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Il prisma cangiante del romanticismo verdiano

di Paolo Patrizi
  Luisa Miller
Data di pubblicazione su web 15/02/2022  

Si fa presto a dire romanticismo. Bisogna vedere quale. Quando nel 1849 – appena lasciatosi alle spalle il filone dei melodrammi risorgimentali e pronto a tuffarsi nei nuovi traguardi drammatici della trilogia popolare – Verdi approda a Luisa Miller, si è già più volte accostato a Hugo, Byron e Schiller. Il romanzesco popolare del primo gli ha suggerito Ernani. La lotta titanica dell’uomo contro un destino ingrato, perno dell’estetica byroniana, ha dato i suoi frutti nei Due Foscari e nel Corsaro. Le tragiche antinomie di Schiller tra la reale natura dei personaggi e le loro azioni sono emerse con estrema evidenza plastica nei Masnadieri e, con qualche guazzabuglio stilistico, nella Giovanna d’Arco. Tutti “shakerati” all’interno di una nuova, ulteriore drammaturgia – quel “realismo romantico” che era poi la lente con cui l’autore declinava pure Shakespeare – inequivocabilmente ed esclusivamente verdiana.

Non più lavoro di apprendistato giovanile, e non ancora archetipo di coesione come i capolavori alle porte, Luisa Miller però scompagina le carte. Tratta da uno Schiller – quello di Kabale und Liebe – dove i dissidi emotivi questa volta non nascono dall’interno dei personaggi, ma sono frutto di devastanti contrasti sociali, Verdi vi trovò fertili spunti, coagulati in una drammaturgia musicale tutt’altro che omogeneizzante: una sublime economia di mezzi quasi belliniana (la trasognata, stilizzatissima romanza Quando le sere al placido) si alterna a costruzioni di estrema complessità (il monumentale concertato che chiude il primo atto), lo scontro borghesia versus aristocrazia si rispecchia nell’urto dialettico tra reminiscenze belcantistiche (la cavatina del soprano) e un recitar cantando a suo modo espressionistico (il duetto tra i due bassi). E se la scrittura orchestrale svolge un ruolo di primo piano sotto il profilo tanto dell’evocazione psicologica quanto della pennellata paesaggistica, si tratta comunque d’una presenza oltremodo asciutta: l’ostinata unitematicità dell’ouverture resterà un caso eccezionale tra le sinfonie verdiane.

Un momento dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni

Il primo cimento di Michele Mariotti come direttore musicale del Teatro dell’Opera di Roma (non sarà facile dimenticare i risultati raggiunti dal suo predecessore Daniele Gatti) giunge dunque sotto il segno di una partitura problematica. Ex enfant prodige da poco entrato nella grande famiglia dei quarantenni, Mariotti non sembra però cambiato troppo – né fisicamente né artisticamente – da quel talentoso sbarbatello che ebbe il suo lancio una quindicina di anni fa con un Simon Boccanegra a Bologna: allora come oggi permangono una rimarchevole flessibilità di braccio, il gusto per accompagnamenti nitidi e tersi, una grazia assennata nel sostenere i cantanti. Insomma, un fare bella calligrafia che è certo buon punto di partenza, a patto di approdare a qualcosa d’ulteriore. Tale scatto in avanti, in questi tre lustri che per Mariotti sono stati saturi d’importanti traguardi, è parso un po’ latitante e pure la sua Luisa Miller romana – garbata nel pastellare gli sprazzi idillici, serena nel non lasciar emergere alcuna specifica “tinta” romantica – sembra confermarlo: a cominciare dalla sinfonia, dove il movimento di Allegro viene ricondotto proprio alla sua dimensione letterale, lasciando trapelare un’amenità ignara dell’ansia febbrile impressa dal disegno verdiano. Quasi inevitabile, d’altronde, che una direzione calligrafica sfoci in una concertazione poco idiomatica, quando l’opera è basata su continue ripetizioni tematiche (oltre alla sinfonia si pensi alla romanza del tenore e alla cabaletta del baritono) da vitalizzare attraverso inesauste pulsazioni interne.

La regia di Damiano Michieletto – un allestimento proveniente da Zurigo – trova ottimo supporto nell’eleganza funzionale delle scene di Paolo Fantin: una piattaforma ruotante che descrive, alternativamente e simultaneamente, i due interni familiari (la dimora montano-borghese dei Miller e quella cittadino-nobiliare dei Walter) intesi come facce intercambiabili della stessa claustrofobica medaglia. Resta deficitario invece il lavoro registico in senso stretto, affidato a un simbolismo déja vu (l’innocenza dei giovani protagonisti duplicata da due mimi-bambini che spesso mandano avanti l’azione) e alquanto pedestre, con l’uccisione dell’antico signore di Walter visualizzata dalla presenza in scena dello stesso, a mo’ di fantasma di Banco, mentre il Conte e Wurm rivangano quel loro efferato omicidio. Ma pure a lasciarsi catturare da certi straniamenti della regia, e anche a voler gradire la fragile scorrevolezza della direzione, quello tra Michieletto e Mariotti resterebbe un incontro male assortito: tanto la narrazione visiva del primo è angolosa, nera e sopra le righe quanto il racconto musicale dell’altro è smussato, trasparente, equilibrato. E il fatto che spesso lavorino insieme profuma più di comuni destini d’agenzia che di reale sintonia artistica.

Un momento dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni

Fortunatamente la serata è stata molto più appagante sul fronte canoro: per un’opera con sei ruoli protagonistici non si tratta di un dettaglio. Spicca, su tutti, il baritono. Il mongolo Amartuvshin Enkhbat è da qualche anno un verdiano di prim’ordine anche sui palcoscenici italiani, in virtù di un materiale vocale (morbido e scuro, robusto e flessibile) non solo privilegiatissimo, ma al servizio di una tecnica infallibile per emissione, proiezione, sostegno del suono: una sorta di crocevia tra il meglio della scuola baritonale americana del dopoguerra e le icone italiane postbelliche in chiave di Fa, un occhio a Robert Merrill e l’altro a Bastianini. Tuttavia, finora si era cimentato in personaggi – Rigoletto e Nabucco, Renato e il Conte di Luna – dove tali modelli potevano fungere da ottima bussola; adesso, alle prese con un ruolo dove i suoi due numi tutelari mai approdarono, come appunto è il caso del vecchio Miller, mostra pure una personalità artistica del tutto autonoma. Come a dire che, già epigono eccellente, Enkhbat sta trasformandosi in un caposcuola.

Il personaggio di Luisa parte come soprano lirico d’agilità di stampo donizettiano, evolve nel secondo atto verso gli acuti di slancio e il canto di sbalzo, approda nel finale a una drammaticità disadorna e concentrata. Con la sua voce limpidamente omogenea, Roberta Mantegna cresce di atto in atto: precisa e un po’ scolastica (ma è anche l’accompagnamento di Mariotti a essere tale) nelle colorature della cavatina; più empatica con le ragioni del personaggio, ma forse ancora leggermente circospetta, nel bruciante scontro con Wurm; totalmente compenetrata nel finale. Ne sortisce un bel ritratto femminile lirico-drammatico, memore non tanto delle grandi interpreti di ieri sera (Caballé, Scotto) quanto, pure in questo caso, di illustri modelli anni Cinquanta: viene in mente la Luisa Miller di Antonietta Stella, con cui la Mantegna tra l’altro condivide il destino di essere una cantante “nata” artisticamente all’Opera di Roma.

Un momento dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni

Purtroppo non è di pari livello il suo partner Antonio Poli, la cui tenorilità appare gradevole tanto nella perorazione amorosa quanto nell’affondo spavaldo, ma finché ci si mantiene in un alveo eminentemente lirico. Quando però il personaggio di Rodolfo salpa verso lidi più spinti, Poli non è pari ai desiderata del ruolo; e se il disco storico ci ha insegnato come perfino un tenore di grazia (Anselmi, Valletti) possa trarre buon partito dall’incantamento che permea Quando le sere al placido, ciò resta possibile solo all’interno d’una perfetta quadratura musicale che non sembra rientrare – almeno in termini di appiombo ritmico – nell’armamentario di Poli. Dover affrontare un brano ai limiti delle proprie possibilità vocali, poi, imbriglia il fraseggiatore, che diventa assai generico: «i giuri», «le speranze», «la gioia», «le lagrime», «l’affanno» sono, sì, «tutto menzogna, tradimento, inganno», ma si presume dovrebbero esprimere concetti diversi tra loro. Mentre qui tali termini vengono omogeneizzati da un accento ripetitivo e pressoché identico.

Il Conte di Michele Pertusi, al contrario, ricava il massimo profitto possibile da una voce ormai consunta. La timbratura è opacizzata, il “legato” (un tempo una delle sue carte migliori) si è fatto precario, ma resta un fraseggiatore sempre all’erta, che conosce davvero bene l’arte della parola scenica: ne sortisce una figura sprezzante e sfaccettata, forse ancor più odiosa nei conati di paternità che nella iattanza del potente. Troppo caricato l’altro basso Marco Spotti (d’altronde, per il personaggio di Wurm, è la stessa regia di Michieletto a premere l’acceleratore sul grottesco), mentre Daniela Barcellona affronta il breve e ostico ruolo di Federica forse senza particolare convinzione, ma con la classe di sempre, e Irene Savignano illumina il comprimariato della contadina Laura con una presenza timbrica importante, da riascoltare in un’occasione meno fugace.



Luisa Miller



cast cast & credits
 
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Un momento dello spettacolo
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