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Ardua operazione all’Opera

di Gianni Poli
  Sull’essere angeli - Pagliacci
Data di pubblicazione su web 18/10/2021  

Un abbinamento così insolito e temerario non s’era mai visto: una serata musicale composta da una creazione di danza contemporanea e da un’opera del repertorio verista. Seppure per combinar dittico con Pagliacci (che la tradizione abbinava a Cavalleria rusticana) si fosse fatto già ricorso a un’opera di Arnold Schönberg (Von Heute Auf Morgen, La Fenice, 2008).

I titoli del debutto di stagione per il Carlo Felice rientrano in una collaborazione con la RAI, per un progetto di più vasta diffusione in edizione televisiva dedicata. La creazione coreografica, affidata a Virgilio Sieni, parte da musica originale commissionata al giovane e affermato compositore Francesco Filidei, toscano residente in Francia. Il brano deriva da un precedente omonimo, per flauto e orchestra (Monte Carlo, 2017), destinato al virtuoso solista Mario Caroli. Riadattata per la danza, la partitura mantiene i caratteri ispirati agli “angeli” delle fotografie di Francesca Woodman (On being an Angel, Expo Amsterdam, 2015) e a un pezzo di Alban Berg.

Un momento dello spettacolo

Il coreografo assume tutta la responsabilità delle componenti spettacolari, mirando alla continuità coerente dimostrata in Cantico dei cantici, Petruška e Metamorphosis. Ora però innovando, a confronto con una sollecitazione strutturale, melodica e ritmica, sconosciuta: quella che fonde ricerca formale con moventi di partecipazione intima a eventi civili. «Frutto d’una serialità sfaldata, melodia sospesa nel silenzio, il corpo astratto d’una esile voce viene rivestito a tratti dall’orchestra per poi essere lasciato ancor più solo e spoglio», dichiara Filidei nel programma di sala. L’occasione compositiva gli veniva, per la versione originale, dalla fine tragica della fotografa italo-americana Woodman, suicida a ventidue anni nel 1981. Sieni cerca quindi di esprimere «l’essenza del respiro: pneuma. L’aria, il respiro, il soffio, ciò che è più vitale per noi diviene anche messaggero di memorie» (Nota di regia). Descrive così un tragitto spaziale di slanci e cadute, misurato dalle analogie con sentimenti e stati d’animo al femminile. Rendere visibile un destino umano personale comporta unicità di gesto e irripetibilità di una sequenza istantanea. Gioco del caso, se non d’amore, trascritto in traiettoria, affinché il disegno tracciato in palcoscenico dal corpo danzante rechi l’impressione delle fotografie ispiratrici. 

In scena, la musica riveste il corpo immaginario di una figura assente, fino a concretarla in movimento. L’azione fisica inventa inseguimenti sonori e plastici, guidati da una tensione vitalistica, quasi opposizione metafisica alla realtà storica della donna scomparsa. Fra astrazione e corporeità – ineludibile ossimoro caro al regista – il flusso lieve della vicenda trova peso e aderenza terrestri. L’apporto decisivo della danzatrice nasce dal suo farsi creatrice, oltre che interprete, usando l’improvvisazione quale mezzo peculiare. In plausibile ipotesi, lo spettatore partecipa a un incontro di concordanze e opposizioni irrisolte. Quasi l’autore (nel ruolo del flauto) testimoniasse, nell’alter ego danzante, una sorta di vittima sacrificale. O fosse al contrario la Donna (il di lei tormento) a produrre l’onda sonora portante, vibrazione che echeggia a volte quella della risacca marina. Mario Caroli, suonando in scena (il suo fraseggio è canto e ritmo sulle diverse fonti sonore del complesso orchestrale anch’esso dialogante), assume il ruolo di personaggio-strumento. Attore di affettuosa presenza e di reazione e provocazione, tanto da accentuarne il protagonismo, nel duetto fra musica e movimento, il musicista libera il proprio gesto “danzante” in una jam-session di tipo jazzistico.

Un momento dello spettacolo

È difficile tradurre il senso che lo spazio acquista nell’essere “abitato” da diversi oggetti: una vasca (o teca) d’acquario, drappi bianchi stesi a fondale che fremono al vento; un altro drappo per evoluzioni auto-avvolgenti della performer. Poi, due specchi: uno grande, sceso dal “cielo” e uno più piccolo, recato dalla Donna. Ma le superfici lucide accostate non danno l’effetto di rispecchiamento che forse lo spettatore s’attende. C’è ancora un trapezio, sul quale la Donna sale e scende e parrebbe banale vedere in ciò la metafora di una mistica ascesi. Per altra ipotesi, la coreografia svolgerebbe un pas-de-deux fra la Musica (il flauto), origine dell’impulso e il corpo che lo incarna. E la memoria va all’Après-midi d’un faune di Debussy. Claudia Catarzi rende carnale la nudità di un’ombra, usa l’agilità flessibile delle membra da contorsionista spericolata e trascendente quando esplora la sua prigione di vetro e di liquido amniotico. Prestazione di sofisticato, rischioso equilibrio, ripropone il problema essenziale, nonché drammaturgico, sulla danza: se debba essere “pura” o narrante, come nel teatro-danza. Dilemma sulla natura, i limiti, la funzione e i generi di un gesto appena simbolico o di un evento di esistenza integrale.

Nel clima drammatico di Pagliacci, dopo la sensazione rarefatta trasmessa dalla danza, si entra con l’Ouverture e la sfilata dei commedianti. L’ingresso del Prologo avviene in un paesaggio che a sfondo ha un bosco dal pittorico realismo. In un’aia, attorno a un pozzo, si apre la vicenda della compagnia di guitti (o del circo di cui appare la tenda) centrata sulla primadonna, Nedda-Colombina, desiderata da tre uomini: il marito Canio, l’innamorato respinto Tonio e l’amante Silvio. L’incontro con l’amato e la possibile fuga con lui scatenano due gelosie: quella di Tonio che fa la spia e quella più pericolosa e già latente di Canio, che coglie l’adultera in flagrante, mentre lo sconosciuto rivale fugge. La premessa annuncia quindi uno sviluppo tormentato e una fine violenta. Lo spettacolo programmato metterà comunque in scena la commedia del tradimento di Colombina (Nedda) con Arlecchino (Peppe), dove Canio interpreta Pagliaccio e Tonio è il servo Taddeo. Durante la recita, che ricopia le situazioni del gruppo, Canio rifiuta il ruolo che ormai gli assegna la vita, esigendo a confessione della moglie il nome del suo complice. Lei non cede e lui la uccide. Anche Silvio, accorso per salvarla, muore pugnalato. Gli spettatori sul palco e il pubblico in sala assistono alla tragedia vera che imita l’innocua finzione. 

Un momento dello spettacolo

La recitazione è curata, aderente al ruolo e all’interprete e si armonizza al canto. Momento tipico e atteso, il Prologo che Sebastian Catana intona spingendo non la carretta, ma una bicicletta e in cui annuncia commosso il programma estetico dell’autore. Subito Canio (Fabio Sartori) ammonisce sulla differenza fra teatro e vita con voce ferma, sicura e pulita, che muta in turbamento nel sorprendere abbracciati Nedda e il giovane contadino suo amante. Il crescendo del tenore è ben liricamente scandito, mentre un incendio divampa nel bosco retrostante. Duplicazione simbolica della furia gelosa, trapassa nell’aria che chiude il primo atto, «Vesti la giubba e la faccia infarina… Ridi, Pagliaccio!» e che sfocia in pianto. Il sobrio, nitido impeto tenorile si propaga nell’enfasi dell’attore aderente al ruolo. Il duetto di Nedda e Silvio (un Marcello Rosiello partner focoso e suadente) è di apprezzabile modernità gestuale. Equilibrio di fraseggio e spicco di registri superiore offre il soprano Serena Gamberoni, sia nella passione, sia nella versatilità dal sogno di libertà alla paura. 

Per l’ambientazione, la recita della farsa si trasforma in un vaudeville o tragicommedia degli equivoci, novecentesca se non nel libretto, almeno nel décor e nei costumi, aggiornati secondo il genere. Scenografia lucida, luminosa; personaggi stilizzati nei bei costumi colorati di Angela Buscemi, dove Colombina e Arlecchino (Matteo Falcier), più che maschere diventano tipi da operetta o da rivista. La condizione ridicolizzata di Canio è ora personaggio per antonomasia. Il finale concitato precipita in tragedia, ma alquanto incongrua in quello stile straniato, anacronistico, integrato dalle proiezioni. È l’applicazione della cosiddetta “realtà aumentata”, mezzo che dovrebbe evidenziare la presa di coscienza del “sottotesto”, da sempre considerato integrante (come la gestualità) la parte verbale della rappresentazione. Cristian Taraborrelli la applica per rendere «visibili i sogni, i pensieri, le passioni, i tormenti dell’anima dei protagonisti» (dalle Note di regia) e per fornire altri punti di vista ripresi da telecamera e proiettati contemporaneamente all’azione. Il teatro di prosa ne conta ormai molti esempi con esiti diversi. Qui ci sono i filmati di Luca Attilii, che scorrono sullo schermo. Purtroppo, specialmente lo spettatore oltre la metà della sala, ha ricezione limitata e difficoltà a distinguere le variazioni espressive, eccettuati alcuni intensi, significativi primi piani dei volti dei protagonisti apparsi nell’intermezzo. Giudizio più aderente e favorevole potrà venire dalla versione televisiva che allarga la fruizione, sebbene in una sfera comunicativa ed estetica incomparabile al teatro.   





Sull’essere angeli - Pagliacci
Sull’essere angeli
cast cast & credits
 
Pagliacci
cast cast & credits
 




Un momento dello spettacolo visto l’8 ottobre scorso al 






 
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