drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti
cerca in vai

Diafana, immateriale, catartica

di Paolo Patrizi
  .
Data di pubblicazione su web 27/10/2021  

Nel 1845 Verdi diede vita alla sua ottava e alla sua nona fatica operistica: la prima, Giovanna d’Arco, volle considerarla l’«opera migliore» da lui composta fino a quel momento; della seconda, Alzira, retrospettivamente dirà che era «proprio brutta». Si sa come nel secolo successivo andarono poi le cose: la musicologia accomunerà Giovanna e Alzira (prime due protagoniste femminili dell’universo verdiano, per inciso) come le creazioni forse più deboli nell’intero arco creativo del suo autore, vuoi per una certa difficoltà del giovane Verdi a scolpire i caratteri muliebri con l’icasticità che già conferiva ai bassi e ai baritoni, vuoi – nel caso di Giovanna d’Arco – per il libretto di Temistocle Solera, talvolta grottesco nella versificazione e non privo di scantonamenti nell’umorismo involontario.

Oggi, in anni post-ideologici anche sotto il punto di vista musicale, le pregiudiziali verso il Verdi “brado” e “bandistico” dei cosiddetti anni di galera sono cadute e i tempi, semmai, appaiono maturi per formulare altre riserve: ad esempio che nell’Alzira uno dei massimi pregi verdiani – la sintesi – è talmente accentuata da trasformarsi in laconicità espressiva; o che, per quanto riguarda la Giovanna, il muoversi su binari paralleli (barbarico versus catartico, affresco guerresco versus idillio pastorale, mondo dei potenti versus mondo degli umili, ferocia dell’odio versus bisogno d’amore) approda a un lavoro irrisolto nelle sue contraddizioni, anziché coagulato in una superiore plasticità di resa. Come sempre accade quando si parla di musica e teatro, tutto questo resta comunque confinato nel limbo della speculazione accademica. Ma può giungere, prima o poi, un interprete illuminante, capace di restituirci le ragioni dell’autore. È quanto è accaduto nella Giovanna d’Arco al Teatro dell’Opera di Roma, grazie alla concertazione di Daniele Gatti.

Un momento dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni

Tra la tempestosità della «tragedia romantica» (così Schiller definì la sua Die Jungfrau von Orleans da cui Solera ricaverà il libretto) e la dimensione contemplativa del «dramma lirico» (questa la definizione di Verdi in partitura), Gatti si schiera inequivocabilmente con quest’ultima. Per lui ciò che collega e ricompone le tante sollecitazioni dell’opera è la dimensione trasognata che avvolge, oltre alla protagonista, tutto il mondo che la circonda, a cominciare dagli altri personaggi principali (Carlo con i suoi caratteri – modernissimi per il 1845 – di tenore antieroico e perdente, Giacomo visto non come padre-padrone tutto d’un pezzo, ma lacerato crogiolo di umane contraddizioni al pari di tanti altri baritoni verdiani a venire). Dunque, nella sua lettura musicale, già il rullo dei timpani che apre la sinfonia ci porta, contro ogni tradizionale aspettativa, in un mondo fonico trasparente, quasi immateriale; e il successivo prolungato “fortissimo”, che anticipa le tante battaglie in scena e fuori scena, mantiene a sua volta un retrogusto d’incantamento lirico (mentre, per ideale contrappasso, certi “pianissimi” risuoneranno poi inaspettatamente drammatici). Violenza e dolcezza, insomma, appaiono due facce per la stessa medaglia, così come per Giovanna lo sono santità e tentazione: dall’inizio alla fine aleggiano su lei angeli e demoni, ma qui il ghignare dei secondi si stempera, senza soluzione di continuità, nella rarefazione celestiale dei primi.

Proprio attraverso una simile cifra sonora Gatti addiviene a una sintesi di questa drammaturgia bifasica. Il tutto, peraltro, senza trascurare quell’analiticità che da sempre è la cifra distintiva del direttore milanese. Se poche sono state le illustri bacchette accostatisi alla Giovanna d’Arco nella sua interezza, più d’un grande del podio ha voluto cimentarsi con la sinfonia: eppure mai come in quest’occasione sono sembrati evidenti gli echi beethoveniani della Pastorale che Verdi, sottotraccia, ha voluto spargere in tale pagina. Così come corre l’obbligo di dire che perfino nella splendida lettura di Riccardo Chailly (Scala 2015) passò inosservata l’assoluta similarità – da Gatti resa invece ben percepibile – dell’inno dei diavoli con l’infausto Allarmi, siam fascisti!, che l’oscuro compositore assoldato da Mussolini plagiò senza troppi scrupoli, confidando nell’oblio in cui la Giovanna era caduta. Ed è una capacità analitica, questa, che non significa mero gusto della minuzia, ma sottende un altissimo livello tecnico: basta ascoltare come è stato governato al millimetro il terzetto “a cappella” tra soprano, tenore e baritono.

Un momento dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni

Il rapporto tra podio e palcoscenico, invece, non appare altrettanto scandagliato: Gatti resta più interessato al tessuto sinfonico che all’ordito belcantistico, al paesaggismo orchestrale piuttosto che pittura canora. Se il cantante appare in grado di costruire da solo il personaggio (com’è per Roberto Frontali) gli esiti rimangono notevoli, mentre se sembra circoscriversi in una mera estroversione fonica (ed è il caso di Francesco Meli) tutto funziona meno bene. Il primo, per ovvie ragioni anagrafiche, ha da un lato raggiunto la sua piena maturità di artista e, dall’altro, lasciato alle spalle la forma vocale migliore: ma quando un baritono ultrasessantenne, al di là del timbro inaridito, continua a imporsi per omogeneità e risonanza c’è poco da recriminare. Per il resto, è proprio questa sopravvenuta secchezza che consente a Frontali una pregnanza della parola scenica irraggiungibile, forse, da una voce più morbida e incline al “legato”; e che il personaggio di Giacomo – al contrario degli altri due protagonisti – entri in scena non con una cavatina, ma un lungo articolatissimo recitativo, avvantaggia quest’incarnazione incline ad anatomizzare il fraseggio anziché abbandonarsi al flusso del canto.

L’assai maggior freschezza, d’altronde, non impedisce di far trapelare nella voce di Meli un’incipiente usura. Le qualità naturali sono così pregevoli da occultare un’emissione mai del tutto sotto controllo e quindi, col passare degli anni, un po’ slabbratasi: ma le mezzevoci risolte in mero accenno, e la conseguente incapacità di risolvere in puro canto i “piani” e “pianissimi”, oggi vieppiù denunciano una certa inavvertenza tecnica (la malia sognante della frase È puro l’aere, limpido è il cielo ne esce disinnescata). Come sempre cerca di ovviarvi con gradevole epidermicità e baldanza tutta tenorile: vanificando proprio quella “antitenorilità” di cui si diceva, e che resta il tratto più distintivo del ruolo di re Carlo. Quanto alla protagonista Nino Machaidze, propensa in primo luogo all’affondo temperamentale e al canto di sbalzo, sembra seguire una chiave di lettura poco in sintonia con quella del direttore. Resta fermo però che Verdi, a fronte di certi incantamenti che potremmo definire belliniani, richiede a Giovanna pure tali desiderata. Così come rimane indubitabile che la cantante georgiana può contare, al contrario del suo partner tenorile, su una saldezza di emissione che le consente un perfetto appiombo musicale pure nelle agilità di forza e negli attacchi più aggrediti.

Un momento dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni

Detto che nel piccolo ruolo di Talbot un basso come Dmitry Beloselskiy è giganteggiante e addirittura sovradimensionato, resta da parlare della messinscena di Davide Livermore. In realtà da disquisire c’è ben poco, se non per ventilare che un’esecuzione in forma di concerto forse sarebbe stata preferibile. La creazione di un “doppio” della protagonista (affidato alla brava danzatrice Susanna Salvi) è nulla più che una didascalica, pedestre rappresentazione dell’anima divisa in due di Giovanna. L’uso – qui si direbbe abuso – delle proiezioni fa molto déjà vu. Il palcoscenico ingombro di mimi-ballerini rende ancor più dispersivo un libretto che di confusioni già ne ingenera molte. E la coreografizzazione di parecchi passaggi della storia ha il pregio, involontario, di riuscire a far rimpiangere perfino il Livermore regista, tanto è modesto il Livermore coreografo.




Giovanna d’Arco



cast cast & credits
 
trama trama



Un momento dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni

 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013