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Un trasformistico e raffinato divertissement

di Andrea Strangio
  Solo
Data di pubblicazione su web 26/04/2022  

È tornato sulla scena italiana, in una edizione aggiornata, Solo, ultimo one man show di Arturo Brachetti, una delle figure cardine della prestigiazione contemporanea, rifondatore, a partire dagli anni Ottanta, di una branca dell’illusionismo pressoché scomparsa dal panorama teatrale internazionale dagli anni Venti del Novecento: il trasformismo scenico. Una pratica performativa la cui attrattiva consiste nel dare vita a una serie continua di personaggi mediante rapidissimi cambi di costume e di trucco.

All’inizio dello spettacolo, il contenitore scenico è chiuso all’altezza del proscenio da un telo sul quale è proiettato un surreale e sdoppiato ritratto del volto dell’artista, che fluttua fra le tavole di un nudo palcoscenico e un cielo dalle fattezze magrittiane. L’effigie-matrioska (la stessa della locandina) si anima: ruota di novanta gradi e una carrellata ottica in avanti conduce lo sguardo degli spettatori nella “mente” di Brachetti. Sollevatosi lo schermo-sipario, una simbolica scenografia (Rinaldo Rinaldi) simula lo spigolo interno di una enorme scatola dei ricordi in cartone squarciata diagonalmente, ai cui versanti lacerati è visibile persino il caratteristico strato di carta ondulata. Nel segno di una esibita mise en abyme, al centro della scena campeggia un tavolo rotante sul quale è collocato un altro contenitore che, scoperchiatosi magicamente, rivela al suo interno una sorta di “casa delle bambole” (Matteo Piedi). Il trasformista entra in scena vestito con un lungo impermeabile grigio e, dischiusa la facciata frontale dell’abitazione in miniatura, inizia a esplorare i suoi accurati interni mediante una GoPro 5, le cui riprese sono proiettate sulle pareti della scenografia.

 

Questo escamotage scenico-diegetico è l’idea forte che caratterizza l’impianto registico dello spettacolo. Brachetti innova il tradizionale assetto paratattico secondo il quale sono offerte le attrazioni da teatro di varietà, montando i suoi numeri in modo interdipendente, legandoli attraverso un comune fil rouge. «Sul palco entro in una sorta di casetta della memoria e ogni stanza mi proietta un mondo legato ai miei ricordi o ai nostri immaginari», afferma nell’intervista a Diego Vincenti. Così nella prima camera delle meraviglie, il soggiorno, un televisore anni Sessanta in bakelite marrone è il pretesto narrativo per dialogare con la memoria televisiva e cinematografica degli spettatori, ai quali l’artista offre a un ritmo vorticoso e trascinante i primi repentini cambi di costume, trasformandosi, tra gli altri, in Hulk, Spock, Batman, Jessica Fletcher, Wonder Woman, Cody Madison, Zio Fester, Sherlock Holmes e in uno dei Ghostbusters.


Un momento dello spettacolo
© Paolo Ranzani

 

Nel solaio della casa delle bambole, vano depositario dell’«archeologia famigliare», è conservata una falda di cappello forata, che il nonno gli aveva regalato esortandolo a «giocare con le cose dimenticate». Il microscopico scampolo di feltro, nell’atto di essere estratto dal modellino, diviene per magia di dimensioni naturali, pronto per essere utilizzato in una singolare performance di chapeaugraphie. Brachetti, modellando sul proprio capo la tesa del cappello, dà corpo di volta in volta a un colbacco russo, al berretto da arciere di Guglielmo Tell, a un elmetto da equitazione, all’acconciatura di Elizabeth Taylor nella parte di Cleopatra, all’ampio panama indossato dalla Scarlett O’Hara di Via col vento, a un copricapo da pompiere, al kabuto dei samurai, al petit chapeau di Napoleone.

 

La camera dell’infanzia è l’occasione per offrire al pubblico numerosi personaggi del mondo delle fiabe e delle favole quali Peter Pan, il lupo e Cappuccetto Rosso, Aladino, Biancaneve, Shrek, Cenerentola. In un altro momento dello spettacolo, il trasformista assume le sembianze di alcuni divi della musica: Pavarotti, Elvis Presley, i Beatles, Édith Piaf, Madonna, Beyoncé, Michael Jackson e Freddie Mercury. E, ancora, entrando e uscendo da due aperture di uno spezzato che raffigura la cucina di un ristorante partenopeo, riesce a recitare da solo una intera breve pièce, nella quale dà voce alle battute vestendo – letteralmente – i panni del cuoco, della cameriera, dello sposo, della sposa, della madre dello sposo, nonché del prete.

 

Sotto la copertura di cortine, teli, dense nuvole di fumo, improvvisi cambi di luce e grazie all’uso di speciali costumi di sua ideazione, nonché all’entourage di assistenti che lo aiuta dal retropalco attraverso le aperture segrete presenti nella scenografia, Brachetti riesce a trasformarsi in pochi secondi. La sapiente misdirection corporea, luministica e scenotecnica depista efficacemente l’attenzione degli spettatori dalle mosse segrete, offrendo loro una rutilante galleria di oltre sessanta magiche metamorfosi a ritmo di brani famosi e musiche originali (Fabio Valdemarin). L’artista, energico e appassionante, si rivela abile non solo nel padroneggiare il peculiare sapere tecnico della disciplina, ma anche nel fondare la propria recitazione su diversi registri. Brachetti caratterizza con precisione tutti i suoi – seppur telegrafici – personaggi. Per renderli istantaneamente riconoscibili ne esagera gli atteggiamenti e ne evidenzia i contrasti, spesso in chiave caricaturale, tragicomica o farsesca, mediante una espressività mimico-gestuale di rilievo, un competente uso plastico del corpo – specialmente nei ruoli en travesti –, nonché un impiego versatile della voce, capace di realizzare virtuosismi polilinguistici e vertiginosi pastiches fonetici.


Un momento dello spettacolo
© Paolo Ranzani

 

Al raffinato cabotinage si alternano momenti di suggestiva poesia. Reinterpretando l’effetto de La palla zombi, ideato negli anni Quaranta dal prestigiatore americano Joe Karson, Brachetti presenta un vestito a fiori – nei suoi ricordi confezionato dalla madre – e, facendolo magicamente librare a mezz’aria, intesse con l’abito una melanconica danza fantasmatica. Successivamente propone un numero dedicato alle quattro stagioni, in cui la foggia dei quattro costumi si ispira rispettivamente a Golconda (1953) di René Magritte, a Sopra Vitebsk (1914) di Marc Chagall, al ciclo delle Ninfee di Claude Monet e alla serie dei Girasoli di Van Gogh. E, ancora, esibisce una esperta chironomia durante la performance delle ombre cinesi e il toccante numero di sand painting.

 

Il caleidoscopico spazio scenico è in continuo mutamento. Ad animarlo tematicamente concorrono l’elaborato disegno luci (Valerio Tiberi), gli invisibili espedienti scenotecnici, gli accessori (Carlo Bono), le soluzioni pittoriche e, soprattutto, i sofisticati apparati di videomapping: un avanzato sistema di videoproiezioni incrociate che caratterizza le superfici degli elementi di scena. Un prodigioso ed esibito ibridismo fra fattualità e fantasmagoria che raggiunge la sua massima espressione nella scena finale: fra piramidi, muri e fasci di avveniristici raggi laser, il trasognato trasformista duella con la sua ombra razionale, interpretata da Kevin Michael Moore, che durante lo spettacolo lo esorta a più riprese a tenere i piedi per terra. Al termine della pacifica contesa, l’illusionista riesce a convincere la sua controparte e si leva in volo volteggiando all’interno di un cono di raggi luminosi. L’illusione è visivamente perfetta.


Un momento dello spettacolo
© Paolo Ranzani

«Un objet ne tient pas tellement à son nom qu’on ne puisse lui en trouver un autre qui lui convienne mieux», scrisse Magritte (Les mots et les images, in «La révolution surréaliste», VI, 1929, 12, p. 32). L’applauditissimo Brachetti con la sua drammaturgia dei costumi sembra dirci pressappoco la stessa cosa: un uomo non è a tal punto legato al suo costume da non poterne trovare un altro che gli si adatti meglio.





Solo
cast cast & credits
 



Arturo Brachetti in Solo
© Paolo Ranzani

Lo spettacolo è stato 
visto il 10 aprile 2022

 
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