Nel
1845 Verdi diede vita alla sua ottava e alla sua nona fatica operistica:
la prima, Giovanna dArco, volle considerarla l«opera migliore» da
lui composta fino a quel momento; della seconda, Alzira, retrospettivamente
dirà che era «proprio brutta». Si sa come nel secolo successivo andarono poi le
cose: la musicologia accomunerà Giovanna e Alzira (prime due protagoniste
femminili delluniverso verdiano, per inciso) come le creazioni forse più
deboli nellintero arco creativo del suo autore, vuoi per una certa difficoltà del
giovane Verdi a scolpire i caratteri muliebri con licasticità che già conferiva
ai bassi e ai baritoni, vuoi – nel caso di Giovanna dArco – per
il libretto di Temistocle Solera, talvolta grottesco nella
versificazione e non privo di scantonamenti nellumorismo involontario.
Oggi,
in anni post-ideologici anche sotto il punto di vista musicale, le
pregiudiziali verso il Verdi “brado” e “bandistico” dei cosiddetti anni di
galera sono cadute e i tempi, semmai, appaiono maturi per formulare altre
riserve: ad esempio che nellAlzira uno dei massimi pregi verdiani – la
sintesi – è talmente accentuata da trasformarsi in laconicità espressiva; o
che, per quanto riguarda la Giovanna, il muoversi su binari paralleli (barbarico
versus catartico, affresco guerresco versus idillio pastorale, mondo
dei potenti versus mondo degli umili, ferocia dellodio versus
bisogno damore) approda a un lavoro irrisolto nelle sue contraddizioni, anziché
coagulato in una superiore plasticità di resa. Come sempre accade quando si
parla di musica e teatro, tutto questo resta comunque confinato nel limbo della
speculazione accademica. Ma può giungere, prima o poi, un interprete
illuminante, capace di restituirci le ragioni dellautore. È quanto è accaduto
nella Giovanna dArco al Teatro dellOpera di Roma, grazie alla
concertazione di Daniele Gatti. Un momento dello spettacolo © Fabrizio Sansoni
Tra
la tempestosità della «tragedia romantica» (così Schiller definì la sua Die
Jungfrau von Orleans da cui Solera ricaverà il libretto) e la dimensione
contemplativa del «dramma lirico» (questa la definizione di Verdi in
partitura), Gatti si schiera inequivocabilmente con questultima. Per lui ciò
che collega e ricompone le tante sollecitazioni dellopera è la dimensione
trasognata che avvolge, oltre alla protagonista, tutto il mondo che la
circonda, a cominciare dagli altri personaggi principali (Carlo con i suoi
caratteri – modernissimi per il 1845 – di tenore antieroico e perdente, Giacomo
visto non come padre-padrone tutto dun pezzo, ma lacerato crogiolo di umane
contraddizioni al pari di tanti altri baritoni verdiani a venire). Dunque, nella
sua lettura musicale, già il rullo dei timpani che apre la sinfonia ci porta,
contro ogni tradizionale aspettativa, in un mondo fonico trasparente, quasi
immateriale; e il successivo prolungato “fortissimo”, che anticipa le tante
battaglie in scena e fuori scena, mantiene a sua volta un retrogusto
dincantamento lirico (mentre, per ideale contrappasso, certi “pianissimi” risuoneranno
poi inaspettatamente drammatici). Violenza e dolcezza, insomma, appaiono due
facce per la stessa medaglia, così come per Giovanna lo sono santità e
tentazione: dallinizio alla fine aleggiano su lei angeli e demoni, ma qui il ghignare
dei secondi si stempera, senza soluzione di continuità, nella rarefazione celestiale
dei primi.
Proprio
attraverso una simile cifra sonora Gatti addiviene a una sintesi di questa
drammaturgia bifasica. Il tutto, peraltro, senza trascurare quellanaliticità che
da sempre è la cifra distintiva del direttore milanese. Se poche sono state le
illustri bacchette accostatisi alla Giovanna dArco nella sua
interezza, più dun grande del podio ha voluto cimentarsi con la sinfonia: eppure
mai come in questoccasione sono sembrati evidenti gli echi beethoveniani della
Pastorale che Verdi, sottotraccia, ha voluto spargere in tale pagina. Così
come corre lobbligo di dire che perfino nella splendida lettura di Riccardo
Chailly (Scala 2015) passò inosservata lassoluta similarità – da Gatti
resa invece ben percepibile – dellinno dei diavoli con linfausto Allarmi,
siam fascisti!, che loscuro compositore assoldato da Mussolini plagiò
senza troppi scrupoli, confidando nelloblio in cui la Giovanna era
caduta. Ed è una capacità analitica, questa, che non significa mero gusto della
minuzia, ma sottende un altissimo livello tecnico: basta ascoltare come è stato
governato al millimetro il terzetto “a cappella” tra soprano, tenore e
baritono. Un momento dello spettacolo © Fabrizio Sansoni
Il
rapporto tra podio e palcoscenico, invece, non appare altrettanto scandagliato:
Gatti resta più interessato al tessuto sinfonico che allordito belcantistico,
al paesaggismo orchestrale piuttosto che pittura canora. Se il cantante appare
in grado di costruire da solo il personaggio (comè per Roberto Frontali)
gli esiti rimangono notevoli, mentre se sembra circoscriversi in una mera
estroversione fonica (ed è il caso di Francesco Meli) tutto
funziona meno bene. Il primo, per ovvie ragioni anagrafiche, ha da un lato
raggiunto la sua piena maturità di artista e, dallaltro, lasciato alle spalle
la forma vocale migliore: ma quando un baritono ultrasessantenne, al di là del
timbro inaridito, continua a imporsi per omogeneità e risonanza cè poco da
recriminare. Per il resto, è proprio questa sopravvenuta secchezza che consente
a Frontali una pregnanza della parola scenica irraggiungibile, forse, da una
voce più morbida e incline al “legato”; e che il personaggio di Giacomo – al
contrario degli altri due protagonisti – entri in scena non con una cavatina,
ma un lungo articolatissimo recitativo, avvantaggia questincarnazione incline
ad anatomizzare il fraseggio anziché abbandonarsi al flusso del canto.
Lassai
maggior freschezza, daltronde, non impedisce di far trapelare nella voce di
Meli unincipiente usura. Le qualità naturali sono così pregevoli da occultare
unemissione mai del tutto sotto controllo e quindi, col passare degli anni, un
po slabbratasi: ma le mezzevoci risolte in mero accenno, e la conseguente incapacità
di risolvere in puro canto i “piani” e “pianissimi”, oggi vieppiù denunciano
una certa inavvertenza tecnica (la malia sognante della frase È puro
laere, limpido è il cielo ne esce disinnescata). Come sempre cerca di
ovviarvi con gradevole epidermicità e baldanza tutta tenorile: vanificando
proprio quella “antitenorilità” di cui si diceva, e che resta il tratto più
distintivo del ruolo di re Carlo. Quanto alla protagonista Nino Machaidze,
propensa in primo luogo allaffondo temperamentale e al canto di sbalzo, sembra
seguire una chiave di lettura poco in sintonia con quella del direttore. Resta
fermo però che Verdi, a fronte di certi incantamenti che potremmo definire
belliniani, richiede a Giovanna pure tali desiderata. Così come rimane
indubitabile che la cantante georgiana può contare, al contrario del suo partner
tenorile, su una saldezza di emissione che le consente un perfetto appiombo
musicale pure nelle agilità di forza e negli attacchi più aggrediti. Un momento dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni Detto che nel piccolo ruolo di Talbot un basso come Dmitry Beloselskiy
è giganteggiante e addirittura sovradimensionato, resta da parlare della
messinscena di Davide Livermore. In realtà da disquisire cè ben
poco, se non per ventilare che unesecuzione in forma di concerto forse sarebbe
stata preferibile. La creazione di un “doppio” della protagonista (affidato
alla brava danzatrice Susanna Salvi) è nulla più che una
didascalica, pedestre rappresentazione dellanima divisa in due di Giovanna.
Luso – qui si direbbe abuso – delle proiezioni fa molto déjà vu.
Il palcoscenico ingombro di mimi-ballerini rende ancor più dispersivo un
libretto che di confusioni già ne ingenera molte. E la coreografizzazione di
parecchi passaggi della storia ha il pregio, involontario, di riuscire a far
rimpiangere perfino il Livermore regista, tanto è modesto il Livermore
coreografo.
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