Acclamato dalla critica internazionale, vincitore di numerosi riconoscimenti e candidato agli Oscar in ben tre categorie – Miglior film internazionale, Miglior film documentario e Miglior film danimazione –, Flee porta alla ribalta internazionale il quarantenne Jonas Poher Rasmussen, autore di una serie di cortometraggi e di due documentari: Searching for Bill (2012) e What He Did (2015). Il regista danese decide di raccontare, alternando passato e presente, la travagliata storia del suo amico afgano Amin. La scelta di realizzare un lungometraggio animato rimanda immediatamente allo struggente documentario La strada dei Samouni (2018) di Stefano Savona, incentrato sul dramma di una famiglia sterminata fuori dalla città di Gaza e sul difficile percorso di riabilitazione dei superstiti: i due film sono accumunati dalla volontà di astrarre gli orrori della guerra e delle sue conseguenze attraverso lutilizzo del disegno.
Una scena del film
La narrazione del passato di Amin avviene nel suo farsi, con i ripensamenti, le auto-censure, i cambi di rotta e le conseguenze che si ripercuotono nel presente sulla relazione con il suo fidanzato. Nel 1989 fugge con la madre e i suoi fratelli da Kabul a Mosca, dopo il ritiro dellURSS dallAfghanistan e la conseguente presa del potere da parte dei guerriglieri islamici dei mujaheddin. Questa, tuttavia, non è la versione che Amin ha sempre raccontato: nel suo ultimo viaggio verso la Danimarca, il trafficante gli impone di mentire, facendo credere di essere lunico superstite della sua famiglia, così da ottenere facilmente lo status di rifugiato. Ed è proprio questa la storia a cui, su ricatto e con pesanti ricadute sul rapporto con sé e con gli altri, è sempre stato fedele. La permanenza in Russia è ricordata come drammatica ed estenuante. La famiglia è costretta a dividersi per emigrare: leccessivo costo da versare ai trafficanti di esseri umani li costringe a partire separatamente, a distanza di mesi luno dallaltro. I viaggi sono terribili, potenzialmente letali e umilianti. Infine, Amin parte da solo pensando di raggiungere il fratello maggiore e le sorelle in Svezia ma viene portato, invece, in Danimarca, dove lo aspetta una nuova vita pagata al caro prezzo di una menzogna.
Una scena del film
Il film affronta con estremo tatto ed empatia il tema dellomosessualità: essa non rappresenta un ulteriore peso per il protagonista, al contrario è come se ne tenesse coesa lidentità attraverso tutti i cambiamenti e le destabilizzazioni vissute. Immagini di repertorio si inseriscono ripetutamente allinterno dellanimazione, la quale assume differenti stili a seconda della nitidezza che Amin assume agli occhi dello spettatore e di sé stesso: se la versione della storia “falsa” – in cui lintera famiglia viene uccisa – è rappresentata grezzamente, senza colori e dai contorni indefiniti, il finale in cui Amin si spoglia delle aspettative (proprie e altrui) e fa pace con luomo che è, nonché col suo passato, contiene fotogrammi dal vero, testimonianza che il racconto e la realtà finalmente coincidono.
Una scena del film
La “necessità” di questo film, in un momento storico come quello attuale, è lampante: per gli stessi afgani in fuga dopo il ritiro degli Stati Uniti lo scorso agosto; per i profughi ucraini che costituiscono ormai il più ingente flusso migratorio in Europa dal secondo dopoguerra; per tutti gli altri migranti nel mondo le cui tragiche storie sono invisibili. Lopera ha il merito di approfondire, dunque, il significato del verbo flee: fuggire non solo dalla guerra ma anche dalle conseguenze che un profugo si porta dietro fino alla morte. Una volta concluso, per il fuggitivo il racconto risulta essere catartico, per lo spettatore una presa di coscienza.
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Flee
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La locandina del film
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