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Classiche disarmonie di coppia

di Gianni Poli
  La serva padrona / Trouble in Tahiti
Data di pubblicazione su web 01/02/2022  

La serata all’opera del Teatro Carlo Felice propone due atti unici, distanti fra loro circa due secoli. Pergolesi componeva il suo “intermezzo buffo”, da inserirsi nel Prigionier superbo, nel 1733. Bernstein affrontava la forma classica con Trouble in Tahiti, innestandola sul genere del musical degli USA, nel 1952.

Tale fu il successo della composizione “minore” di Pergolesi che essa si diffuse come opera autonoma, in grado di influenzare il gusto europeo. Così quando il teatro musicale italiano si affermava, sdoppiandosi in opera seria e opera buffa, ne troviamo un indizio clamoroso nella querelle des bouffons, innescatasi proprio con la Serva padrona, rappresentata dalla compagnia di Eustacchio Bambini all’Académie Royale di Parigi nel 1752.

La drammaturgia dal comico e ingenuo intrigo, scandita in recitativi e arie nel libretto di Gennarantonio Federico, sviluppa un racconto di scambi archetipici di coppia e familiari secondo una precisa convenzione giocosa. Apre con l’aria “Aspettare e non venire…” del vecchio Uberto (baritono), spazientito dal ritardo della cameriera nel servirgli il cioccolato mattutino. Il suo sfogo in sproloquio urta contro il gesto mimico delle altre due presenze silenziose, Serpina e il servo Vespone, sempre zitto per ruolo. È un dialogo fra sé, malgrado i partners, che innova la funzione monologante dell’opera “seria”. Poi Serpina (soprano) sferra l’affondo di un duello scherzoso ma ben mirato con l’aria “Stizzoso mio stizzoso…”, proseguito nelle digressioni del recitativo, fino a ricondurre a duetto bene accordato la tenzone. Ancora dalla donna viene la mossa vincente, quando provoca l’indeciso padrone-tutore, millantando un fidanzato pronto a sposarla. E inoltre, a caro prezzo, per la richiesta di una dote sproporzionata. Il pretendente è lo stesso famiglio, che lei traveste da guerriero in corazza e fiammante cimiero.

Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo

Verso la conclusione, un tono più riflessivo addolcisce il contrasto sentimentale e lo convoglia al lieto fine. I rapporti personali nascono in evidente analogia con le figure della Commedia dell’Arte. La maschera indossa infatti Vespone, un Giorgio Bongiovanni attore di solida formazione che ricalca Brighella. Il gusto stilizzato in Uberto si ispira a Pantalone, dalle vesti in rosso e nero. In Serpina si riconosce Arlecchino nella gonna con grembiule a spicchi variopinti. Il regista sceglie senza presunzione, evocando con chiarezza «un mondo perduto […], fatto di cose semplici ed antiche, l’incantata risorgenza di un meccanismo teatrale e musicale così peculiare e fondatore da essere eterno e da potersi perpetuare senza alcuno snaturamento» (dal Programma di sala). La scenografia modulare sviluppa, da un teatrino a due ante, i diversi interni casalinghi connotati da dipinti d’epoca.

L’esito orchestrale e canoro è felice e convincente, con un organico barocco integrato da cembalo (Sirio Restani) e tiorba (Simone Vallerotonda). Forse nel canto brillano più naturali le doti da baritono di Uberto (Luca Micheletti) che quelle da soprano di Serpina (Elisa Balbo). La giovane cantante sorprende comunque per la grazia sicura e il controllo costante nella sincronia con l’espressione mimica (anche nei recitativi e negli scambi con il servo muto) da attrice matura, conscia del margine stretto per un gioco a rischio di istrionismo. Rispetto ai precedenti interpretativi illustri, forse inarrivabili (consigliabile l’ascolto di Renata Scotto con i Virtuosi di Roma diretti da Renato Fasano), la Balbo esce comunque promossa a pieni voti dalla sfida, già vinta con l’aria “Stizzoso, mio stizzoso…”. Micheletti sfoggia una gamma estesa e senza sfaldature, mantenendo compattezza e fluidità anche nei toni più bassi.

Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo

Con un nesso drammaturgico esplicito, lo spettacolo muta agilmente di ambientazione, quando gli interpreti cambiano a vista i costumi richiesti dal secondo atto unico della serata, stabilendo tra i due allestimenti continuità di situazione e di relazioni, oltre che di elementi visivi. Nella produzione di Leonard Bernstein, Trouble (1952) viene dopo On the Town (1944) pur non annunciando West Side Story (1957). Il soggetto è nei momenti della vita di coppia in crisi di Sam e Dinah. Il libretto, dello stesso musicista, nella traduzione di Elisa Balbo serba passi neologici tipici dell’improvvisazione jazzistica. I motivi fonte di infelicità rispecchiano la situazione del matrimonio reale dell’autore e aspetti riguardanti la sua omosessualità irrisolta. I temi del vivere civile, in quegli anni di controllo sociale e di crescente consumismo, mostrano i segni di una decadenza che l’autore trasfigura in immagini e ritmi, ma che pure denuncia. Gli effetti sono nel bisogno di amore e di spiritualità autentici, in un ambiente condizionato da un materialismo grossolano e insidioso nemico di spontaneità e sincerità. Ogni eventuale gioia comune viene offuscata dall’incomprensione e dalla mancanza di dialogo e volta in malinconia e distacco. Nella coscienza della disfunzione del rapporto, del suo fallimento, ad accrescere la lontananza. La partitura si affida specialmente allo stile della canzone popolare (e alla meno percepibile lezione del gruppo francese dei Six) per esprimere ora l’esaltante illusione di un benessere facile, ora il senso di una nostalgia intima espressa da note delicate e commosse. È netto dal principio il conflitto fra l’idealizzazione del “sogno americano” e la condizione turbata e insoddisfatta dei protagonisti.

Rilevante il commento affidato al coro (Trio jazz) nell’enfatizzare il messaggio pubblicitario e mostrarne a contrasto gli inganni. La Tahiti del film a cui assiste la donna sola descrive l’isola quale giardino incantato, che però diventa illusorio, ingannevole paradiso perduto. La seduta psicoanalitica a cui Dinah si affida rivela, nel sogno riferito del “giardino”, necessità e carenze essenziali. Bello lo sdoppiamento in sovrapposizione del duetto in cui marito e moglie, sotto la pioggia, chiudono ciascuno in sé il canto destinato al compagno e che invece stabilisce una distanza incolmabile. La visione dello stesso Trouble in Tahiti viene proposta da Sam, dopo il tentativo di spiegazione e di intesa fallito in uno stallo aggravato. Scene anche qui mobili e mutevoli che compongono periferie anonime e monotone. Costumi ripresi dai film più popolari con effetto piacevolmente rétro.

L’aderenza allo stile di Bernstein è musicalmente precisa nel dettato dell’orchestra diretta da Alessandro Cadario, con intensità e volumi commisurati all’udibilità delle voci. Il canto ha una vivace coloritura in Sam, dal trapasso progressivo di registri, capace di bassi morbidi quanto di acuti robusti e ricchi. In Dinah la limpidezza, malgrado il volume contenuto, con le frequenze più alte dispiega diverse armoniche, frutto via via di malinconia, di rammarico, di rimpianto e delusione. È la sua partecipazione al dramma che senza esplodere si espande e pervade persone e ambienti. Scelta ed esecuzione meritorie nell’assieme anche nell’aprire agli spettatori più giovani un godimento alleviato da ricostruzione filologica pedante. Intelligenza e discernimento dei mezzi guidano Micheletti (completamente impegnato come cantante) a un’organizzazione scenica funzionale e sensibile, gradevolissima. Anche per questo, gli applausi si sono prolungati in chiamate ripetute.     



La serva padrona / Trouble in Tahiti

La serva padrona
cast cast & credits
 
trama trama
Trouble in Tahiti
cast cast & credits
 
trama trama



Spettacolo visto il 28
 gennaio 2022 al
Teatro Carlo Felice di Genova


 
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