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La strada verso est

di Giuseppe Gario
  La strada verso est
Data di pubblicazione su web 06/05/2022  

«La prima guerra mondiale fu per la Germania una impresa superiore ai suoi mezzi, risultato di una ostinata sottovalutazione delle forze altrui e della sopravvalutazione delle proprie. Questo permanente disconoscimento della realtà costituì la “continuità dell’errore” e affondava profondamente le sue radici nella politica mondiale guglielmina» (F. Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, Torino, Einaudi, 1965, p. 815).

«Finora, l’invasione dell’Ucraina è stata un disastro per le forze armate russe». «Il budget per la difesa della Russia, di oltre 250 miliardi di dollari in potere d’acquisto, è circa tre volte quello di Gran Bretagna o Francia, ma in gran parte è sperperato o rubato». «La Russia può essere vasta, ma è un sistema politico di medie dimensioni che anela ancora a diventare superpotenza. La sua popolazione si colloca tra Bangladesh e Messico, la sua economia tra Brasile e Corea del Sud e la sua quota di esportazioni globali tra Taiwan e Svizzera» (How rotten is Russia’s Army?, «The Economist», 30 aprile-6 maggio 2022, on line). «In vent’anni di potere Vladimir Poutin ha condotto quattro guerre ricorrendo allo stesso sotterfugio. La seconda guerra di Cecenia (1999-2009), quando non esitò a pilotare lui stesso un aereo da caccia Sukhoi, era una “operazione antiterroristica”. La guerra del 2008 in Georgia, una campagna per “difendere i suoi cittadini” nelle regioni separatiste dell’Ossezia del sud e dell’Abkazia, dove aveva distribuito passaporti russi. Quella iniziata nel 2005 in Siria, solo un “intervento” “su richiesta” dell’alleato Bachar Al-Assad per lottare “contro terroristi internazionali”. Nel 2014, nel Donbass, in Ucraina dell’est, la presenza di soldati russi sul terreno è stata semplicemente negata. La guerra non esiste nel vocabolario del capo del Cremlino, salvo la Grande Guerra patriottica del 1941-1945, la cui commemorazione il 9 maggio non ha smesso di deviare anno dopo anno in manifestazioni sempre più grandiose, a servizio non della memoria, ma della preparazione degli spiriti al sacrificio di sé e all’idea che la Russia sarebbe, come ieri, assediata» (I. Mandraud-M. Zerrouky, Russie. Poutine, le culte de la guerre, «Le Monde», 24-25 aprile 2022, on line).

La guerra è fuori legge da quando il 27 agosto 1938 fu firmato a Parigi il Patto generale di rinuncia alla guerra come strumento politico, al 1939 ratificato da sessantatré stati, tra cui USA, Australia, Canada, Cecoslovacchia, Germania, Regno Unito, India, Irlanda, Italia, Nuova Zelanda, Sudafrica, Polonia, Belgio, Francia, Giappone. Il 24 ottobre 1945 a San Francisco fu fondata l’Organizzazione delle Nazioni Unite per rafforzare la pace internazionale, la sicurezza e le buone relazioni tra gli Stati, promuovere lo sviluppo sociale e economico e garantire il rispetto dei diritti umani che l’unanime assemblea ONU votò nella Dichiarazione universale dei diritti umani il 10 dicembre 1948 a Parigi.

Due guerre mondiali hanno sancito l’unità del mondo, ma non con la forza, e pandemia e crisi ambientale ribadiscono lo storico progetto affidato dal 1472 a noi che, scoperta l’America nel 1492, ci diciamo moderni: «considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza», invece della «somma spensieratezza nel lasciare indolentemente entrare nella patria la pestilenza; somma stolidità nel ricusare la credenza ai fatti» (P. Verri, in Stolidità, Treccani). Oggi nel lasciare indolentemente entrare nel mondo la crisi ambientale, il virus Covid e il rischio di guerra civile globale, di nuovo in Europa sulla strada verso est.


La strada verso est di Philippe Sands – docente di diritto allo University College London, chiamato in processi della Corte penale internazionale fra cui quello per l’estradizione di Augusto Pinochet – ripercorre le vicende anche familiari a Leopoli, il cui nome era Lemberg nell’impero austroungarico, Lwów nella Polonia risorta dopo la Prima guerra mondiale, L’vov quando fu occupata dai sovietici allo scoppio della Seconda guerra mondiale, ancora Lemberg per gli invasori nazisti e dopo la guerra L’viv in Ucraina. «Lemberg, L’viv, L’vov e Lwów sono lo stesso posto. Il nome della città è cambiato, come pure la composizione e la nazionalità dei suoi abitanti, ma la posizione e gli edifici sono rimasti gli stessi: perfino quando, negli anni compresi tra il 1914 e il 1945, passò di mano non meno di otto volte» (P. Sands-I. C. Blum, La strada verso est, Parma, Guanda, 2017, p. 9). Il 25 marzo 1943 sulla strada verso est a pochi chilometri da Lemberg, «gli ebrei di Żółkiev, tremilacinquecento, furono portati a piedi nei boschi, in una radura e alle fosse scavate nella sabbia. Li misero in fila, a due chilometri dal centro della loro cittadina, e poi spararono» (ivi, p. 62).

A Lemberg/Lwów studiarono diritto Hersch Lauterpacht e pochi anni dopo Raphael Lemkin. Mai incontratisi, ebbero un ruolo di primo piano, pur se non ufficiale, nel processo di Norimberga ai capi nazisti. «Le loro idee hanno avuto risonanza a livello mondiale e la loro eredità è arrivata ovunque. I concetti di genocidio e di crimini contro l’umanità si sono sviluppati fianco e fianco, in un rapporto che lega l’individuo e il gruppo» (ivi, p. 386). «Dovettero passare cinquant’anni prima che l’idea di un tribunale penale internazionale divenisse realtà: i vari stati spingevano in direzioni diverse, incapaci di trovare un accordo sulla punizione dei crimini internazionali. La svolta finalmente arrivò nel luglio del 1998, catalizzata dalle atrocità commesse nell’ex Jugoslavia e in Ruanda. Quell’estate, a Roma, più di 150 nazioni si accordarono su uno statuto per un tribunale penale internazionale». «Nel settembre del 1998, due mesi dopo il raggiungimento dell’accordo sull’ICC, Jean-Paul Akayesu fu la prima persona condannata per il crimine di genocidio da un tribunale internazionale, al termine del processo celebrato dal Tribunale penale internazionale per il Ruanda. Qualche settimana dopo, nel novembre del 1998, la Camera dei Lord a Londra decretò che il senatore Augusto Pinochet, ex presidente del Cile, non aveva diritto alla immunità dalla giurisdizione dei tribunali britannici, giacché gli atti di tortura dei quali si diceva fosse responsabile erano un crimine contro l’umanità. Fu la prima volta in cui un tribunale nazionale si pronunciò in tal senso. Nel maggio del 1999, il presidente serbo Slobodan Milošević fu il primo capo di stato a essere accusato, durante il proprio mandato, di crimini contro l’umanità per le sue presunte azioni in Kosovo. Nel novembre del 2001, dopo che ebbe lasciato la carica, fu aggiunta l’accusa di genocidio in relazione alle atrocità commesse in Bosnia a Srebrenica». «Nel settembre del 2007, la Corte internazionale di giustizia dell’Aia stabilì che la Serbia aveva violato i suoi obblighi nei confronti della Bosnia e dell’Erzegovina, non impedendo il genocidio di Srebrenica: per la prima volta una corte internazionale condannava uno stato per aver violato la Convenzione sul genocidio». «I processi, come i crimini, non si fermano. Attualmente lavoro su casi di genocidio o crimini contro l’umanità che vedono coinvolti stati quali Serbia, Croazia, Libia, Stati Uniti, Ruanda, Argentina, Cile, Israele e Palestina, Regno Unito, Arabia Saudita, Yemen, Iran, Iraq e Siria» (ivi, pp. 387-388). E in questi giorni il procuratore della Corte internazionale dell’Aja ha dichiarato che «gli abusi contro i migranti possono essere considerati come crimini di guerra e crimini contro l’umanità», con il ruolo documentato della cosiddetta guardia costiera libica e di alcuni suoi responsabili, oltre ai legami opachi con alcuni governi europei, incluso il nostro (N. Scavo, “In Libia crimini contro l’umanità”. Dall’Aja nuove accuse sugli abusi, «Avvenire», 30 aprile 2022).

Inoltre «la pandemia ci ha costretto a prendere atto che il mercato globale non offre risposte adeguate alle sfide più importanti, quelle da cui dipende la nostra vita» (M. Florio, La privatizzazione della conoscenza, Roma-Bari, Laterza, 2021, p. 3). «Viviamo in una situazione paradossale. La scienza dei nostri giorni nasce – sotto vari profili – come bene pubblico, ma finisce con l’essere privatizzata. Questo meccanismo di privatizzazione della conoscenza produce diseguaglianza sociale e contribuisce ad una distribuzione disomogenea dei redditi e dei patrimoni che sta minacciando le fondamenta degli stati e la convivenza sociale» (ivi, p. 4). «Lo scenario potrebbe cambiare se ci fossero in campo nuovi protagonisti: infrastrutture pubbliche sovranazionali ad alta intensità di conoscenza e imprese pubbliche di nuovo tipo, orientate da missioni scientifiche e tecnologiche a lungo termine. L’Europa potrebbe esserne l’incubatore, apprendendo dall’esperienza delle tante eccellenti infrastrutture di cui già si dispone, come il CERN, l’Agenzia Spaziale Europea, l’European Molecular Biology Laboratory e varie altre». «Il nuovo paradigma della produzione di scienza è intrinsecamente basato su comunità scientifiche cosmopolite, non è legato a missioni nazionali, ma tipicamente a coalizioni internazionali di governi, garantisce l’accesso universale ai dati, rifugge dalla segretezza e cerca di attrarre l’interesse del grande pubblico, motiva il lavoro dei ricercatori non con la partecipazione al profitto, ma con il piacere della scoperta» (ivi, pp. 4-5). «Le imprese private fanno il loro mestiere: fare soldi per gli investitori. Il problema è che abbiamo urgentemente bisogno di altro: di conoscenze in campi in cui o non si possono generare profitti a breve termine oppure, simmetricamente, in cui la creazione di extraprofitti da oligopolio sarebbe inaccettabile per ragioni sia di equità sociale sia di efficienza dinamica. Sussidiare le grandi imprese o regolamentarle non funziona. Occorre un’altra strada» (ivi, p. 5).

«Propongo – per illustrare concretamente l’idea – tre missioni e quindi tre soggetti strategici: salute umana, cambiamento climatico, governo dei dati. La dimensione europea di queste imprese potrebbe essere quella giusta per garantirne il successo per varie ragioni: perché nessuno stato europeo può fare da sé, perché esiste una solida base di competenze scientifiche e tecniche da cui partire, perché l’Unione europea con la pandemia sta vivendo un momento di rifondazione, favorevole all’investimento pubblico e alle missioni pubbliche di ampio respiro» (ivi, pp. 17-18). «Queste proposte potrebbero essere fattibili non solo sotto il profilo scientifico e tecnologico, economico e finanziario, ma potrebbero entrare nella agenda politica del confronto fra un’Europa progressista e quella che guarda indietro, talvolta molto indietro. È il momento giusto di parlarne» (ivi, p. 18).

Confronto fra un’Unione Europea in pace da tre generazioni e un’Europa di stati tuttora in guerra.

Daniele Coen, medico d’urgenza alla guida per quindici anni del pronto soccorso dell’ospedale Niguarda di Milano, offre un’esperienza preziosa: «La medicina può controllare sempre meglio sintomi e malattie, ma non sarà mai in grado di vincere la battaglia contro la sofferenza e la morte. Soprattutto, è importante che i pazienti capiscano che solo attraverso il proprio coinvolgimento nelle decisioni che li riguardano queste potranno alla fine risultare davvero appropriate» (D. Coen, L’arte della probabilità. Certezze e incertezze della medicina, Milano, Raffaello Cortina, 2021, p. 236). È la pietra angolare anche della democrazia, nata in Europa, che con tutti i suoi limiti ne è la levatrice, se si darà un Governo UE in luogo di un Consiglio semestrale di 27 stati, impotente nella sempre più pericolosa deriva globale tecnologica contro i diritti umani, pronosticata da George Orwell in 1984

Sfruttando il digitale, «la Cina ha un’ambizione mondiale, il controllo dei dati» (N. Guibert, La Chine a une ambition mondiale: le control des données, «Le Monde», 27 aprile 2022, on line), Putin invade l’Ucraina e in USA Elon Musk si offre Twitter fra polemiche perché «non è seguace della trasparenza nelle sue società: è solo lui a parlare e ha persino soppresso il servizio stampa Tesla. Capo d’impresa noto per la sua brutalità, ha valutato di non remunerare più il consiglio di sorveglianza» (A. Leparmentier, Elon Musk s’offre Twitter et crée la polémique, «Le Monde», 27 aprile 2022, on line). «“Non mi interessa l’economia”, ha detto in una conferenza TED a inizio del mese. “È solo la mia forte intuitiva sensazione che avere una piattaforma pubblica massimamente affidabile e ampiamente inclusiva, sia estremamente importante nel futuro della civiltà». «C’è molto scetticismo sul desiderio professato da Musk di salvaguardare il “futuro della civiltà”» (Twitter. Elon Musk is taking Twitter’s “public square” private, «The Economist», 30 aprile-6 maggio 2022, on line).

Non a caso, «in un mese, l’Unione Europea si è dotata di un vero arsenale legislativo per contrastare il potere dei padroni del digitale» (Régulation du web: l’Europe en pointe, «Le Monde», 27 aprile 2022, on line). E nel sostenere la resistenza ucraina all’aggressione della Russia di Putin, l’UE chiarisce che in gioco non è il dominio del mondo – ossessione dei potenti di turno – ma il rispetto dei diritti umani, pietra angolare di ogni sviluppo e ora anche del futuro dell’umanità.







 
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