drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti
cerca in vai

Folle cecità

di Paolo Patrizi
  I puritani
Data di pubblicazione su web 27/04/2022  

Da quando la ventiseienne Maria Callas (a Venezia, nel 1949) sostituì all’ultimo momento un illustre soprano leggero nei Puritani, quest’opera ha cessato di esser vista come declinazione drammatica dell’antico genere larmoyant, dove la follia per amore rappresentava un transito patetico-sentimentale verso il lieto fine: con quelle recite la cantante greca traghettò l’estremo capolavoro di Bellini verso i lidi di tragedie più fosche, più disposte a sporcarsi le mani con l’inconscio femminile, più inclini a compulsare il cuore oscuro del belcanto anziché la sua dimensione diafana e siderale.

Da tale rivoluzione copernicana nata quasi per caso, la percezione dei Puritani si è poi arricchita di altri due fondamentali tasselli. Da una parte la consapevolezza che pure i sopracuti del tenore, disseminati da Bellini lungo la partitura con astratta noncuranza dei limiti della laringe umana, non hanno nulla di esibizionistico o esornativo (sebbene in tal senso abbiano sollecitato gli istinti peggiori dei loggionisti), ma rispondono a una drammaturgia canora estatico-catartica di somma espressività. Dall’altro lato – ed è stato un processo ancora più lungo – si è sviluppata la coscienza che proprio la drammatizzazione di quei supposti atletismi vocali fanno assurgere l’orchestra al ruolo non di accompagnatore (come per troppo tempo nel repertorio belcantistico si è voluta considerarla), ma di personaggio autonomo: in cui momenti di apparente couleur locale tornano sotto forma di Leitmotiv psicologico e dove, insomma, la “musica di carattere” diventa “musica-segnale”. Un po’ come accade nella grande letteratura ottocentesca, quando la descrizione dei paesaggi evolve da oasi bozzettistica a nucleo della narrazione.

Un momento dello spettacolo 
© Fabrizio Sansoni

Sotto tutti questi aspetti, I Puritani andati in scena all’Opera di Roma sono uno spettacolo psicologicamente e stilisticamente consapevole: dunque – a ben vedere – uno spettacolo moderno, nel senso più autentico del termine. Qualcosa ha funzionato solo a intermittenze, ma la percezione di un Bellini ormai liberatosi dalla sua griglia di compositore forgiato sui versi del libretto, e capace di trovare nella pura musica l’essenza della propria drammaturgia, si è profilata con chiarezza. Roberto Abbado è più direttore affidabile che di personalità spiccata, e una certa timidezza la si può notare nella distribuzione emotiva di pesi e contrappesi: taluni momenti lancinanti (il passaggio repentino, nella protagonista, dall’ansia per il suo destino di sposa coartata al giubilo per l’essere stata promessa all’amato bene) escono, se non ridimensionati, parzialmente disinnescati, mentre in altri passaggi per Bellini più convenzionali (ad esempio la stretta su cui si chiude il finale del primo atto) Abbado insuffla uno spessore davvero insolito. Piuttosto che sull’articolazione del fraseggio orchestrale, dà l’idea di lavorare sulla qualità del suono: sempre morbido, ma di una morbidezza snella e trasparente, ignara di quelle ombreggiate rotondità che si è soliti attribuire alla tavolozza timbrica del nostro melodramma romantico. Ne sortisce un “romanticismo atemporale”, forse più evocativo che narrativo, che rende comunque bene il clima sospeso di quest’opera e l’idea di un Bellini alla ricerca di nuove strade, che la morte prematura impedirà poi di battere.

Analogamente, anche Andrea De Rosa non è un regista d’irresistibili qualità ermeneutiche. Coglie però bene il dato “callasiano” di cui si diceva all’inizio: vedere nella pazzia per amore, e in quell’ornamentazione vocale che ne rappresenta il corollario, un torbido sussulto dell’inconscio anziché un’obnubilazione angelicata. Ripiegamenti patetici e gorgheggi volteggianti sulle nuvole di un’astrazione a suo modo serena qui cedono il passo a un atto di violenza inaudita, che scende dai recessi della tragedia greca: novella Edipo condannata dal destino alla castità anziché all’incesto, Elvira si ferisce il volto fino ad accecarsi, in un masochismo che tenta di surrogare il mancato appagamento erotico; o nel quale (a voler leggere il gesto in chiave meno cruda, ma altrettanto disperata) la follia uterina della vergine abbandonata nel giorno delle nozze si trasforma in cecità isterica. Cantante di solito piuttosto rigida sul piano recitativo, Jessica Pratt qui si mette in gioco senza riserve e sigla un’emozionante performance di attrice: infagottata in un abito da sposa per lei troppo grande, che ne fanno una sorta di bambina costretta a crescere troppo in fretta, catapultata in un mondo – la guerra, la ragion di stato, gli uomini che decidono per lei – in cui non si riconosce.

Un momento dello spettacolo 
© Fabrizio Sansoni

Tuttavia, si tratta di una potente intuizione piuttosto che di un progetto registico sviluppato fino in fondo (quel «reo tormento» che «accieca» Riccardo qui avrebbe potuto dar vita a un fertile rapporto nascosto tra i due personaggi), anche perché uno spettacolo del genere richiedeva un lavoro più capillare sulla gestualità degli interpreti. Né De Rosa trova supporti risolutivi nei suoi collaboratori: di Nicolas Bovey convince la scelta di uno spazio scenico semivuoto eppure claustrofobico, ma quella sorta di gabbia luminosa che imprigiona la cecità di Elvira – e poi pure tutti gli altri – è una soluzione suggestiva sulla carta più che nel concreto; mentre Mariano Tufano, pluripremiato costumista cinematografico prestato per la prima volta al melodramma, ha la capacità di fare del costume un vero e proprio personaggio finché è in scena la protagonista (Elvira trasformata in mummia dalla veste nuziale in cui si avvolge è un’immagine che resterà a lungo negli occhi degli spettatori), limitandosi però, con tutti gli altri ruoli, a disegnare abiti storici senza tempo che poco aiutano nella definizione di Arturo, di Riccardo, di Giorgio.

Della Pratt, assodata sul fronte attoriale la sua empatia con lo spettacolo, è quasi pleonastico tessere le lodi sul piano vocalistico: fluidità, esattezza, facilità nelle ornamentazioni e ottimo gusto nelle variazioni sono quelli di sempre, al servizio però di una fraseggiatrice assai meno inamidata del solito, capace di volta in volta di esprimere giubilo, malinconia e orrore con accento sempre pertinente ed eloquenti differenziazioni timbriche. Tuttavia, se il cuore pulsante dei Puritani sta nel soprano, l’appuntamento canoro ineludibile resta quello con il tenore. John Osborn non solo è, con tutta probabilità, il maggior interprete di Arturo disponibile oggi, ma resta uno dei più grandi di sempre: una perfetta congiunzione tra la grande scuola belcantistico-tenorile americana di fine secolo scorso (Blake, Merritt) e un sapiente lavoro introiettivo dello stile dei grandi tenori romantici italiani tra le due guerre (Lauri Volpi in primis). Quanto ai famigerati appuntamenti con i sopracuti, Osborn affronta il Do diesis di A te, o cara e i Re dell’ultimo atto con un suono misto – una sorta di falsettone rinforzato – dove le risonanze di petto sopravanzano quelle di testa, che si limitano a un arricchimento di armonici, imponendosi il ricorso al falsetto puro solo nel siderale Fa conclusivo. E se sul piano dello slancio amoroso, dell’eloquio cavalleresco, della penetrante fosforescenza delle note estreme gli si potrà di volta in volta preferire Pavarotti, Kraus o altri grandi di ieri e l’altro ieri, sta di fatto che – quegli stessi grandi – I Puritani li cantavano per lo più sforbiciati, o integrali solo quando vi si cimentavano in sede discografica. Osborn, invece, qui li affronta dal vivo nella loro assoluta interezza: senza sconti né accomodamenti a posteriori.

Un momento dello spettacolo 
© Fabrizio Sansoni

Robusto vocalmente (un suono sempre sonoro e ben sostenuto), Franco Vassallo è forse meno affidabile sul piano stilistico nel ricondurre Riccardo all’archetipo del baritono grintosamente antagonistico (in Ah, per sempre io ti perdei evita certe note gravi sostituendole con altre), glissando sui tratti sfumati, a tratti quasi preziosistici, impressi al personaggio dalla scrittura di Bellini. Resta fermo, però, che è stata proprio questa – Riccardo ragguagliato ai più sanguigni baritoni verdiani – la chiave di lettura utilizzata da molti dei maggiori interpreti del ruolo, da Protti a MacNeil, da Cappuccilli a, oggi, Carlos Alvarez: Vassallo non fa che incanalarsi in una tradizione consolidata e a disturbare, semmai, è la muscolarità di certe gratuite puntature, come quella con cui chiude la sua cabaletta. Nicola Ulivieri, nei panni di Giorgio, è fraseggiatore più pertinente, ma l’emissione appare ormai un po’ troppo slabbrata per rendere giustizia al “legato” di una pagina come Cinta di fiori. Mentre nella breve apparizione della regina spodestata che si trasformerà in involontario motore della tragedia spicca la giovane Irene Savignano: una presenza timbrica che si impone con poche battute, da convogliare in ruoli di maggior impegno.




I puritani
Opera seria in tre atti


cast cast & credits
 
trama trama



© Fabrizio Sansoni

Lo spettacolo è stato 
visto il 24 aprile 2022 

 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013