Un abbinamento così insolito e temerario non
sera mai visto: una serata musicale composta da una creazione di danza contemporanea
e da unopera del repertorio verista. Seppure per combinar dittico con Pagliacci
(che la tradizione abbinava a Cavalleria rusticana) si fosse fatto già ricorso
a unopera di Arnold Schönberg (Von Heute Auf Morgen, La Fenice,
2008).
I titoli del debutto di stagione per il
Carlo Felice rientrano in una collaborazione con la RAI, per un progetto di più
vasta diffusione in edizione televisiva dedicata. La creazione coreografica,
affidata a Virgilio Sieni, parte da musica originale commissionata al
giovane e affermato compositore Francesco Filidei, toscano residente in
Francia. Il brano deriva da un precedente omonimo, per flauto e orchestra
(Monte Carlo, 2017), destinato al virtuoso solista Mario Caroli. Riadattata
per la danza, la partitura mantiene i caratteri ispirati agli “angeli” delle
fotografie di Francesca Woodman (On being an Angel, Expo
Amsterdam, 2015) e a un pezzo di Alban Berg.
Un momento dello spettacolo
Il coreografo assume tutta la responsabilità
delle componenti spettacolari, mirando alla continuità coerente dimostrata in Cantico
dei cantici, Petruška e Metamorphosis. Ora però innovando, a confronto
con una sollecitazione strutturale, melodica e ritmica, sconosciuta: quella che
fonde ricerca formale con moventi di partecipazione intima a eventi civili. «Frutto
duna serialità sfaldata, melodia sospesa nel silenzio, il corpo astratto duna
esile voce viene rivestito a tratti dallorchestra per poi essere lasciato
ancor più solo e spoglio», dichiara Filidei nel programma di sala. Loccasione compositiva gli veniva, per la
versione originale, dalla fine tragica della fotografa italo-americana Woodman,
suicida a ventidue anni nel 1981. Sieni cerca quindi di esprimere «lessenza
del respiro: pneuma. Laria, il respiro, il soffio, ciò che è più vitale per
noi diviene anche messaggero di memorie» (Nota di regia). Descrive così un
tragitto spaziale di slanci e cadute, misurato dalle analogie con sentimenti e
stati danimo al femminile. Rendere visibile un destino umano personale
comporta unicità di gesto e irripetibilità di una sequenza istantanea. Gioco
del caso, se non damore, trascritto in traiettoria, affinché il disegno
tracciato in palcoscenico dal corpo danzante rechi limpressione delle fotografie
ispiratrici.
In scena, la musica riveste il corpo
immaginario di una figura assente, fino a concretarla in movimento. Lazione
fisica inventa inseguimenti sonori e plastici, guidati da una tensione
vitalistica, quasi opposizione metafisica alla realtà storica della donna
scomparsa. Fra astrazione e corporeità – ineludibile ossimoro caro al regista –
il flusso lieve della vicenda trova peso e aderenza terrestri. Lapporto decisivo
della danzatrice nasce dal suo farsi creatrice, oltre che interprete, usando limprovvisazione
quale mezzo peculiare. In plausibile ipotesi, lo spettatore partecipa a un
incontro di concordanze e opposizioni irrisolte. Quasi lautore (nel ruolo del
flauto) testimoniasse, nellalter ego danzante, una sorta di vittima
sacrificale. O fosse al contrario la Donna (il di lei tormento) a produrre
londa sonora portante, vibrazione che echeggia a volte quella della risacca
marina. Mario Caroli, suonando in scena (il suo fraseggio è canto e ritmo sulle
diverse fonti sonore del complesso orchestrale anchesso dialogante), assume il
ruolo di personaggio-strumento. Attore di affettuosa presenza e di reazione e provocazione,
tanto da accentuarne il protagonismo, nel duetto fra musica e movimento, il
musicista libera il proprio gesto “danzante” in una jam-session di tipo jazzistico.
Un momento dello spettacolo
È difficile tradurre il senso che lo spazio
acquista nellessere “abitato” da diversi oggetti: una vasca (o teca) dacquario,
drappi bianchi stesi a fondale che fremono al vento; un altro drappo per
evoluzioni auto-avvolgenti della performer. Poi, due specchi: uno grande,
sceso dal “cielo” e uno più piccolo, recato dalla Donna. Ma le superfici lucide
accostate non danno leffetto di rispecchiamento che forse lo spettatore
sattende. Cè ancora un trapezio, sul quale la Donna sale e scende e parrebbe
banale vedere in ciò la metafora di una mistica ascesi. Per altra ipotesi, la
coreografia svolgerebbe un pas-de-deux fra la Musica (il flauto),
origine dellimpulso e il corpo che lo incarna. E la memoria va allAprès-midi
dun faune di Debussy. Claudia Catarzi rende carnale la
nudità di unombra, usa lagilità flessibile delle membra da contorsionista
spericolata e trascendente quando esplora la sua prigione di vetro e di liquido
amniotico. Prestazione di sofisticato, rischioso equilibrio, ripropone il
problema essenziale, nonché drammaturgico, sulla danza: se debba essere “pura”
o narrante, come nel teatro-danza. Dilemma sulla natura, i limiti, la funzione
e i generi di un gesto appena simbolico o di un evento di esistenza integrale.
Nel clima drammatico di Pagliacci,
dopo la sensazione rarefatta trasmessa dalla danza, si entra con lOuverture
e la sfilata dei commedianti. Lingresso del Prologo avviene in un paesaggio che
a sfondo ha un bosco dal pittorico realismo. In unaia, attorno a un pozzo, si apre
la vicenda della compagnia di guitti (o del circo di cui appare la tenda) centrata
sulla primadonna, Nedda-Colombina, desiderata da tre uomini: il marito Canio, linnamorato
respinto Tonio e lamante Silvio. Lincontro con lamato e la possibile fuga con
lui scatenano due gelosie: quella di Tonio che fa la spia e quella più
pericolosa e già latente di Canio, che coglie ladultera in flagrante, mentre
lo sconosciuto rivale fugge. La premessa annuncia quindi uno sviluppo
tormentato e una fine violenta. Lo spettacolo programmato metterà comunque in
scena la commedia del tradimento di Colombina (Nedda) con Arlecchino (Peppe),
dove Canio interpreta Pagliaccio e Tonio è il servo Taddeo. Durante la recita,
che ricopia le situazioni del gruppo, Canio rifiuta il ruolo che ormai gli
assegna la vita, esigendo a confessione della moglie il nome del suo complice.
Lei non cede e lui la uccide. Anche Silvio, accorso per salvarla, muore pugnalato.
Gli spettatori sul palco e il pubblico in sala assistono alla tragedia vera che
imita linnocua finzione.
Un momento dello spettacolo
La recitazione è curata, aderente al ruolo
e allinterprete e si armonizza al canto. Momento tipico e atteso, il Prologo
che Sebastian Catana intona spingendo non la carretta, ma una bicicletta
e in cui annuncia commosso il programma estetico dellautore. Subito Canio (Fabio
Sartori) ammonisce sulla differenza fra teatro e vita con voce ferma,
sicura e pulita, che muta in turbamento nel sorprendere abbracciati Nedda e il giovane
contadino suo amante. Il crescendo del tenore è ben liricamente scandito,
mentre un incendio divampa nel bosco retrostante. Duplicazione simbolica della
furia gelosa, trapassa nellaria che chiude il primo atto, «Vesti la
giubba e la faccia infarina… Ridi, Pagliaccio!» e che sfocia in pianto. Il sobrio,
nitido impeto tenorile si propaga nellenfasi dellattore aderente al ruolo. Il
duetto di Nedda e Silvio (un Marcello Rosiello partner focoso e
suadente) è di apprezzabile modernità gestuale. Equilibrio di fraseggio e
spicco di registri superiore offre il soprano Serena Gamberoni, sia nella passione,
sia nella versatilità dal sogno di libertà alla paura.
Per lambientazione, la recita della farsa
si trasforma in un vaudeville o tragicommedia degli equivoci,
novecentesca se non nel libretto, almeno nel décor e nei costumi, aggiornati
secondo il genere. Scenografia lucida, luminosa; personaggi stilizzati nei bei
costumi colorati di Angela Buscemi, dove Colombina e Arlecchino (Matteo
Falcier), più che maschere diventano tipi da operetta o da rivista. La
condizione ridicolizzata di Canio è ora personaggio per antonomasia. Il finale concitato
precipita in tragedia, ma alquanto incongrua in quello stile straniato,
anacronistico, integrato dalle proiezioni. È lapplicazione della cosiddetta “realtà
aumentata”, mezzo che dovrebbe evidenziare la presa di coscienza del
“sottotesto”, da sempre considerato integrante (come la gestualità) la parte
verbale della rappresentazione. Cristian Taraborrelli la applica per
rendere «visibili i sogni, i pensieri, le passioni, i tormenti dellanima dei
protagonisti» (dalle Note di regia) e per fornire altri punti di vista
ripresi da telecamera e proiettati contemporaneamente allazione. Il teatro di
prosa ne conta ormai molti esempi con esiti diversi. Qui ci sono i filmati di Luca
Attilii, che scorrono sullo schermo. Purtroppo, specialmente lo spettatore oltre
la metà della sala, ha ricezione limitata e difficoltà a distinguere le variazioni
espressive, eccettuati alcuni intensi, significativi primi piani dei volti dei
protagonisti apparsi nellintermezzo. Giudizio più aderente e favorevole potrà venire dalla
versione televisiva che allarga la fruizione, sebbene in una sfera comunicativa
ed estetica incomparabile al teatro.
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