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Essere almeno due Monica Vitti

di Cristina Jandelli
  Monica Vitti
Data di pubblicazione su web 08/02/2022  

Quante Monica Vitti ha avuto il cinema italiano? Almeno due, disposte in un ordine temporale ben noto. L’attrice drammatica che, nella tetralogia dei sentimenti di Michelangelo Antonioni (L’avventura, 1960; La notte, 1961; L’eclisse, 1962; Il deserto rosso, 1964), ha ridisegnato i contorni della performance moderna e l’attrice brillante, unica presenza femminile significativa della commedia all’italiana al fianco di Alberto Sordi (Amore mio aiutami, 1969; Polvere di stelle, 1973; Io so che tu sai che io so, 1982), Carlo Giuffré (La ragazza con la pistola di Monicelli, 1968), Marcello Mastroianni (Dramma della gelosia - Tutti i particolari in cronaca di Ettore Scola, 1970), Ugo Tognazzi (L’anatra all’arancia di Luciano Salce, 1975). Al centro di questa impegnativa giravolta, che mostra la sua straordinaria versatilità di interprete – fatto unico e sorprendente nella storia del cinema nazionale –, c’è una donna che aveva sognato fin da piccola di fare il mestiere che eserciterà per tutta la vita: «Quando mia madre presentava i suoi ragazzi, cominciava sempre dai miei fratelli che erano grandi, forti e facevano grandi studi. Quando arrivava il mio turno abbassava la voce, le salivano le lacrime agli occhi e sussurrava che volevo diventare attrice».


L’omaggio de La Cinémathèque française a Monica Vitti, 2 febbraio 2022 

Vitti inizia a fare teatro a quattordici anni, poi nel 1953 entra all’Accademia di Arte Drammatica Silvio D’Amico e manifesta l’ampiezza delle sue doti interpretative: da una parte recita Shakespeare e Molière, dall’altra gli allestimenti delle commedie sul signor Bonaventura diretti da Sergio Tofano che le dà il nome d’arte e individua con precisione in lei la stoffa della caratterista. Tale probabilmente sarebbe diventata se non avesse iniziato, a dispetto della voce “sfiatata” ma dalla dizione impeccabile, a fare doppiaggio. Nel 1957 Antonioni la sceglie per la performance solo vocale della benzinaia Virginia interpretata da Dorian Gray ne Il grido. Da quell’incontro gli handicap fisici che avrebbero reso improbabile il suo impiego in parti da protagonista nel cinema italiano del periodo – oltre all’inusuale timbro vocale l’eccessiva altezza e un naso particolare – diventano le peculiarità imprescindibili delle donne antonioniane nella citata tetralogia. Grazie a queste interpretazioni Vitti conquista il diritto ad assumere ruoli da protagonista nel cinema internazionale, prima con Roger Vadim (Il castello in Svezia, 1963) e poi con Joseph Losey (Modesty Blaise, 1966) che la sottraggono al contesto italiano mentre la sua immagine di “musa” antonioniana inizia a mutare di segno e a rivelare, al di là dell’attrice dell’incomunicabilità, una verve insospettabile. 

Il sodalizio con Antonioni e questo delicato passaggio, dal cinema italiano a quello europeo, necessario per legittimare il brusco cambio di rotta e permettere al suo personaggio brillante di conquistare una notorietà più ampia, ne ritarda di qualche anno l’ingresso nella commedia all’italiana che la accoglie quando ormai il filone si sta ripiegando su di sé, trasformandosi nella commedia di costume più ordinaria, come nota acutamente Gabriele Gimmelli su «Doppio Zero»: «non più acre e graffiante, ma sempre più corriva e compiacente». Gli anni Settanta la restituiscono al suo talento comico con parti da protagonista (Ninì Tirabusciò, la donna che inventò la mossa di Marcello Fondato, 1970), ma in ritardo sulla stagione d’oro del cinema popolare italiano. Mai caratterista dunque, solo donna di carattere che anche la televisione celebrava intervistandola su questioni molto dibattute all’epoca, come la militanza femminista raccontata a Enzo Biagi

Si è detto, almeno due Vitti. E la terza? Appare tardi, in prossimità con la sua prima regia (Scandalo segreto, 1990), ed è stata riscoperta solo di recente grazie a un progetto di ricerca nazionale intitolato Divagrafie, una cartografia delle attrici cinematografiche italiane autrici di testi autobiografici e di differenti tipologie di scritture del sé. È su questo versante, come nota Maria Rizzarelli, che Vitti mostra un’estrema consapevolezza nel sovrapporre biografia e attorialità. I titoli a stampa sono Sette sottane (1993) e Il letto è una rosa (1995) ma va inserita in questo contesto anche una rubrica pubblicata sulla rivista «Cahiers d’Art Italia» dal 1994 al 1996 dal titolo L’occhio innocente, recentemente indagata da Giulia Simi. Dopo questa terza e ultima Vitti subentrerà la lunga malattia che la renderà presente-assente per oltre vent’anni. Nella stagione dei bilanci l’attrice si mostra dotata di una consapevole poetica del sé come oggetto e dell’oggetto come parte del proprio corpo che hanno dato un’impronta vivente al cinema di Antonioni. Adesso si può cominciare a rileggere la prima Vitti liberandola dal ruolo ancillare di musa quando fu invece istanza fondante e coautrice del cinema antonioniano.


Monica Vitti con Michelangelo Antonioni, 1961
© Robert Frank 

Questa rilettura si deve a Lucia Cardone che, in un saggio per Lorenzo Cuccu, esegeta del cinema del regista, scrive: «La visione allargata e problematica di Antonioni reca i segni della differenza femminile, giacché discende dall’andirivieni mobile e inquieto delle protagoniste, dal loro modo di stare nel mondo: sono loro a incarnare e propriamente dare corpo al processo di liberazione dello sguardo». In questo percorso, che per la studiosa discende dalla teoria del Soggetto Imprevisto di Carla Lonzi, c’è tutta la nuova recitazione di Vitti, uno stile pensoso e periclitante. I personaggi centrali della rivelazione, da parte di questo personaggio-guida, sono due: la Claudia de L’avventura e la Vittoria de L’eclisse

Claudia si sostituisce ad Anna, alla donna che scompare misteriosamente ne L’avventura: è la donna nuova, il Soggetto Imprevisto – luminoso e spettinato dai venti di Lisca Bianca – che permette di leggere sotto una nuova luce l’ultima inquadratura del film, l’ultimo gesto, obliquo, di Claudia, che non è di perdono nei confronti dell’inetto Sandro, ma ammissione di un non-esserci ancora, o meglio di essere una realtà da decifrare, un enigma in movimento. Dal punto di vista dell’interprete l’ingresso nel percorso artistico e sentimentale di Antonioni segna una rinuncia. Vitti perde il treno in corsa della commedia all’italiana, si è detto, ma al suo posto arriva ne L’eclisse Vittoria, con il suo nome incongruamente trionfante. Lì Vitti offre una declinazione originale della recitazione moderna ed esegue una performance ardita, intessuta di pose instabili che ricordano i lunghi canti melodrammatici delle dive del muto; cammina negli spazi urbani vuoti, disegna un percorso smanioso che coincide con la visione estetica di Monica Vitti connessa a esperienze di sofferta percezione del sé. La perdita di memoria, la perdita dell’integrità, consegnate alla scrittura degli anni Novanta, ne sono la prosecuzione e il compimento. 

La sua definitiva scomparsa può aiutare a ripartire da qui. Rileggere con attenzione l’intera avventura artistica di Vitti significa allontanare nel tempo l’immagine di lei come oggetto di parodia a causa delle parole incomprese di Giuliana, la protagonista de Il deserto rosso. L’attrice ha dichiarato che la celebre frase «mi fanno male i capelli» è un verso di Amelia Rosselli, ma questo verso non esiste e non ha niente dello stile poetico sconnesso di Rosselli. Forse la chiave sta nelle sue prime opere, ventiquattro poesie, che Pasolini pubblicò sul n. 6 della rivista «Il Menabò della Letteratura» (1963) per la prima volta, dove si legge: «La gorgiera mi stinge i capelli, la ingordigia nasconde / il vizio di stralunare gli occhi castani». La schizofrenica Rosselli era orgogliosa di essere stata ammessa, grazie a Pasolini, alle riunioni del Gruppo 63. Adesso anche la figura dell’attrice merita un ripensamento complessivo, è ora di rivisitare da capo il solitario, radicale percorso di Monica Vitti. 

 

Link:

Gabriele Gimmelli, Monica Vitti. Un lungo addio, in «Doppio Zero», 3 febbraio 2022.

Intervista di Enzo Biagi a Monica Vitti, Raiuno, 1971. 

Maria Rizzarelli, Il doppio talento dell’attrice che scrive. Per una mappa delle “divagrafie”, in «Cahiers d’études italiennes», n. 32, 2021.

Giulia Simi, L’occhio che palpita: Monica Vitti e gli scritti sull’arte, in «Cinergie – Il cinema e le altre arti», n. 20, 2021. 

Lucia Cardone, Monica Vitti: un corpo imprevisto, in «Arabeschi», n. 10, luglio-dicembre 2017.

 


 



 
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