Crea
davvero un senso di vertigine lèggere lelenco di tutte le rappresentazioni del
Barbiere
di Siviglia al Teatro
alla Scala, in fondo al programma di sala. Lopera in questo teatro arrivò non
prestissimo, in verità: il 16 settembre 1820, a quattro anni dalle prime recite
iniziate male e poi finite in trionfo al Teatro Argentina di Roma nel 1816. Da
quel momento in poi i Barbieri alla
Scala quasi non si contano più, tanto sono numerosi i ritorni (dal 1820 al 1830
lopera cè in nove stagioni) e frequenti le repliche (venticinque nel 1820;
tra gennaio e dicembre 1823 addirittura sessantaquattro).
Si continua
così fino agli ultimissimi decenni, quando le cose un po cambiano. Alla Scala
lultima presenza del Barbiere nella
stagione propriamente detta è quella dellestate 2010; cè stata, è vero, la
ripresa del 2015, ma in uno spettacolo dellAccademia di Perfezionamento per
Cantanti Lirici. È un diradamento sorprendente, soprattutto se si pensa che,
rispetto a un passato neanche troppo lontano, il repertorio lirico ha subito un
processo di contrazione – contrazione che lallargamento alle opere sei-settecentesche
non ha ancora compensato (specie in Italia, e specie alla Scala, dove Handel
e Monteverdi hanno solo da pochissimo fatto capolino). In questo
contesto il numero esiguo dei Barbieri
recenti spicca. E spicca forse ancor di più il fatto che dal 1971 – sempre
secondo il programma di sala – alla Scala si è sempre visto lo stesso
allestimento, quello ormai storico di Jean-Pierre Ponnelle. Si provò nel
1999 a sostituirlo con uno spettacolo affidato ad Alfredo Arias, ma non
andò bene, e si tornò presto a Ponnelle, replicato per gli anni 2002-2015. Ci
si riprova adesso con questo nuovo Barbiere
di Leo Muscato.
© Marco Brescia & Rudy Amisano
Di
nuovo le cose non vanno bene. Il barbiere
di Siviglia è lopera più famosa di Rossini
e sembra che proprio il suo successo sia alla fine la causa della ritrosia a riportarlo
in scena. Soprattutto di farlo nei grandi teatri che, se producono qualcosa di
nuovo, vorrebbero (e forse pure dovrebbero) ogni volta lasciare il segno,
fornire modelli, offrire soluzioni in qualche modo durevoli nel contesto degli
allestimenti lirici contemporanei. Muscato alla Scala gioca la carta del Konzept e fa del Barbiere unopera metateatrale. Lo spiegano le sue note di regia: siamo
tra fine Otto e inizio Novecento; Don Bartolo è limpresario di un teatro
decadente (forse un possibile “Teatro Siviglia”, scrive Muscato), di cui Rosina
è la vedette, Berta la coreografa,
Figaro il factotum, il Conte dAlmaviva lautore dellInutile precauzione e così via.
Cè
un problema. Senza le leggere le note, il Konzept
non emerge dalla scena: che il Conte sia lautore del dramma e Rosina la
“stella” di un teatro decadente (che peraltro le scene non mostrano così),
assieme a tutta una serie di altri dettagli, non è preso in carico
dallallestimento, ma si chiarisce solo leggendo le note di regia contenute in
un programma di sala che nessuno è tenuto ad acquistare. Certo, si capisce che
siamo in un teatro, ma non si capisce perché
siamo in un teatro, né come e per quale motivo questo spostamento di ambientazione
metta in luce aspetti interessanti dellopera, o ne produca di nuovi. Non si
discute qui lesigenza di proporre una regia creativa, ci mancherebbe; tuttavia
operazioni di questo tipo richiedono di essere portate a compimento con
convinzione. Realizzare uno spettacolo seguendo le indicazioni presenti nei
testi non esime certo da un impegno serio con la messinscena, ma almeno solleva
chi cura la regia dallavere per forza unidea originale. Quando però si vuole
imporre un Konzept a tutti i costi, e
questo non è né originale né – che è peggio – evidente, il risultato è la
mancanza di interesse per quanto si vede in scena. Ci sono tante, troppe
trovate, e alla fine proprio per questo anche tanta noia: in questo Barbiere non si ride mai.
© Marco Brescia & Rudy Amisano È
davvero un peccato, perché il cast messo insieme per loccasione è uno dei
meglio assortiti e più omogenei ascoltati in questopera: tutti gli interpreti
sono ottimi, anche quelli dei ruoli minori. Maxim Mironov (Conte dAlmaviva) è un musicista raffinato, e
conferisce eleganza musicale a tutto ciò che canta, distinguendosi in scena per
finezza di gestualità e portamento. Mattia
Olivieri è un Figaro vocalmente baldanzoso, che affronta senza esitazioni
già dalla Cavatina uno dei ruoli più temibili per un baritono. Marco Filippo Romano è Bartolo, e si
potrebbe dire anche solo questo per sottolineare quanto dal punto di vista
attoriale e musicale sia un interprete ideale per il personaggio. Molto bene Svetlina Stoyanova, mezzosoprano chiaro
che ricorda Frederica von Stade, ma con le colorature sgranate “alla
moderna”; bene anche Nicola Ulivieri
(Basilio). Ottimi, come dicevo, anche i comprimari nei ruoli di Berta (Lavinia Bini) e Fiorello/Un Ufficiale (Costantino Finucci), ruoli che
raramente si ascoltano cantati così bene.
I
problemi della regia hanno trovato riflesso in quelli della direzione. Riccardo
Chailly è un veterano del repertorio rossiniano buffo – penso alle sue
registrazioni del Turco in Italia o
della Cenerentola, divenute
giustamente punti di riferimento nella storia esecutiva di queste opere. Eppure
le sue ultime prove alla Scala sono state deludenti: pesante e fragorosa la sua
Gazza ladra
scaligera di qualche stagione fa; preciso ma lento e senza slanci o sorprese
questo Barbiere.
Buon
successo per gli interpreti, in particolare per Marco Filippo Romano – di
sicuro il migliore in scena in questa produzione.
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