Un intento celebrativo si è felicemente
tradotto in autentica scoperta artistica, con la rappresentazione dellopera di
Vincenzo Bellini che fu creata proprio al Carlo Felice di Genova per la
sua inaugurazione nel 1828. Oggi si assiste a unesecuzione restaurata, nella
musica e nel libretto, di una Bianca e Fernando nata a Napoli nel 1826 e
poi perfezionata nella versione genovese. Il “melodramma serio in due atti”,
tra lepico e leroico, esclude vicende di passione contrastata, ma non damore
familiare e filiale, che sfoggia sfumature anche tenere e profonde, sebbene in
versi (e rime) che possono sentirsi oggi desueti.
La fonte letteraria, il dramma di Carlo
Roti, passa per due versioni di libretto, quella di Domenico Gilardoni
(1826) e quella rivista e abbellita di Felice Romani. Il poeta genovese avrebbe
colto fama collaborando con il musicista catanese, oltre che con Donizetti,
Mercadante e Rossini. Essendo la seconda giovanile prova di
Bellini, la composizione non è considerata un capolavoro, bensì un «momento
insopprimibile nella ricostruzione del linguaggio belliniano» (così nel
programma di sala), un segno prezioso per individuarne levoluzione delle strutture
melodiche del musicista. Lurgenza dellimpegno per Genova induce Bellini a
riprendere e sfruttare lopera appena data al San Carlo di Napoli (1826). «Scrisse
nuovi recitativi, rimaneggiò la parte orchestrale con aggiunte atte ad aiutare
ed evidenziare le qualità dei cantanti», nota il direttore Donato Renzetti.
Così anche il testo (la “poesia”) fu affidato al ritocco sostanzioso del
Romani, librettista del successivo Il Pirata. Un momento dello spettacolo © Teatro Carlo Felice
Dopo louverture sinfonica (lunga,
reintegrata dellallegro), il sipario si apre su una scena geometricamente
disegnata, intensamente luminosa e caratterizzata da luoghi complementari daccentuata
stilizzazione costruttivista. Lantefatto, nel preludio inventato e inserito in
parallelo alla suite, mostra un bambino in braccio a un genitore,
accanto a una lavagna scolastica: indizi di esistenza del figlio della vedova
Bianca. Fra le figure simboliche, eminente è la sfera, forse di un mappamondo, guscio
gigantesco centrale, riprodotto in scala minore e in sfere rotolanti e manipolabili.
Una grande grata quadrettata si disfa e ricompone per definire profondità e
larghezza degli spazi. Il bianco e il nero, toni fondamentali a contrappunto,
trovano analogia nei costumi, che trascorrono dal cupo al chiaro e, per Bianca,
bianco, candido e argentato. Siamo in un tempo vagamente lontano, ad Agrigento,
dove al Duca Carlo, imprigionato e usurpato, è succeduto Filippo, ora in attesa
del matrimonio con la figlia per legittimarsi nel potere. Giunge però Fernando
dallesilio a riparare il torto, salvare il padre e allarmare la sorella sul
ruolo perverso del suo riamato pretendente.
Lo spettacolo, inquadrato in un clima
freddo e in spazi di rigorosa razionalità geometrica nelle intersezioni
ortogonali, trova subito una cifra figurativa precisa, se pure inattesa,
rispetto a unazione dalla storicità immaginaria e distanziata nella
convenzione lirica. Forse allo scopo di promuovere il rinnovamento del modello,
comunque invecchiato, cercando unazione drammaticamente più moderna e
pregnante, la regia sceglie quellanti-naturalismo severo e astrattamente disegnato.
Troppi gli indizi simbolici, negli accessori, quali le corde e i bastoni; oggetti
e icone: i globi, i ritratti nel tondo, la freccia librata da un falcone (II, 9).
Freccia che attraversa il palco, imponendo unimmagine enfatizzata e che riappare
nei dardi vistosamente infitti nella vittima. Il prigioniero così atrocemente torturato
provoca la figlia con un retorico «Eccoti il sen… Trafiggimi», copiando
(inconsapevole?) il grido tragico della Fedra
raciniana. Un momento dello spettacolo © Teatro Carlo Felice
Perplessità anche per le evoluzioni
insistenti dei figuranti-mimi che inseguono le relazioni dei protagonisti, con
ridondanza di segni e figure, quasi a voler significare una partecipazione collettiva
ben già rappresentata dal protagonismo del coro, collocato su un praticabile
retrostante e vestito da personale ospedaliero. O forse, ancora, per recuperare
la suggestione dei balletti da grand opéra, previsti dal programma ad
arricchire la serata inaugurale (v. Libretto, Genova, Pagano, 1828). Più
felicemente, il flusso dellorchestra coinvolge coro e solisti in unavventura
polivalente: non facile, dapprima, da godere e giudicare, poi man mano in grado
di acuire la sensibilità dello spettatore. La direzione di Renzetti entra sapiente
nel dettaglio dei colori strumentali, a bilanciare i rapporti dinamici e
timbrici delle sezioni, evitando sovrappeso sonoro a scapito dello spicco delle
voci.
Distinti e ben stagliati gli episodi di equivoco
drammatico, della finzione e delloccultamento della verità ai fini della
liberazione dal tiranno. Di alternanza emotiva tesa e incerta, le fasi del
riconoscimento dei fratelli; il ritrovamento negli affetti e lo scontro e
lincomprensione, frutto del sentimento di Bianca per Filippo; lo svelamento
progressivo della sua natura e la lotta per smascherarne il delitto. Allora
duetti e trii si susseguono con scansioni e intrecci nitidi e tempestivi, grazie
anche alla direzione attenta alla partitura ricostituita e quindi quasi inedita
e sconosciuta. Un momento dello spettacolo © Teatro Carlo Felice
Dagli interpreti, buona impressione
generale, da distinguere in personali prestazioni attoriali adeguate e rese vocali
lodevoli. Salome Jicia (soprano) subito autorevole in Bianca
allapparire (I, 6) di fronte alla corte e al popolo per motivare la condotta di
vita, sentimentale e di governo. Da un ruolo non allaltezza delle eroine dei capolavori,
lartista trae una nobiltà unita spesso a fragilità nei contrasti più aspri, affrontati
con sicurezza, con lespressività luminosa, franca ed educata, di una
personalità riconoscibile, come in Ma qual mi sorge idea (II, 5). Giorgio
Misseri (tenore) entra quale Fernando di ritorno in patria, a esprimere convinto
il suo slancio di nobile rivalsa. Consono al carattere “valoroso” dettato dalla
musica, aggressivo e contraddittorio nel duetto ben riuscito con Bianca, Tinoltra…
(II, 5), incontra difficoltà nel registro sovracuto, risolte nel falsetto con
qualche indecisa incrinatura. Modulazione emotiva flessibile e vigorosa,
invece, nel rapporto con gli antagonisti. Filippo ha in Nicola Ulivieri
il basso equilibrato per una figura che, un po rozza e limitata nel libretto, si
apre alle varie misure richieste dallambiguità delle situazioni, dalle reazioni
alla presenza, temuta e sfuggente, del rivale, allinizio dato per “estinto”.
Ottimo, nella romanza Da gelido sudore (II, 9), il basso Alessio
Cacciamani (Carlo), padre straziato e infine consolato. Tutti nella parte,
il contralto di Elena Belfiore in Viscardo, il mezzosoprano Carlotta
Vichi in Eloisa, Antonio Mannarino (tenore) in Uggero e Giovanni
Battista Parodi (basso) in Clemente, così da meritare applausi ripetuti a
scena aperta.
Mentre è in corso ledizione critica (a cura di Graziella Seminara) dellopera appena
rappresentata, conforta losservare come un folto pubblico abbia partecipato allincontro
di studio sulla genesi di questo titolo raro e ignorato e quanto sia crescente
lesigenza di informazione specialistica sugli eventi nellambito dello spettacolo
darte.
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