Si
fa presto a dire romanticismo. Bisogna vedere quale. Quando nel 1849 – appena lasciatosi
alle spalle il filone dei melodrammi risorgimentali e pronto a tuffarsi nei
nuovi traguardi drammatici della trilogia popolare – Verdi approda a Luisa
Miller, si è già più volte accostato a Hugo, Byron e Schiller.
Il romanzesco popolare del primo gli ha suggerito Ernani. La lotta
titanica delluomo contro un destino ingrato, perno dellestetica byroniana, ha
dato i suoi frutti nei Due Foscari e nel Corsaro. Le tragiche
antinomie di Schiller tra la reale natura dei personaggi e le loro azioni sono
emerse con estrema evidenza plastica nei Masnadieri e, con qualche guazzabuglio
stilistico, nella Giovanna dArco. Tutti “shakerati” allinterno di una
nuova, ulteriore drammaturgia – quel “realismo romantico” che era poi la lente
con cui lautore declinava pure Shakespeare – inequivocabilmente ed esclusivamente
verdiana.
Non
più lavoro di apprendistato giovanile, e non ancora archetipo di coesione come
i capolavori alle porte, Luisa Miller però scompagina le carte. Tratta
da uno Schiller – quello di Kabale und Liebe – dove i dissidi emotivi questa
volta non nascono dallinterno dei personaggi, ma sono frutto di devastanti
contrasti sociali, Verdi vi trovò fertili spunti, coagulati in una drammaturgia
musicale tuttaltro che omogeneizzante: una sublime economia di mezzi quasi belliniana
(la trasognata, stilizzatissima romanza Quando le sere al placido) si
alterna a costruzioni di estrema complessità (il monumentale concertato che
chiude il primo atto), lo scontro borghesia versus aristocrazia si rispecchia
nellurto dialettico tra reminiscenze belcantistiche (la cavatina del soprano) e
un recitar cantando a suo modo espressionistico (il duetto tra i due bassi). E se
la scrittura orchestrale svolge un ruolo di primo piano sotto il profilo tanto dellevocazione
psicologica quanto della pennellata paesaggistica, si tratta comunque duna
presenza oltremodo asciutta: lostinata unitematicità dellouverture
resterà un caso eccezionale tra le sinfonie verdiane. Un momento dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni
Il
primo cimento di Michele Mariotti come direttore musicale del
Teatro dellOpera di Roma (non sarà facile dimenticare i risultati raggiunti
dal suo predecessore Daniele Gatti) giunge dunque sotto il segno
di una partitura problematica. Ex enfant prodige da poco entrato
nella grande famiglia dei quarantenni, Mariotti non sembra però cambiato troppo
– né fisicamente né artisticamente – da quel talentoso sbarbatello che ebbe il
suo lancio una quindicina di anni fa con un Simon Boccanegra a Bologna:
allora come oggi permangono una rimarchevole flessibilità di braccio, il gusto
per accompagnamenti nitidi e tersi, una grazia assennata nel sostenere i
cantanti. Insomma, un fare bella calligrafia che è certo buon punto di
partenza, a patto di approdare a qualcosa dulteriore. Tale scatto in avanti,
in questi tre lustri che per Mariotti sono stati saturi dimportanti traguardi,
è parso un po latitante e pure la sua Luisa Miller romana – garbata
nel pastellare gli sprazzi idillici, serena nel non lasciar emergere alcuna specifica
“tinta” romantica – sembra confermarlo: a cominciare dalla sinfonia, dove il
movimento di Allegro viene ricondotto proprio alla sua dimensione letterale, lasciando
trapelare unamenità ignara dellansia febbrile impressa dal disegno verdiano. Quasi
inevitabile, daltronde, che una direzione calligrafica sfoci in una concertazione
poco idiomatica, quando lopera è basata su continue ripetizioni tematiche (oltre
alla sinfonia si pensi alla romanza del tenore e alla cabaletta del baritono) da
vitalizzare attraverso inesauste pulsazioni interne.
La
regia di Damiano Michieletto – un allestimento proveniente da
Zurigo – trova ottimo supporto nelleleganza funzionale delle scene di Paolo
Fantin: una piattaforma ruotante che descrive, alternativamente e
simultaneamente, i due interni familiari (la dimora montano-borghese dei Miller
e quella cittadino-nobiliare dei Walter) intesi come facce intercambiabili della
stessa claustrofobica medaglia. Resta deficitario invece il lavoro registico in
senso stretto, affidato a un simbolismo déja vu (linnocenza dei giovani
protagonisti duplicata da due mimi-bambini che spesso mandano avanti lazione) e
alquanto pedestre, con luccisione dellantico signore di Walter visualizzata
dalla presenza in scena dello stesso, a mo di fantasma di Banco, mentre il
Conte e Wurm rivangano quel loro efferato omicidio. Ma pure a lasciarsi
catturare da certi straniamenti della regia, e anche a voler gradire la fragile
scorrevolezza della direzione, quello tra Michieletto e Mariotti resterebbe un
incontro male assortito: tanto la narrazione visiva del primo è angolosa, nera e
sopra le righe quanto il racconto musicale dellaltro è smussato, trasparente, equilibrato.
E il fatto che spesso lavorino insieme profuma più di comuni destini dagenzia
che di reale sintonia artistica. Un momento dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni
Fortunatamente
la serata è stata molto più appagante sul fronte canoro: per unopera con sei ruoli
protagonistici non si tratta di un dettaglio. Spicca, su tutti, il baritono. Il
mongolo Amartuvshin Enkhbat è da qualche anno un verdiano di primordine
anche sui palcoscenici italiani, in virtù di un materiale vocale (morbido e
scuro, robusto e flessibile) non solo privilegiatissimo, ma al servizio di una
tecnica infallibile per emissione, proiezione, sostegno del suono: una sorta di
crocevia tra il meglio della scuola baritonale americana del dopoguerra e le
icone italiane postbelliche in chiave di Fa, un occhio a Robert Merrill e
laltro a Bastianini. Tuttavia, finora si era cimentato in personaggi – Rigoletto
e Nabucco, Renato e il Conte di Luna – dove tali modelli potevano fungere da
ottima bussola; adesso, alle prese con un ruolo dove i suoi due numi tutelari
mai approdarono, come appunto è il caso del vecchio Miller, mostra pure una
personalità artistica del tutto autonoma. Come a dire che, già epigono
eccellente, Enkhbat sta trasformandosi in un caposcuola.
Il
personaggio di Luisa parte come soprano lirico dagilità di stampo donizettiano,
evolve nel secondo atto verso gli acuti di slancio e il canto di sbalzo,
approda nel finale a una drammaticità disadorna e concentrata. Con la sua voce
limpidamente omogenea, Roberta Mantegna cresce di atto in atto:
precisa e un po scolastica (ma è anche laccompagnamento di Mariotti a essere
tale) nelle colorature della cavatina; più empatica con le ragioni del
personaggio, ma forse ancora leggermente circospetta, nel bruciante scontro con
Wurm; totalmente compenetrata nel finale. Ne sortisce un bel ritratto femminile
lirico-drammatico, memore non tanto delle grandi interpreti di ieri sera (Caballé,
Scotto) quanto, pure in questo caso, di illustri modelli anni Cinquanta:
viene in mente la Luisa Miller di Antonietta Stella,
con cui la Mantegna tra laltro condivide il destino di essere una cantante “nata”
artisticamente allOpera di Roma. Un momento dello spettacolo © Fabrizio Sansoni
Purtroppo
non è di pari livello il suo partner Antonio Poli, la cui
tenorilità appare gradevole tanto nella perorazione amorosa quanto nellaffondo
spavaldo, ma finché ci si mantiene in un alveo eminentemente lirico. Quando però
il personaggio di Rodolfo salpa verso lidi più spinti, Poli non è pari ai desiderata
del ruolo; e se il disco storico ci ha insegnato come perfino un tenore di
grazia (Anselmi, Valletti) possa trarre buon partito dallincantamento
che permea Quando le sere al placido, ciò resta possibile solo allinterno
duna perfetta quadratura musicale che non sembra rientrare – almeno in termini
di appiombo ritmico – nellarmamentario di Poli. Dover affrontare un brano ai
limiti delle proprie possibilità vocali, poi, imbriglia il fraseggiatore, che diventa
assai generico: «i giuri», «le speranze», «la gioia», «le lagrime», «laffanno»
sono, sì, «tutto menzogna, tradimento, inganno», ma si presume dovrebbero
esprimere concetti diversi tra loro. Mentre qui tali termini vengono omogeneizzati
da un accento ripetitivo e pressoché identico.
Il
Conte di Michele Pertusi, al contrario, ricava il massimo profitto possibile
da una voce ormai consunta. La timbratura è opacizzata, il “legato” (un tempo
una delle sue carte migliori) si è fatto precario, ma resta un fraseggiatore
sempre allerta, che conosce davvero bene larte della parola scenica: ne
sortisce una figura sprezzante e sfaccettata, forse ancor più odiosa nei conati
di paternità che nella iattanza del potente. Troppo caricato laltro basso Marco
Spotti (daltronde, per il personaggio di Wurm, è la stessa regia di
Michieletto a premere lacceleratore sul grottesco), mentre Daniela Barcellona
affronta il breve e ostico ruolo di Federica forse senza particolare
convinzione, ma con la classe di sempre, e Irene Savignano
illumina il comprimariato della contadina Laura con una presenza timbrica
importante, da riascoltare in unoccasione meno fugace.
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