Quante
Monica Vitti ha avuto il cinema
italiano? Almeno due, disposte in un ordine temporale ben noto. Lattrice
drammatica che, nella tetralogia dei sentimenti di Michelangelo Antonioni (Lavventura, 1960; La notte, 1961; Leclisse, 1962; Il deserto
rosso, 1964), ha ridisegnato i contorni della performance moderna e
lattrice brillante, unica presenza femminile significativa della commedia
allitaliana al fianco di Alberto Sordi
(Amore mio aiutami, 1969; Polvere di stelle, 1973; Io
so che tu sai che io so, 1982), Carlo
Giuffré (La ragazza con la pistola
di Monicelli, 1968), Marcello Mastroianni (Dramma della
gelosia - Tutti i particolari in cronaca di Ettore Scola, 1970), Ugo
Tognazzi (Lanatra allarancia di Luciano Salce, 1975). Al centro di questa impegnativa giravolta,
che mostra la sua straordinaria versatilità di interprete – fatto unico e
sorprendente nella storia del cinema nazionale –, cè una donna che aveva
sognato fin da piccola di fare il mestiere che eserciterà per tutta la vita: «Quando
mia madre presentava i suoi ragazzi, cominciava sempre dai miei fratelli che
erano grandi, forti e facevano grandi studi. Quando arrivava il mio turno
abbassava la voce, le salivano le lacrime agli occhi e sussurrava che volevo
diventare attrice». Lomaggio de La
Cinémathèque française a Monica Vitti, 2 febbraio 2022
Vitti inizia
a fare teatro a quattordici anni, poi nel 1953 entra allAccademia di Arte Drammatica
Silvio DAmico e manifesta lampiezza delle sue doti interpretative: da una
parte recita Shakespeare e Molière, dallaltra gli allestimenti
delle commedie sul signor Bonaventura diretti da Sergio Tofano che le dà il nome darte e individua con precisione
in lei la stoffa della caratterista. Tale probabilmente sarebbe diventata se
non avesse iniziato, a dispetto della voce “sfiatata” ma dalla dizione
impeccabile, a fare doppiaggio. Nel 1957 Antonioni
la sceglie per la performance solo vocale della benzinaia Virginia interpretata
da Dorian Gray ne Il grido.
Da quellincontro gli handicap fisici che avrebbero reso improbabile il suo
impiego in parti da protagonista nel cinema italiano del periodo – oltre allinusuale
timbro vocale leccessiva altezza e un naso particolare – diventano le
peculiarità imprescindibili delle donne antonioniane nella citata tetralogia.
Grazie a queste interpretazioni Vitti conquista il diritto ad assumere ruoli da
protagonista nel cinema internazionale, prima con Roger Vadim (Il
castello in Svezia, 1963) e poi con Joseph Losey
(Modesty Blaise, 1966) che la sottraggono al contesto italiano mentre la
sua immagine di “musa” antonioniana inizia a mutare di segno e a rivelare, al
di là dellattrice dellincomunicabilità, una verve insospettabile.
Il sodalizio con Antonioni e questo delicato passaggio, dal cinema italiano
a quello europeo, necessario per legittimare il brusco cambio di rotta e permettere
al suo personaggio brillante di conquistare una notorietà più ampia, ne ritarda
di qualche anno lingresso nella commedia allitaliana che la accoglie quando
ormai il filone si sta ripiegando su di sé, trasformandosi nella commedia di
costume più ordinaria, come nota acutamente Gabriele Gimmelli su «Doppio Zero»:
«non più acre e graffiante, ma sempre più corriva e compiacente». Gli anni
Settanta la restituiscono al suo talento comico con parti da protagonista (Ninì
Tirabusciò, la donna che inventò la mossa di Marcello Fondato, 1970), ma in
ritardo sulla stagione doro del cinema popolare italiano. Mai caratterista
dunque, solo donna di carattere che anche la televisione celebrava
intervistandola su questioni molto dibattute allepoca, come la militanza
femminista raccontata a Enzo Biagi.
Si è detto, almeno due Vitti. E la terza? Appare tardi, in prossimità con
la sua prima regia (Scandalo segreto, 1990), ed è stata riscoperta solo
di recente grazie a un progetto di ricerca nazionale intitolato Divagrafie,
una cartografia delle attrici cinematografiche italiane autrici di testi autobiografici
e di differenti tipologie di scritture del sé. È su questo versante, come nota Maria Rizzarelli, che Vitti mostra
unestrema consapevolezza nel sovrapporre biografia e attorialità. I titoli a
stampa sono Sette sottane (1993) e Il letto è una rosa (1995) ma va
inserita in questo contesto anche una rubrica pubblicata sulla rivista «Cahiers
dArt Italia» dal 1994 al 1996 dal titolo Locchio innocente,
recentemente indagata da Giulia Simi.
Dopo questa terza e ultima Vitti subentrerà la lunga malattia che la renderà presente-assente
per oltre ventanni. Nella stagione dei bilanci lattrice si mostra dotata di
una consapevole poetica del sé come oggetto e delloggetto come parte del
proprio corpo che hanno dato unimpronta vivente al cinema di Antonioni. Adesso
si può cominciare a rileggere la prima Vitti liberandola dal ruolo ancillare di
musa quando fu invece istanza fondante e coautrice del cinema antonioniano.
Monica Vitti con Michelangelo Antonioni, 1961 © Robert Frank
Questa rilettura si deve a Lucia
Cardone che, in un saggio per Lorenzo
Cuccu, esegeta del cinema del regista, scrive: «La visione allargata e
problematica di Antonioni reca i segni della differenza femminile, giacché
discende dallandirivieni mobile e inquieto delle protagoniste, dal loro modo
di stare nel mondo: sono loro a incarnare e propriamente dare corpo al
processo di liberazione dello sguardo». In questo percorso, che per la studiosa
discende dalla teoria del Soggetto Imprevisto di Carla Lonzi, cè tutta la nuova recitazione di Vitti, uno stile pensoso
e periclitante. I personaggi centrali della rivelazione, da parte di questo
personaggio-guida, sono due: la Claudia de Lavventura e la Vittoria de Leclisse.
Claudia si sostituisce ad Anna, alla donna che scompare misteriosamente ne Lavventura:
è la donna nuova, il Soggetto Imprevisto – luminoso e spettinato dai venti di
Lisca Bianca – che permette di leggere sotto una nuova luce lultima
inquadratura del film, lultimo gesto, obliquo, di Claudia, che non è di
perdono nei confronti dellinetto Sandro, ma ammissione di un non-esserci
ancora, o meglio di essere una realtà da decifrare, un enigma in movimento. Dal
punto di vista dellinterprete lingresso nel percorso artistico e sentimentale
di Antonioni segna una rinuncia. Vitti perde il treno in corsa della commedia
allitaliana, si è detto, ma al suo posto arriva ne Leclisse Vittoria,
con il suo nome incongruamente trionfante. Lì Vitti offre una declinazione
originale della recitazione moderna ed esegue una performance ardita, intessuta
di pose instabili che ricordano i lunghi canti melodrammatici delle dive del muto;
cammina negli spazi urbani vuoti, disegna un percorso smanioso che coincide con
la visione estetica di Monica Vitti connessa a esperienze di sofferta
percezione del sé. La perdita di memoria, la perdita dellintegrità, consegnate
alla scrittura degli anni Novanta, ne sono la prosecuzione e il compimento.
La sua definitiva scomparsa può aiutare a ripartire da qui. Rileggere
con attenzione lintera avventura artistica di Vitti significa allontanare nel
tempo limmagine di lei come oggetto di parodia a causa delle parole incomprese
di Giuliana, la protagonista de Il deserto rosso. Lattrice ha
dichiarato che la celebre frase «mi fanno male i capelli» è un verso di Amelia
Rosselli, ma questo verso non esiste e non ha niente dello stile poetico
sconnesso di Rosselli. Forse la chiave sta nelle sue prime opere, ventiquattro
poesie, che Pasolini pubblicò sul n.
6 della rivista «Il Menabò della Letteratura» (1963) per la prima volta, dove
si legge: «La gorgiera mi stinge i capelli, la ingordigia nasconde / il
vizio di stralunare gli occhi castani». La schizofrenica Rosselli era orgogliosa di essere
stata ammessa, grazie a Pasolini, alle riunioni del Gruppo 63. Adesso anche la
figura dellattrice merita un ripensamento complessivo, è ora di rivisitare da
capo il solitario, radicale percorso di Monica Vitti.
Link: Gabriele Gimmelli,
Monica Vitti. Un lungo addio, in «Doppio Zero», 3 febbraio 2022. Intervista di Enzo
Biagi a Monica Vitti, Raiuno, 1971. Maria Rizzarelli,
Il doppio talento dellattrice che scrive. Per una mappa delle “divagrafie”, in
«Cahiers détudes italiennes», n. 32, 2021. Giulia Simi,
Locchio che palpita: Monica Vitti e gli scritti sullarte, in «Cinergie – Il
cinema e le altre arti», n. 20, 2021. Lucia Cardone,
Monica Vitti: un corpo imprevisto, in «Arabeschi», n. 10, luglio-dicembre 2017.
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