Da quando la ventiseienne Maria
Callas (a Venezia, nel 1949) sostituì allultimo momento un illustre
soprano leggero nei Puritani, questopera ha cessato di esser vista come
declinazione drammatica dellantico genere larmoyant, dove la follia per
amore rappresentava un transito patetico-sentimentale verso il lieto fine: con
quelle recite la cantante greca traghettò lestremo capolavoro di Bellini
verso i lidi di tragedie più fosche, più disposte a sporcarsi le mani con
linconscio femminile, più inclini a compulsare il cuore oscuro del belcanto
anziché la sua dimensione diafana e siderale.
Da tale rivoluzione copernicana nata
quasi per caso, la percezione dei Puritani si è poi arricchita di altri due
fondamentali tasselli. Da una parte la consapevolezza che pure i sopracuti del
tenore, disseminati da Bellini lungo la partitura con astratta noncuranza dei
limiti della laringe umana, non hanno nulla di esibizionistico o esornativo
(sebbene in tal senso abbiano sollecitato gli istinti peggiori dei
loggionisti), ma rispondono a una drammaturgia canora estatico-catartica di
somma espressività. Dallaltro lato – ed è stato un processo ancora più lungo –
si è sviluppata la coscienza che proprio la drammatizzazione di quei supposti
atletismi vocali fanno assurgere lorchestra al ruolo non di accompagnatore
(come per troppo tempo nel repertorio belcantistico si è voluta considerarla),
ma di personaggio autonomo: in cui momenti di apparente couleur locale
tornano sotto forma di Leitmotiv psicologico e dove, insomma, la
“musica di carattere” diventa “musica-segnale”. Un po come accade nella grande
letteratura ottocentesca, quando la descrizione dei paesaggi evolve da oasi
bozzettistica a nucleo della narrazione. Un momento dello spettacolo © Fabrizio Sansoni
Sotto tutti questi aspetti, I Puritani
andati in scena allOpera di Roma sono uno spettacolo psicologicamente e
stilisticamente consapevole: dunque – a ben vedere – uno spettacolo moderno, nel
senso più autentico del termine. Qualcosa ha funzionato solo a intermittenze,
ma la percezione di un Bellini ormai liberatosi dalla sua griglia di compositore
forgiato sui versi del libretto, e capace di trovare nella pura musica
lessenza della propria drammaturgia, si è profilata con chiarezza. Roberto
Abbado è più direttore affidabile che di personalità spiccata, e una
certa timidezza la si può notare nella distribuzione emotiva di pesi e
contrappesi: taluni momenti lancinanti (il passaggio repentino, nella
protagonista, dallansia per il suo destino di sposa coartata al giubilo per
lessere stata promessa allamato bene) escono, se non ridimensionati, parzialmente
disinnescati, mentre in altri passaggi per Bellini più convenzionali (ad
esempio la stretta su cui si chiude il finale del primo atto) Abbado insuffla
uno spessore davvero insolito. Piuttosto che sullarticolazione del fraseggio
orchestrale, dà lidea di lavorare sulla qualità del suono: sempre morbido, ma
di una morbidezza snella e trasparente, ignara di quelle ombreggiate rotondità che
si è soliti attribuire alla tavolozza timbrica del nostro melodramma romantico.
Ne sortisce un “romanticismo atemporale”, forse più evocativo che narrativo, che
rende comunque bene il clima sospeso di questopera e lidea di un Bellini alla
ricerca di nuove strade, che la morte prematura impedirà poi di battere.
Analogamente, anche Andrea De
Rosa non è un regista dirresistibili qualità ermeneutiche. Coglie però
bene il dato “callasiano” di cui si diceva allinizio: vedere nella pazzia per amore,
e in quellornamentazione vocale che ne rappresenta il corollario, un torbido sussulto
dellinconscio anziché unobnubilazione angelicata. Ripiegamenti patetici e
gorgheggi volteggianti sulle nuvole di unastrazione a suo modo serena qui
cedono il passo a un atto di violenza inaudita, che scende dai recessi della
tragedia greca: novella Edipo condannata dal destino alla castità anziché
allincesto, Elvira si ferisce il volto fino ad accecarsi, in un masochismo che
tenta di surrogare il mancato appagamento erotico; o nel quale (a voler leggere
il gesto in chiave meno cruda, ma altrettanto disperata) la follia uterina
della vergine abbandonata nel giorno delle nozze si trasforma in cecità
isterica. Cantante di solito piuttosto rigida sul piano recitativo, Jessica
Pratt qui si mette in gioco senza riserve e sigla unemozionante performance
di attrice: infagottata in un abito da sposa per lei troppo grande, che ne
fanno una sorta di bambina costretta a crescere troppo in fretta, catapultata
in un mondo – la guerra, la ragion di stato, gli uomini che decidono per lei –
in cui non si riconosce. Un momento dello spettacolo © Fabrizio Sansoni
Tuttavia, si tratta di una
potente intuizione piuttosto che di un progetto registico sviluppato fino in
fondo (quel «reo tormento» che «accieca» Riccardo qui avrebbe potuto dar vita a
un fertile rapporto nascosto tra i due personaggi), anche perché uno spettacolo
del genere richiedeva un lavoro più capillare sulla gestualità degli
interpreti. Né De Rosa trova supporti risolutivi nei suoi collaboratori: di Nicolas
Bovey convince la scelta di uno spazio scenico semivuoto eppure
claustrofobico, ma quella sorta di gabbia luminosa che imprigiona la cecità di
Elvira – e poi pure tutti gli altri – è una soluzione suggestiva sulla carta più
che nel concreto; mentre Mariano Tufano, pluripremiato costumista
cinematografico prestato per la prima volta al melodramma, ha la capacità di
fare del costume un vero e proprio personaggio finché è in scena la
protagonista (Elvira trasformata in mummia dalla veste nuziale in cui si
avvolge è unimmagine che resterà a lungo negli occhi degli spettatori), limitandosi
però, con tutti gli altri ruoli, a disegnare abiti storici senza tempo che poco
aiutano nella definizione di Arturo, di Riccardo, di Giorgio.
Della Pratt, assodata sul fronte
attoriale la sua empatia con lo spettacolo, è quasi pleonastico tessere le lodi
sul piano vocalistico: fluidità, esattezza, facilità nelle ornamentazioni e
ottimo gusto nelle variazioni sono quelli di sempre, al servizio però di una
fraseggiatrice assai meno inamidata del solito, capace di volta in volta di esprimere
giubilo, malinconia e orrore con accento sempre pertinente ed eloquenti
differenziazioni timbriche. Tuttavia, se il cuore pulsante dei Puritani
sta nel soprano, lappuntamento canoro ineludibile resta quello con il tenore. John
Osborn non solo è, con tutta probabilità, il maggior interprete di
Arturo disponibile oggi, ma resta uno dei più grandi di sempre: una perfetta
congiunzione tra la grande scuola belcantistico-tenorile americana di fine
secolo scorso (Blake, Merritt) e un sapiente lavoro introiettivo
dello stile dei grandi tenori romantici italiani tra le due guerre (Lauri
Volpi in primis). Quanto ai famigerati appuntamenti con i
sopracuti, Osborn affronta il Do diesis di A te, o cara e i Re dellultimo
atto con un suono misto – una sorta di falsettone rinforzato – dove le
risonanze di petto sopravanzano quelle di testa, che si limitano a un arricchimento
di armonici, imponendosi il ricorso al falsetto puro solo nel siderale Fa
conclusivo. E se sul piano dello slancio amoroso, delleloquio cavalleresco,
della penetrante fosforescenza delle note estreme gli si potrà di volta in
volta preferire Pavarotti, Kraus o altri grandi di ieri e laltro
ieri, sta di fatto che – quegli stessi grandi – I Puritani li
cantavano per lo più sforbiciati, o integrali solo quando vi si cimentavano in
sede discografica. Osborn, invece, qui li affronta dal vivo nella loro assoluta
interezza: senza sconti né accomodamenti a posteriori. Un momento dello spettacolo © Fabrizio Sansoni
Robusto vocalmente (un suono sempre sonoro e ben sostenuto), Franco
Vassallo è forse meno affidabile sul piano stilistico nel ricondurre
Riccardo allarchetipo del baritono grintosamente antagonistico (in Ah, per
sempre io ti perdei evita certe note gravi sostituendole con altre),
glissando sui tratti sfumati, a tratti quasi preziosistici, impressi al
personaggio dalla scrittura di Bellini. Resta fermo, però, che è stata proprio
questa – Riccardo ragguagliato ai più sanguigni baritoni verdiani – la chiave
di lettura utilizzata da molti dei maggiori interpreti del ruolo, da Protti
a MacNeil, da Cappuccilli a, oggi, Carlos Alvarez:
Vassallo non fa che incanalarsi in una tradizione consolidata e a disturbare, semmai,
è la muscolarità di certe gratuite puntature, come quella con cui chiude la sua
cabaletta. Nicola Ulivieri, nei panni di Giorgio, è fraseggiatore
più pertinente, ma lemissione appare ormai un po troppo slabbrata per rendere
giustizia al “legato” di una pagina come Cinta di fiori. Mentre nella
breve apparizione della regina spodestata che si trasformerà in involontario
motore della tragedia spicca la giovane Irene Savignano: una
presenza timbrica che si impone con poche battute, da convogliare in ruoli di
maggior impegno.
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