Nellaccostarsi
per la prima volta al teatro musicale, e in particolare alla pucciniana Turandot,
lartista cinese Ai Weiwei confeziona uno spettacolo denso, in grado di
guidare i meccanismi della fiaba nellalveo turbolento della contemporaneità. Allestimento
periglioso, rimandato a lungo a causa della pandemia, ma proprio per questo
meditato e aggiornato sulla più stringente attualità, finalmente in scena al
Costanzi con grande attesa da parte del pubblico e dei media. La forza
corrosiva di Ai Weiwei si esplicita in un flusso continuo di proiezioni, il cui
legame con lazione è a volte scoperto, a volte allusivo. Il doloroso vagare di
Timur si accompagna a immagini di migrazioni epocali, mentre i repentini
mutamenti di umore della folla, pronta ad assistere alle più sanguinarie
esecuzioni, ma anche a muoversi a pietà per la sorte infelice del giovane
principe di Persia, evocano i disordini di Hong Kong e lautoritarismo della
Cina, ostile in più occasioni allopera del regista stesso e alle sue
aspirazioni libertarie. Un momento dello spettacolo © Fabrizio Sansoni Le nostalgiche elucubrazioni di Ping, Pang
e Pong nel primo quadro del secondo atto rappresentano loccasione per mostrare
paesaggi dei più noti luoghi del globo terrestre, depurati della propria fascinazione
turistica, raffigurati nella loro solitaria desolazione durante il periodo
pandemico. Nel secondo quadro del secondo atto telecamere di sorveglianza e
catene dorate volteggiano attorno allimperatore Altoum, perso in unassurda
lontananza. Nel terzo atto ordigni elaborati al computer solcano i cieli a
ricordare le innumerevoli conflittualità presenti sulla terra, e in particolare
la recente deflagrazione della guerra in Ucraina. Che la violenza da sempre
intercetti le traiettorie umane lo dimostrano le figure di guerrieri del mondo
antico impegnate in strenui combattimenti, o lombra della morte che miete le
sue vittime con implacabile costanza. Gallerie metropolitane, labirintiche
città riprese da audaci prospettive mostrano unumanità minuscola e sperduta,
schiacciata e disorientata dal peso degli eventi. Allinizio dellopera Calaf
porta sulle spalle unenorme rana; il che potrebbe alludere al romanzo di Mo
Yan intitolato appunto Le rane (anche se Ai Weiwei ha accusato lo
scrittore di essere integrato nel sistema). Comunque stiano le cose,
latteggiamento zoomorfico si riflette anche nella raffigurazione degli animali
del calendario cinese, indossati in forma di ingombranti lanterne. Un momento dello spettacolo © Fabrizio Sansoni
Spettacolo denso dicevamo, forse anche
troppo, di fronte al quale comunque non si resta indifferenti. Oksana Lyniv
dirige con analitica lucidità. La sua lettura elude gli scoperti languori per
delineare un mondo governato dalla meccanica spietata delle esecuzioni.
Bagliori metallici screziano con la loro algida crudeltà le prospettive della
fiaba. Solo nel finale, la scelta è stata quella di concludere lopera con la
morte di Liù, eludendo lassillo pucciniano riguardo allumanizzazione della
gelida protagonista, il sentimento sembra squarciare il velo che lo ottunde. In
questottica il percorso della Lyniv appare coerente sia con lallestimento,
quanto con il rovello intimo del compositore. La vicenda, in realtà, si
conclude con il sacrifico damore (poeticamente Ai Weiwei immagina sia il
fantasma del principe di Persia a coprire il corpo esanime di Liù). Il duetto
finale, nelle sue diverse incarnazioni a partire dagli appunti pucciniani, è
unoccasione vocale per i due protagonisti, ma poco aggiunge allo scioglimento
della vicenda. Non è un caso che la necessità di sentirsi in sintonia con i
tempi, unitamente ai dubbi legati a tale esigenza, abbia rallentato tanto a
lungo la conclusione dellopera da incontrare la morte del suo autore. Disorientato
dalle suggestioni mitteleuropee, primi fra tutti Busoni e Richard
Strauss, Puccini sembra dibattersi in una insanabile inquietudine. Comunque
sia è un magnifico torso quello della Turandot, in particolare nelle
perfette dinamiche del primo atto a giudizio di chi scrive, coerente anche
nella sua dolorosa incompiutezza.
Un momento dello spettacolo © Fabrizio Sansoni
Cast nel complesso
valido. Ewa Vesin è una Turandot di inquieta asperità, sicura nelle
esternazioni più violente ma anche in grado di far balenare alcune incrinature
nellapparente fissità del personaggio. Angelo Villari è un Calaf nel
solco della tradizione, dalla vocalità robusta e sicura, anche se non sempre
rifinito. Bravissima Adriana Ferfecka, una Liù fragile e toccante la
quale riesce davvero a divenire fulcro della narrazione. Dal punto di vista
vocale mostra una tecnica sopraffina, che le permette di sfumare e fraseggiare
con grande sensibilità. Modesto il terzetto delle maschere (Alessio Verna,
Enrico Iviglia e Pietro Picone), non in gran forma Marco
Spotti nel ruolo di Timur. Apprezzabile il mandarino di Andrii Ganchuk,
diafano e ieratico come si conviene limperatore di Rodrigo Ortiz.
Teatro pieno e grande successo di pubblico.
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