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Attualità di Turandot

di Riccardo Cenci
  Turandot
Data di pubblicazione su web 30/03/2022  

Nell’accostarsi per la prima volta al teatro musicale, e in particolare alla pucciniana Turandot, l’artista cinese Ai Weiwei confeziona uno spettacolo denso, in grado di guidare i meccanismi della fiaba nell’alveo turbolento della contemporaneità. Allestimento periglioso, rimandato a lungo a causa della pandemia, ma proprio per questo meditato e aggiornato sulla più stringente attualità, finalmente in scena al Costanzi con grande attesa da parte del pubblico e dei media. La forza corrosiva di Ai Weiwei si esplicita in un flusso continuo di proiezioni, il cui legame con l’azione è a volte scoperto, a volte allusivo. Il doloroso vagare di Timur si accompagna a immagini di migrazioni epocali, mentre i repentini mutamenti di umore della folla, pronta ad assistere alle più sanguinarie esecuzioni, ma anche a muoversi a pietà per la sorte infelice del giovane principe di Persia, evocano i disordini di Hong Kong e l’autoritarismo della Cina, ostile in più occasioni all’opera del regista stesso e alle sue aspirazioni libertarie.

Un momento dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni

Le nostalgiche elucubrazioni di Ping, Pang e Pong nel primo quadro del secondo atto rappresentano l’occasione per mostrare paesaggi dei più noti luoghi del globo terrestre, depurati della propria fascinazione turistica, raffigurati nella loro solitaria desolazione durante il periodo pandemico. Nel secondo quadro del secondo atto telecamere di sorveglianza e catene dorate volteggiano attorno all’imperatore Altoum, perso in un’assurda lontananza. Nel terzo atto ordigni elaborati al computer solcano i cieli a ricordare le innumerevoli conflittualità presenti sulla terra, e in particolare la recente deflagrazione della guerra in Ucraina. Che la violenza da sempre intercetti le traiettorie umane lo dimostrano le figure di guerrieri del mondo antico impegnate in strenui combattimenti, o l’ombra della morte che miete le sue vittime con implacabile costanza. Gallerie metropolitane, labirintiche città riprese da audaci prospettive mostrano un’umanità minuscola e sperduta, schiacciata e disorientata dal peso degli eventi. All’inizio dell’opera Calaf porta sulle spalle un’enorme rana; il che potrebbe alludere al romanzo di Mo Yan intitolato appunto Le rane (anche se Ai Weiwei ha accusato lo scrittore di essere integrato nel sistema). Comunque stiano le cose, l’atteggiamento zoomorfico si riflette anche nella raffigurazione degli animali del calendario cinese, indossati in forma di ingombranti lanterne.

Un momento dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni


Spettacolo denso dicevamo, forse anche troppo, di fronte al quale comunque non si resta indifferenti. Oksana Lyniv dirige con analitica lucidità. La sua lettura elude gli scoperti languori per delineare un mondo governato dalla meccanica spietata delle esecuzioni. Bagliori metallici screziano con la loro algida crudeltà le prospettive della fiaba. Solo nel finale, la scelta è stata quella di concludere l’opera con la morte di Liù, eludendo l’assillo pucciniano riguardo all’umanizzazione della gelida protagonista, il sentimento sembra squarciare il velo che lo ottunde. In quest’ottica il percorso della Lyniv appare coerente sia con l’allestimento, quanto con il rovello intimo del compositore. La vicenda, in realtà, si conclude con il sacrifico d’amore (poeticamente Ai Weiwei immagina sia il fantasma del principe di Persia a coprire il corpo esanime di Liù). Il duetto finale, nelle sue diverse incarnazioni a partire dagli appunti pucciniani, è un’occasione vocale per i due protagonisti, ma poco aggiunge allo scioglimento della vicenda. Non è un caso che la necessità di sentirsi in sintonia con i tempi, unitamente ai dubbi legati a tale esigenza, abbia rallentato tanto a lungo la conclusione dell’opera da incontrare la morte del suo autore. Disorientato dalle suggestioni mitteleuropee, primi fra tutti Busoni e Richard Strauss, Puccini sembra dibattersi in una insanabile inquietudine. Comunque sia è un magnifico torso quello della Turandot, in particolare nelle perfette dinamiche del primo atto a giudizio di chi scrive, coerente anche nella sua dolorosa incompiutezza.


Un momento dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni


Cast nel complesso valido. Ewa Vesin è una Turandot di inquieta asperità, sicura nelle esternazioni più violente ma anche in grado di far balenare alcune incrinature nell’apparente fissità del personaggio. Angelo Villari è un Calaf nel solco della tradizione, dalla vocalità robusta e sicura, anche se non sempre rifinito. Bravissima Adriana Ferfecka, una Liù fragile e toccante la quale riesce davvero a divenire fulcro della narrazione. Dal punto di vista vocale mostra una tecnica sopraffina, che le permette di sfumare e fraseggiare con grande sensibilità. Modesto il terzetto delle maschere (Alessio Verna, Enrico Iviglia e Pietro Picone), non in gran forma Marco Spotti nel ruolo di Timur. Apprezzabile il mandarino di Andrii Ganchuk, diafano e ieratico come si conviene l’imperatore di Rodrigo Ortiz. Teatro pieno e grande successo di pubblico.





Turandot



cast cast & credits
 
trama trama



Ewa Vesin in Turandot
© Fabrizio Sansoni

Lo spettacolo è stato 
visto il 29 marzo 2022 

 
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