti di arte classica, come la statua della
dea Artemide, la maschera doro di Agamennone, il volto marmoreo contratto dal
dolore di Laocoonte.
Chiude
la scenografia (firmata dallo stesso Livermore insieme a Lorenzo Russo
Rainaldi) un fondale di acciaio riflettente, lungo ventisette metri e alto
otto, che con la sua imponente presenza abbraccia attori e spettatori
rendendoli partecipi del medesimo destino.
Senza
sbavature linterpretazione dei protagonisti che si avvalgono della filologica
traduzione di Walter Lapini: Laura Marinoni presta la sua imperiosa
presenza a una Clitennestra sanguigna, violenta e aggressiva, e insieme subdola
e modernamente carnale, che irretisce il marito con la sottile ambiguità del logos,
unito a una prorompente sensualità, messa in evidenza dagli abiti, uno nero,
laltro rosso, che ne fasciano le morbide forme. LAgamennone di Sax Nicosia
è dittatoriale e al tempo stesso disarmato nella presunzione del suo potere. Espressione
di un dolore consapevolmente impotente è la sacerdotessa Cassandra di Linda
Gennari, lacerata dalla visione dei delitti passati e di quelli futuri di
cui anchella sarà vittima. E infine Egisto, un grumo di nevrosi, un uomo
dominato dallamante, la cui debolezza si fa vile ferocia in quel suo sparare
colpi di pistola a raffica sul cadavere del re morto. Quanto alla carica di
sofferta umanità che connota la figura della sentinella, che con il suo
monologo apre lAgamennone, e quella dellAraldo reduce da Troia, il
regista la affida significativamente alla sensibilità di due interpreti
femminili, Maria Grazia Solano e Olivia Manescalchi. Un momento dello spettacolo
© Michele Pantano
Fuori
dagli schemi tradizionali, e comunque sacrificato nel suo ruolo di
interlocutore privilegiato del senso ultimo della tragedia, si colloca il Coro
pensato da Livermore, che ne riduce la presenza a tre anziani veterani di
guerra, costretti in carrozzella e assistiti da altrettante infermiere e da due
dottori in camice bianco. Li guida la corifea, interpretata con rigorosa
durezza da Gaia Aprea che, stretta in un austero tailleur nero
con cravatta in stile nazista, si fa rigida custode dei segreti della reggia e
delle dinamiche del potere. Il tutto collocato in unambientazione in stile
anni 30 (definita anche dai costumi di Gianluca Falaschi) con poltrone
e mobiletti depoca e un grammofono in primo piano a suggerire un ambiente
abitato dallalta borghesia.
Se
nel complesso la filologia cede il passo allo spettacolo e nel rutilare della
performance si smarrisce il senso del pathei mathos (la conoscenza
attraverso la sofferenza) che traccia i confini del rapporto tra luomo e la
divinità, tuttavia il lavoro di Livermore ha il merito di catturare gli
spettatori e di condurli lungo il testo eschileo, sorreggendoli nel difficile
percorso di attraversamento della tragedia.
Dal
turgore barocco allessenzialità scarnificata: è abissale la differenza tra lAgamennone
del regista piemontese e lEdipo re di Carsen, che ha asciugato la
componente spettacolare a favore della parola sofoclea (la traduzione è di Francesco
Morosi, la drammaturgia di Ian Burton). Ridotto il contrasto di
colori al solo bianco (labito stile anni 50 di Giocasta e le camicie degli
uomini) e nero (i costumi di tutti i personaggi, Coro compreso, creazione di Luis
F. Carvalho) che spiccano sul grigio della scenografia, creando una sorta
di immagine cinematografica degli albori della decima arte, e richiamano la
contrapposizione di base luce/tenebre e colpa/espiazione, Carsen ha fatto
piazza pulita di ogni elemento scenografico aggiuntivo giocando invece sulla
presenza massiccia di un Coro composto da ottanta elementi che abitano lo
spazio con geometrica precisione. Su tutto domina il logos, percepibile con nettezza nel suo scorrere nei
meandri linguistici dellambiguità sofoclea, da cui scaturisce lironia
tragica, elemento distintivo di un testo esemplare nella storia del teatro,
come già sanciva Aristotele nella Poetica. E così la trama, scandita
dal concatenarsi sussultorio degli eventi, con spinte in avanti e brusche
frenate nel cammino verso la consapevolezza di Edipo, si dipana con cristallina
chiarezza creando uno stato di tensione che attanaglia gli spettatori attratti
dalla forza del mythos, il racconto.
Lazione
si svolge tra lo spazio dellorchestra e laltissima scala in calcestruzzo che
insiste sulla scena (opera di Radu Boruzescu) e conduce
alla reggia, verso il cui interno i membri della famiglia reale scendono come
in un abisso che ingoia fatti e persone, rendendo in tal modo tangibile la
dimensione dellinconscio, componente essenziale della tragedia nel ruolo
giocato dai protagonisti, Edipo e Giocasta. Ma la scala simboleggia anche il
vertice del potere di Edipo nel suo iniziale, carismatico apparire in cima a essa
in risposta alle invocazioni accorate del Coro, supplice nel chiedere il suo
intervento salvifico contro la peste che dilania la città. È un potere che
crolla e si annienta sotto il peso della colpa: da quelle stesse scale il re,
alla fine del suo lacerante cammino verso la verità, scenderà nudo, coperto
solo del proprio sangue e della veste che era di Giocasta, e brancolando cieco nel
buio al quale ha condannato sé stesso posto di
fronte allorrore del patricidio e dellincesto risalirà i gradini della cavea
verso lesilio. Un momento dello spettacolo © Maria Pia Ballarino
Allessenzialità
visiva si affianca la sobrietà antiretorica della recitazione, sempre
controllata, mai sopra le righe anche nei momenti di più intenso pathos.
Giuseppe Sartori disegna con duttilità le sfaccettature del personaggio:
allinizio, sicuro di sé stesso e confidente nella forza della propria
intelligenza, messa alla prova in passato dallenigma della Sfinge, ma irruente
e tirannico nei confronti di Creonte e Tiresia, sospettati di complottare a suo
danno. Poi, sgomento e attraversato dal dubbio della colpa, subito rimosso
dalla presunzione di dover fronteggiare unicamente una nascita oscura,
eventuale motivo di vanto e non di vergogna. Piagato infine da una realtà
indicibile, che lascia spazio solo al lamento.
Materna
e insieme amante appassionata è la Giocasta resa con sensibilità nella sua
duplice, occulta natura da Maddalena Crippa, eppure connotata da una
spiazzante impronta borghese voluta dalla regia forse per evidenziare come la
vulnerabilità dellessere umano di fronte al destino non riguardi solo i
personaggi eroici del mito, ma la vita di ognuno. Intensa la prova di Graziano
Piazza, nella parte di Tiresia, indovino cieco (realisticamente reso tale
sulla scena da un paio di lentine bianche) riluttante a rivelare unoscena
verità, che latteggiamento protervo di Edipo lo costringerà a scagliare come
un maglio sul suo antagonista. Razionale e misurato Paolo Mazzarelli nel
dare vita a un Creonte forte della propria innocenza e arbitro infine della
sorte di Edipo.
Eccellente
il lavoro fatto dal regista sul Coro che si muove sulle minuziose, schematiche coreografie
di Marco Berriel, guidato da Rosario Tedesco (Capo Coro) ed Elena
Polic (Corifea). Di forte impatto lingresso in scena con i coreuti che
indossano nere mascherine sanitarie e recano sulle braccia vuote vesti nere
evocative degli infiniti lutti abbattutesi sulla città, così come toccante è la
croce formata dai singoli individui rivestiti di un cupo velo che ne copre i
volti, lasciando in vista solo le mani a creare un tenue gioco di colore. Ieratica
nel suo dinamismo, minimalista ma amplificato dallalto numero dei coreuti
impegnati in gesti gravidi di senso, la compagine delle donne e degli uomini
tebani incarna il travaglio di una comunità devastata dalla peste – metafora
del male che può colpire la collettività –, e lo sgomento dellindividuo al
cospetto degli oscuri disegni degli dei. Un momento dello spettacolo © Maria Pia Ballarino
La
scelta stilistica, rigorosa e scabra, del regista canadese anche sul versante
delle musiche (firmate da Cosmin Nicolae) ha generato uno spettacolo che,
senza nulla concedere agli effetti speciali, nella sua acuminata essenzialità
ha liberato la forza dirompente delloriginale, capace di suscitare unentusiastica
adesione anche da parte del pubblico, numeroso, dei giovani.
|
|