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Uno spettro si aggira oltre Heldenplatz

di Andrea Strangio
  Piazza degli Eroi
Data di pubblicazione su web 07/03/2022  


Scritto in occasione dei cinquanta anni dell’annessione dell’Austria alla Germania di Hitler e rappresentato per la prima volta il 4 novembre 1988 al Burgtheater di Vienna con la regia di Claus Peymann, Heldenplatz di Thomas Bernhard aveva scandalizzato l’udienza e la classe politica austriache di allora, esplicitamente accusate di essere ancora in forte odore di nazismo.

 

Al centro della pièce, atto unico in tre quadri, c’è la vicenda di una famiglia della Vienna della fine degli anni Ottanta che reagisce al suicidio – solo raccontato – di Josef Schuster, professore di matematica ebreo, che si è dato senechianamente la morte per sfuggire all’onta e alla paura di vivere in un’Austria in preda a un revival nazionalsocialista. Per strada la figlia Olga viene ricoperta di sputi: segno manifesto di un odio antisemita non ancora superato. Una storia che «sembra quasi una profezia sull’Europa che sarebbe venuta di lì a poco e che stiamo vivendo ancora adesso, l’Europa dei sovranismi e dei populismi». Così il regista Roberto Andò nell’intervista a Angela Consagra, motivando la scelta politica di dirigere il primo allestimento italiano di Piazza degli Eroi, nella traduzione di Roberto Menin. Un testo tagliente e ironico, ultima fatica teatrale dell’amato e già frequentato grande scrittore e drammaturgo austriaco, di cui Andò, nel 2017, aveva messo in scena Minetti (1976).

 

Prima dell’inizio dello spettacolo, gli spettatori prendono visione dell’idea forte che caratterizza l’impianto scenico realizzato da Gianni Carluccio. Una serie di fogli sparsi sulle tavole del proscenio, osservata da lontano, dà corpo a un apparente pavimento in cocci di pietra sul quale giacciono numerose paia di scarpe da uomo. Un assetto che ricorda (cita?) le Scarpe sulla riva del Danubio (2005), un gruppo scultoreo allestito in memoria della Shoah sul lungo Danubio di Budapest dall’attore e regista cinematografico Can Togay e dallo scultore Gyula Pauer. Ai fianchi in boiserie dell’avanscena sono collocati da un lato una porta e dall’altro un pianoforte verticale, mentre – letteralmente – una “quarta parete” rende la scatola scenica ancora impermeabile alla vista. Questo il pre-show, fortemente evocativo, che alimenta l’attesa del pubblico in sala.


Un momento dello spettacolo
© Lia Pasqualino

 

Sollevatosi il muro-sipario, in una realistica scena parapettata, costituita da due guardaroba a muro laterali, due finestroni frontali e ingombrata da valigie, bauli e armadi da viaggio, la governante signora Zittel (Imma Villa), in scena con la domestica Herta (Valeria Luchetti), dà il via all’azione, che si registra eminentemente sul piano della parola per tutta la durata dello spettacolo. La governante, intenta a lucidare le scarpe, a stirare e piegare le camicie del professore, intesse con Herta un “dialogo” composto da lunghe, ripetitive battute alle quali la cameriera non pare dare ascolto. La Zittel di Villa dà energicamente voce e corpo a un’azione verbale fondata su micro-variazioni ritmiche e linguistiche, ordendo un monologo ossessivo circa le caratteristiche intellettuali e comportamentali del defunto: cinico ma lucido pensatore, «pazzo fanatico della precisione», disgustato da tutto «ciò che l’umanità ama» (come gli «iris» che per lui «hanno un profumo letale»), consumato da un presente in cui «tutto è peggiorato rispetto a cinquant’anni fa», altresì persuaso che «quando l’uomo non ha più via d’uscita deve uccidersi».

 

L’apparente quotidiano realismo della prima scena va – per nostra fortuna – in cortocircuito segnatamente in forza di una presenza accessoria alla diegesi: un pianista-performer (Vincenzo Pasquariello) che, oltre a suonare virtuosamente il pianoforte illuminato da una luce fredda, abita in silenzio l’intero spazio scenico. Figura dell’inesorabilità della moira, actor zittito ma per nulla commosso da La banalità del male, durante l’intera recita volge brechtianamente il suo sguardo distaccato al pubblico, prende appunti su un taccuino, sistema alcuni accessori di scena, si aggira al di là delle finestre, si siede inerte sul ciglio del proscenio. Ostacolando una piena immedesimazione, invita gli spettatori a prendere coscienza dei meccanismi sociali, di ieri e di oggi, che determinano gli orrori fascisti.


Un momento dello spettacolo
© Lia Pasqualino


La seconda parte è dominata da una luce cilestrina e diffusa che, unitamente alla modulazione dell’impianto scenografico costituito da un fondale neutro, concorre a determinare uno spazio simbolico e destoricizzato. Sul palco, invaso da una pioggia intermittente di caduche foglie autunnali, due panchine sono sovrastate da quattro scheletri d’alberi secchi appesi, iconologicamente impiccati dalle stesse radici che si pensava fossero state recise. Qui agiscono le figlie del professore, la riservata Olga (Francesca Cutolo) e la passionale Anna (Silvia Ajelli), nonché il pianista e l’anziano fratello del defunto, il professore di filosofia Robert, interpretato da un immenso Renato Carpentieri, fermo e sicuro nelle sue variazioni vocali. Il filosofo è un disilluso raisonneur che, pur avendo rinunciato da tempo alla facoltà di protestare, denuncia con ardente passione il ritorno di un «rigurgito nazista» e di una «megalomania sovranista» in una Austria e una Europa dove tutto sembra distogliere l’umanità «dalla catastrofe che arriverà»: un colpo al cuore sia per gli attori sia per gli spettatori nell’attuale momento storico.

 

Il quadro finale ripropone un dato scenografico simile al primo. Nella sala da pranzo dell’appartamento viennese si trovano riuniti Robert, Anna, Olga e due conoscenti del professore (Stefano Jotti ed Enzo Salomone), raggiunti in ultimo anche da Lukas (Paolo Cresta), figlio del suicida, nonché dalla vedova Schuster (Betti Pedrazzi). Sulle prime il clima è grottesco, animato in scena anzitutto da Robert, che inveisce sarcasticamente contro la stampa, l’università, la mancanza di carattere della sinistra, il laidume della destra, le demi-mondaines del teatro, e in sala dalle risa e dai singulti del pubblico. Via via l’atmosfera è ispessita dalla intermittenza dei rumori extrascenici (Hubert Westkemper), dai violenti giochi di luce e dalla mimica inerte e allucinata di Betti Pedrazzi, che gestisce sapientemente una sorta di alternata scissione del suo personaggio. Da un lato la parte drammatica, relativa all’interazione con gli attori sulla scena, e dall’altro quella epica, costituita da degli “a parte” rivolti all’udienza mediante un muto viso impietrito, isolato dal contesto in penombra attraverso un occhio di bue, a commento della sua stessa voce che scorre preregistrata. Un espediente registico voluto anche per alcune battute di Robert.


Un momento dello spettacolo
© Lia Pasqualino


La signora Schuster, confidandosi in playback, manifesta tutta la sua alienazione, frutto di una vita passata accanto a un intellettuale inquieto e in una dimora capace di ridestare in lei l’eco delle voci, provenienti da Piazza degli Eroi, che nel 1938 inneggiavano al Terzo Reich. La vedova, agnello sacrificale, ma di una giudaica Ultima cena, si spegne stramazzando con la testa nel piatto. I commensali, di scatto, si levano in piedi rimanendo congelati come in posa per una foto di scena.

 

La recitazione curatissima degli interpreti, abili specialmente nel modulare l’armonia del proprio strumento vocale, e la suggestiva drammaturgia dello spazio e del suono, diretti dalla solerte regia di Andò, mettono in valore le sfumature e le divergenti atmosfere di un dramma privato e, al contempo, collettivo. Lo spettacolo, forse fin troppo fedele a un testo ipertrofico quale è quello di Bernhard, è senz’altro una riuscita metafora contro ogni fascismo: da vedere, da soffrire, da godere.



Piazza degli Eroi
cast cast & credits
 




© Lia Pasqualino

Lo spettacolo è stato 
visto il 26 febbraio 2022 
al Teatro della Pergola di Firenze

 
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