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L’età dei diritti

di Giuseppe Gario
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Data di pubblicazione su web 09/12/2021  


«Parlando dell’annacquamento dell’ultimo minuto della risoluzione sul carbone (“riduzione” e non più “eliminazione”), Johnson pare tentennare, ma poi rivendica: “Possiamo fare pressioni, possiamo blandire, possiamo incoraggiare ma non possiamo costringere le nazioni sovrane a fare ciò che non desiderano”». Nazioni sovrane? «Sono le parole di Alok Sharma [presidente della Cop26, ndr] ad aprire una finestra su chi sono i cattivi e chi i buoni della storia, quando spiega con gli occhi vicini alle lacrime dopo l’exploit dell’India: “Ho sentito il peso del mondo sulle mie spalle”, dice, e “il motivo per cui ho chiesto scusa non è stato perché pensavo che non avessimo avuto un risultato storico, è perché il mondo pensava che la procedura fosse stata opaca”. Ecco, la procedura opaca a cui si riferiva Sharma sono stati i negoziati “laterali” portati avanti nell’ombra dalle grandi economie mondiali (i grandi inquinatori) a scapito dei Paesi poveri – e del clima – che alla fine hanno spedito l’India fare la parte del “poliziotto cattivo”» (M. Perosino, Clima, il “cattivo” è l’India ma dietro il flop dell’accordo c’è la regia dei Paesi ricchi, in «La Stampa», 15 novembre 2021, pp. 14-15).

 

«Nessun economista, contrariamente a quanto spesso si dice, pensa che l’obiettivo della politica economica sia massimizzare il Prodotto Interno Lordo: l’obiettivo è massimizzare il benessere». «Le due differenze essenziali concernono le ineguaglianze e le esternalità». «La mente va anzitutto alle esternalità climatiche». «Passare da un obiettivo di PIL a uno di benessere implica perciò eliminare il più possibile» e «“internalizzare” queste esternalità» aumentando il prezzo del carbone, migliorando la remunerazione dei lavori disagevoli e tassando le importazioni dai paesi con insufficienti politiche climatiche e debole protezione sociale («la spesa pubblica per sanità e pensioni rappresenta il 16% del PIL nei paesi OCSE e il 7% in Cina») (P. Artus, Comment passer du PIB au bien-être, in «Le Monde», 7-8 novembre 2021, on line). Dal PIL al benessere, l’età dei diritti.

 

 

L’età dei diritti (Torino, Einaudi, 1990) in quarant’anni di scritti di Norberto Bobbio. «Diritti dell’uomo, democrazia e pace sono tre momenti necessari dello stesso movimento storico: senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti. Con altre parole, la democrazia è la società dei cittadini, e i sudditi diventano cittadini quando vengono loro riconosciuti alcuni diritti fondamentali; ci sarà pace stabile, una pace che non ha la guerra come alternativa, solo quando vi saranno cittadini non soltanto di questo o quello stato, ma del mondo» (ivi, pp. VII-VIII). «Non c’è diritto senza obbligo, e non c’è né diritto né obbligo senza una norma di condotta» (ivi, p. XVIII). «Che si cominci dagli obblighi degli uni o dai diritti degli altri è, rispetto alla sostanza del problema, assolutamente indifferente. I posteri hanno dei diritti verso di noi perché noi abbiamo degli obblighi verso di loro, o viceversa? Basta porre la domanda in questi termini per rendersi conto che la logica del linguaggio mostra l’assoluta inconsistenza del problema» (ivi, pp. XIX-XX).

 

Ma «altro è proclamare questo diritto, altro è goderne effettivamente. Il linguaggio dei diritti ha indubbiamente una grande funzione pratica, che è quella di dare particolare forza alle rivendicazioni di quei movimenti che richiedono per sé e per gli altri soddisfazione di nuovi bisogni materiali e morali, ma diventa ingannevole se oscura o occulta la differenza tra il diritto rivendicato e quello riconosciuto e protetto. Non si spiegherebbe la contraddizione tra la letteratura inneggiante all’età dei diritti, e quella denunciante la massa dei “senza diritti”. Ma i diritti di cui parla la prima sono quelli soltanto preannunciati nelle assise internazionali e nei congressi, i diritti di cui parla la seconda sono quelli che la stragrande maggioranza dell’umanità non possiede di fatto (anche se solennemente e ripetutamente proclamati)» (ivi, pp. XX-XXI). «Il più forte argomento addotto dai reazionari di tutti i paesi contro i diritti dell’uomo, in specie contro i diritti sociali, non è già la loro mancanza di fondamento, ma la loro inattuabilità. Quando si tratta di enunciarli, l’accordo è ottenuto con relativa facilità, indipendentemente dalla maggiore o minore convinzione del loro fondamento assoluto: quando si tratta di passare all’azione, fosse pure il fondamento indiscutibile, cominciano le riserve e le opposizioni. Il problema di fondo relativo ai diritti dell’uomo è oggi non tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli. È un problema non filosofico ma politico» (ivi, pp. 15-16).

 

«La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo rappresenta la manifestazione dell’unica prova con cui un sistema di valori può essere considerato umanamente fondato e quindi riconosciuto: e questa prova è il consenso generale circa la sua validità. I giusnaturalisti avrebbero parlato di “consensus omnium gentium” o “humani generis”» (ivi, pp. 18-19). «Solo dopo la Dichiarazione possiamo avere la certezza storica che l’umanità, tutta l’umanità, condivide alcuni valori comuni e possiamo finalmente credere all’universalità dei valori nel solo senso in cui tale credenza è storicamente legittima, cioè nel senso che universale significa non dato oggettivamente ma soggettivamente accolto dall’universo degli uomini. Questo universalismo è stato una lenta conquista. Nella storia della formazione delle dichiarazioni dei diritti si possono distinguere almeno tre fasi. Le dichiarazioni nascono come teorie filosofiche». «Nel momento in cui queste teorie sono accolte per la prima volta da un legislatore, e ciò accadde con le Dichiarazioni dei diritti degli Stati americani e della Rivoluzione inglese (un secolo più tardi), e poste alla base di una nuova concezione dello stato, che non è più assoluto ma limitato, non è più fine a se stesso ma mezzo per il raggiungimento di fini che sono posti prima e al di fuori della sua stessa esistenza, l’affermazione dei diritti dell’uomo non è più l’espressione di una nobile esigenza, ma il punto di partenza per l’istituzione di un vero e proprio sistema di diritti nel senso stretto della parola, cioè come diritti positivi o effettivi». «I diritti sono d’ora innanzi protetti, cioè sono veri e propri diritti positivi, ma valgono solo nell’ambito dello stato che li riconosce. Per quanto venga mantenuta nelle formule solenni la distinzione tra diritti dell’uomo e diritti del cittadino, non sono più diritti dell’uomo ma del cittadino, o per lo meno sono diritti dell’uomo solo in quanto sono diritti del cittadino di questo o di quello stato particolare. Con la Dichiarazione del 1948 ha inizio una terza e ultima fase in cui l’affermazione dei diritti è insieme universale e positiva: universale nel senso che i destinatari dei principî ivi contenuti non sono più soltanto i cittadini di questo o quello stato ma di tutti gli uomini; positivo nel senso che essa pone in moto un processo alla fine del quale i diritti dell’uomo dovrebbero essere non più soltanto proclamati o soltanto idealmente riconosciuti, ma effettivamente protetti anche contro lo stesso stato che li ha violati. Alla fine di questo processo i diritti del cittadino si saranno trasformati realmente, positivamente, nei diritti dell’uomo. O almeno saranno i diritti del cittadino di quella città che non conosce confini, perché comprende tutta l’umanità, o in altre parole saranno diritti dell’uomo in quanto diritti del cittadino del mondo» (ivi, pp. 23-24).

 

Entrambi globali, pandemia e riscaldamento confermano che «l’economia europea, come ogni altra economia, non è localizzabile e le politiche che lo dimenticano sono nocive» (F. Perroux, L’economia del XX secolo, Milano, Etas Kompass, 1967, p. 143). Del resto, economia è «“amministrazione della casa”» «dal lat. oeconomĭa, gr. οἰκονομία comp. di οἶκος “dimora” e -ομία “-nomia”» (Treccani). Il “mondo-casa”, «tutto verde, poi a distanza di pochi anni era completamente diverso. Una distruzione della foresta dovuta alla creazione di nuovi spazi per ottenere nuovi appezzamenti di terreno per la coltivazione e l’allevamento», dice «Luca Parmitano, dell’Esa, protagonista di due missioni a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (Iss) di cui l’ultima a cavallo tra il 2019 e il 2020» (Il pianeta visto dallo spazio? Uno choc, una volta era tutto verde, in «Avvenire», 2 novembre 2021, p. 3). «Trasformare il progresso tecnico in sviluppo non va da sé. Nell’economia classica, in regime di concorrenza minori costi significano minori prezzi e crescita produttiva, salvo peripezie a breve termine. Ma, come dimostra Mary O’Sullivan, non basta che un’innovazione riduca i costi per essere gestita al meglio socialmente, perché chiave di volta del suo uso resta la profittabilità privata. Che dipende dalla capacità di un imprenditore di costruire e controllare il mercato e i prezzi, in ogni modo» (P.C. Hautcoeur, La rente contre l’innovation, in «Le Monde», 18 novembre 2021, on line).

«All’avvicinarsi dell’apertura della COP26 il 31 ottobre a Glasgow sono stati numerosi i passi, come il rapporto Dasgupta (Economics of Biodiversity, 2 febbraio) per contabilizzare ambiente, clima, biodiversità – la “natura” – e fare capire agli attori economici – imprese, consumatori, poteri pubblici – il valore finanziario delle loro distruzioni. Non potremo evitare il collasso senza valutarne il costo, senza “contabilità verde”: affermazione che pare la parola d’ordine dell’attuale economia e delle sue politiche. Fabian Muniesa, direttore di ricerca al Centre de sociologie de l’innovation (Ecole des Mines ParisTech) vi vede un paradosso inquietante: “Per difendere la natura dal capitalismo, bisognerà dunque trasformarla in capitale!”». «Il capitale non è solo un oggetto di calcolo per gli economisti, che si preoccupano della sua entità, inflazione o insufficienza o ancora formazione e allocazione. È anche, dice Fabian Muniesa, una operazione semiotica e culturale di trasformazione delle cose, una tecnologia politica – per dirla con Michel Foucault – capace di consolidare la presa delle sue rappresentazioni sulla società. Sta alla finanza “adottare le disposizioni più importanti per la società” affermava Larry Summers nel 2001, nel bicentenario della Borsa di Londra. Economista, segretario al Tesoro americano, è stato il principale consigliere economico della amministrazione nella crisi del 2008. Capacità “performativa” – vale a dire trasformare un discorso in oggetto sociale reale – che si traduce ad esempio nel trasformare le “spese pubbliche” in “investimenti pubblici”, assimilando così ogni contribuente a un investitore che si aspetta dallo Stato una rendita futura – in forma di servizi pubblici di qualità o di politiche di salvaguardia dell’ambiente. Inconsapevolmente, se adotta questo tipo di concettualizzazione, di fatto la società cede le chiavi politiche del suo avvenire a chi ne domina meglio la retorica: ai professionisti della finanza» (A. Reverchon, Le pouvoir de la métaphore financière, in «Le Monde», 29 ottobre 2021, on line). Quale avvenire?

Sulla scia del lungo XX secolo, il metaverso, «vita elettronica autonoma» (Treccani), «non arriverà da un giorno all’altro, non più di World Wide Web o Internet mobile. Ma va preso sul serio» (The future of the internet. Don’t mock the metaverse, in «The Economist», “Today”, 17 novembre 2021, on line). Già «“due generazioni di bimbi sono cresciute nel gioco online”, dice Bronstein, responsabile di produzione di Roblox. “Navigare in 3D. Uscire con gli amici in un mondo virtuale. Banalità, per loro”» (The future of the internet. The video-game industry has metaverse ambitions, too, in «The Economist», 20-26 novembre 2021, on line). La «raccomandazione ai responsabili politici è il realismo. Poiché la tecnologia non può essere dis-inventata, l’invito all’America è di sviluppare e modellare le applicazioni militari dell’IA, invece di cedere il campo a paesi che non ne condividono i valori» (Henry Kissinger and Eric Schmidt take on AI, in «The Economist», 20-26 novembre 2021, on line). È l’incitamento alla guerra tribale globale per tutti i talebani del mondo che, come quelli afghani, non sono «per nulla bifolchi medievali ribelli», bensì «militanti di estrema destra reazionari e settari al potere con la forza e il controllo» (J. Follorou, Afghanistan, malheureuse terre de convoitise, in «Le Monde», 30 novembre 2021, on line, recensione a M. Barry, Le Cri afghan, Paris, L’Asiathèque, 2021).

 

«Tra i primi a capire l’apparente paradosso che le scoperte più utili nascono dal lavoro motivato da curiosità senza fini utilitaristici fu Abraham Flexner, fondatore dell’Institute for Advanced Studies di Princeton nel 1939. Espose la sua filosofia di ricerca in un saggio dal titolo esplicito: “Sull’utilità dei saperi inutili” (1939). L’eclatante successo indusse a crearne altri in USA e Europa». «Nota Alain Supiot: “È proprio della conversazione essere contagiosa quando punta non a atterrare l’altro, ma a pensare diversamente per riuscire a pensare insieme» (M. Nasi, Le travail et l’économie demain, in «Le Monde», 28 novembre 2021, on line), perché «il rapporto tra vero, falso e finto è la trama del nostro stare al mondo: dunque è qualcosa che riguarda tutti, non solo gli studiosi» (C. Ginzburg in dialogo con P. di Stefano, Carlo Ginzburg. Fa bene alla storia affidarsi al caso, in «La lettura», 21 novembre 2021, p. 20). I diritti di tutti in tutto il mondo sono letteralmente la nostra vita, personale e globale.







 
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