Lo squillo insistente di un telefono, posto
al centro del palcoscenico vuoto, definisce prima che abbia inizio lo
spettacolo un legame indissolubile tra il tempo, lo spazio e il suono; a tali
entità assolute si aggiunge ben presto il flusso delle parole, i frammenti delle
battute di un monologo che nella seconda parte si traducono nella ripetizione dissonante dello stesso testo. Tutto
ciò costituisce la struttura base di I was sitting on my
patio this guy appeared I thought I was hallucinating, pièce ideata e interpretata già
nel 1977 da Robert Wilson e Lucinda Childs, ora ripensata in una
forma decisamente aggiornata, prodotta dal Théâtre de la Ville di Parigi e
ospitata in prima nazionale dal Teatro Carlo Goldoni di Venezia per conto dello
Stabile del Veneto. A riproporre la nuova versione dellopera sono due
protagonisti speciali, Christopher Nell, attore del Berliner Ensemble, e
Julie Shanahan, attrice del Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch,
che hanno elaborato le loro esecuzioni in stretto contatto con gli autori.
Un momento dello spettacolo © Lucie Jansch Eppure,
al di là del tracciato ideale, la rappresentazione è contrassegnata dalla
geniale e magica creatività di Wilson, che emerge anzitutto nella
limpidezza della dimensione scenografica, laddove recupera la trasversalità
della “linea” quale simbolo di un infinito procedimento spaziale; oppure nel
disegno delle luci, perfettamente definite come unestensione delle superfici.
Non solo, la partitura testuale risente delle passioni letterarie del regista: così,
la dirompente vitalità del nonsense alla Gertrude Stein oltrepassa le dissolvenze
verbali e produce progressivamente lincremento dei significati. Non mancano neppure
richiami a precedenti realizzazioni, a partire da Lultimo
nastro di Krapp di Samuel Beckett
(Festival di Spoleto, 2009).
In questo lavoro si avverte come la propensione di Wilson verso un
minimalismo formale sia connaturata alla volontà di valorizzare le complessità
espressive: ciò è evidente, ad esempio, nella creazione di unonda sonora in
grado di accomunare sprazzi di rumore alle musiche di Bach, Schubert,
Lully e Galasso, attimi di silenzio a una recitazione elastica
che accoglie anche le urla e le impennate vocali. Un momento dello spettacolo © Lucie Jansch Insomma,
ogni elemento concorre a rendere tangibile allo spettatore lidea di un tempo
sospeso che assorbe il flusso delle frasi in libertà, la volubilità del
pensiero, lartificio dei gesti, la trasparenza dei corpi, persino
linconsistenza delle ombre. Quando, poi, la performance si spezza in due fisicità distinte, il medesimo
soliloquio, intermezzato a tratti da unasettica voce telefonica, si trasforma
nel paradosso dellattesa, nellillusione umana di comprendere il senso della
propria sopravvivenza. Mentre
la sintesi grottesca che distingue la recitazione di Christopher Nell
persegue il desiderio di chiudere la porta sullemersione del passato, la
statuaria flessuosità di Julie Shanahan, unita al gioco sulla
trasparenza del costume, rimanda allinerzia di chi è rimasto a lungo immobile,
seduto sopra una sedia. Poco importa se il sotto-testo alluda al ricordo di una
non-storia damore, oppure rinvii alla solitudine di un narcisista, perché
entrambe le figure in scena rivelano una visione del mondo che assomiglia a
unallucinazione scaturita nel vuoto di un patio.
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