La
serata allopera del Teatro Carlo Felice propone due atti unici, distanti fra
loro circa due secoli. Pergolesi componeva il suo “intermezzo buffo”, da
inserirsi nel Prigionier superbo, nel 1733. Bernstein affrontava la
forma classica con Trouble in Tahiti, innestandola sul genere del musical
degli USA, nel 1952.
Tale
fu il successo della composizione “minore” di Pergolesi che essa si diffuse come
opera autonoma, in grado di influenzare il gusto europeo. Così quando il teatro
musicale italiano si affermava, sdoppiandosi in opera seria e opera buffa, ne
troviamo un indizio clamoroso nella querelle des bouffons, innescatasi
proprio con la Serva padrona, rappresentata dalla compagnia di Eustacchio
Bambini allAcadémie Royale di Parigi nel 1752.
La
drammaturgia dal comico e ingenuo intrigo, scandita in recitativi e arie nel
libretto di Gennarantonio Federico, sviluppa un racconto di scambi
archetipici di coppia e familiari secondo una precisa convenzione giocosa. Apre
con laria “Aspettare e non venire…” del vecchio Uberto (baritono), spazientito
dal ritardo della cameriera nel servirgli il cioccolato mattutino. Il suo sfogo
in sproloquio urta contro il gesto mimico delle altre due presenze silenziose, Serpina
e il servo Vespone, sempre zitto per ruolo. È un dialogo fra sé, malgrado i partners,
che innova la funzione monologante dellopera “seria”. Poi Serpina (soprano) sferra
laffondo di un duello scherzoso ma ben mirato con laria “Stizzoso mio
stizzoso…”, proseguito nelle digressioni del recitativo, fino a ricondurre a
duetto bene accordato la tenzone. Ancora dalla donna viene la mossa vincente,
quando provoca lindeciso padrone-tutore, millantando un fidanzato pronto a
sposarla. E inoltre, a caro prezzo, per la richiesta di una dote sproporzionata.
Il pretendente è lo stesso famiglio, che lei traveste da guerriero in corazza e
fiammante cimiero.
Un momento dello spettacolo
Verso
la conclusione, un tono più riflessivo addolcisce il contrasto sentimentale e lo
convoglia al lieto fine. I rapporti personali nascono in evidente analogia
con le figure della Commedia dellArte. La maschera indossa infatti Vespone, un
Giorgio Bongiovanni attore di solida formazione che ricalca Brighella. Il
gusto stilizzato in Uberto si ispira a Pantalone, dalle vesti in rosso e nero. In
Serpina si riconosce Arlecchino nella gonna con grembiule a spicchi variopinti.
Il regista sceglie senza presunzione, evocando con chiarezza «un mondo perduto
[…], fatto di cose semplici ed antiche, lincantata risorgenza di un meccanismo
teatrale e musicale così peculiare e fondatore da essere eterno e da potersi
perpetuare senza alcuno snaturamento» (dal Programma di sala). La scenografia modulare sviluppa,
da un teatrino a due ante, i diversi interni casalinghi connotati da dipinti depoca.
Lesito
orchestrale e canoro è felice e convincente, con un organico barocco integrato
da cembalo (Sirio Restani) e tiorba (Simone Vallerotonda). Forse nel
canto brillano più naturali le doti da baritono di Uberto (Luca Micheletti)
che quelle da soprano di Serpina (Elisa Balbo). La giovane cantante
sorprende comunque per la grazia sicura e il controllo costante nella sincronia
con lespressione mimica (anche nei recitativi e negli scambi con il servo muto)
da attrice matura, conscia del margine stretto per un gioco a rischio di istrionismo.
Rispetto ai precedenti interpretativi illustri, forse inarrivabili (consigliabile
lascolto di Renata Scotto con i Virtuosi di Roma diretti da Renato
Fasano), la Balbo esce comunque promossa a pieni voti dalla sfida, già
vinta con laria “Stizzoso, mio stizzoso…”. Micheletti sfoggia una gamma estesa
e senza sfaldature, mantenendo compattezza e fluidità anche nei toni più bassi.
Un momento dello spettacolo
Con
un nesso drammaturgico esplicito, lo spettacolo muta agilmente di ambientazione,
quando gli interpreti cambiano a vista i costumi richiesti dal secondo atto
unico della serata, stabilendo tra i due allestimenti continuità di situazione
e di relazioni, oltre che di elementi visivi. Nella produzione di Leonard Bernstein, Trouble
(1952) viene dopo On the Town (1944) pur non annunciando West Side
Story (1957). Il soggetto è nei momenti della vita di coppia in crisi di
Sam e Dinah. Il libretto, dello stesso musicista, nella traduzione di Elisa
Balbo serba passi neologici tipici dellimprovvisazione jazzistica. I
motivi fonte di infelicità rispecchiano la situazione del matrimonio reale dellautore
e aspetti riguardanti la sua omosessualità irrisolta. I temi del vivere civile,
in quegli anni di controllo sociale e di crescente consumismo, mostrano i segni
di una decadenza che lautore trasfigura in immagini e ritmi, ma che pure denuncia.
Gli effetti sono nel bisogno di amore e di spiritualità autentici, in un
ambiente condizionato da un materialismo grossolano e insidioso nemico di spontaneità
e sincerità. Ogni eventuale gioia comune viene offuscata dallincomprensione e
dalla mancanza di dialogo e volta in malinconia e distacco. Nella coscienza
della disfunzione del rapporto, del suo fallimento, ad accrescere la lontananza.
La partitura si affida specialmente allo stile della canzone popolare (e alla
meno percepibile lezione del gruppo francese dei Six) per esprimere ora lesaltante
illusione di un benessere facile, ora il senso di una nostalgia intima espressa
da note delicate e commosse. È netto dal principio il conflitto fra
lidealizzazione del “sogno americano” e la condizione turbata e insoddisfatta
dei protagonisti.
Rilevante
il commento affidato al coro (Trio jazz) nellenfatizzare il messaggio pubblicitario
e mostrarne a contrasto gli inganni. La Tahiti del film a cui assiste la donna
sola descrive lisola quale giardino incantato, che però diventa illusorio, ingannevole
paradiso perduto. La seduta psicoanalitica a cui Dinah si affida rivela, nel
sogno riferito del “giardino”, necessità e carenze essenziali. Bello lo sdoppiamento
in sovrapposizione del duetto in cui marito e moglie, sotto la pioggia, chiudono
ciascuno in sé il canto destinato al compagno e che invece stabilisce una
distanza incolmabile. La visione dello stesso Trouble in Tahiti viene
proposta da Sam, dopo il tentativo di spiegazione e di intesa fallito in uno
stallo aggravato. Scene anche qui mobili e mutevoli che compongono periferie
anonime e monotone. Costumi ripresi dai film più popolari con effetto
piacevolmente rétro.
Laderenza
allo stile di Bernstein è musicalmente precisa nel dettato dellorchestra diretta
da Alessandro Cadario, con intensità e volumi commisurati alludibilità
delle voci. Il canto ha una vivace coloritura in Sam, dal trapasso progressivo
di registri, capace di bassi morbidi quanto di acuti robusti e ricchi. In Dinah
la limpidezza, malgrado il volume contenuto, con le frequenze più alte dispiega
diverse armoniche, frutto via via di malinconia, di rammarico, di rimpianto e
delusione. È la sua partecipazione al dramma che senza esplodere si espande e
pervade persone e ambienti. Scelta ed esecuzione meritorie nellassieme anche
nellaprire agli spettatori più giovani un godimento alleviato da ricostruzione
filologica pedante. Intelligenza e discernimento dei mezzi guidano Micheletti (completamente
impegnato come cantante) a unorganizzazione scenica funzionale e sensibile,
gradevolissima. Anche per questo, gli applausi si sono prolungati in chiamate
ripetute.
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