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Barbiere d’autunno

di Vincenzo Borghetti
  Barbiere d’autunno
Data di pubblicazione su web 12/10/2021  

Crea davvero un senso di vertigine lèggere l’elenco di tutte le rappresentazioni del Barbiere di Siviglia al Teatro alla Scala, in fondo al programma di sala. L’opera in questo teatro arrivò non prestissimo, in verità: il 16 settembre 1820, a quattro anni dalle prime recite iniziate male e poi finite in trionfo al Teatro Argentina di Roma nel 1816. Da quel momento in poi i Barbieri alla Scala quasi non si contano più, tanto sono numerosi i ritorni (dal 1820 al 1830 l’opera c’è in nove stagioni) e frequenti le repliche (venticinque nel 1820; tra gennaio e dicembre 1823 addirittura sessantaquattro).

Si continua così fino agli ultimissimi decenni, quando le cose un po’ cambiano. Alla Scala l’ultima presenza del Barbiere nella stagione propriamente detta è quella dell’estate 2010; c’è stata, è vero, la ripresa del 2015, ma in uno spettacolo dell’Accademia di Perfezionamento per Cantanti Lirici. È un diradamento sorprendente, soprattutto se si pensa che, rispetto a un passato neanche troppo lontano, il repertorio lirico ha subito un processo di contrazione – contrazione che l’allargamento alle opere sei-settecentesche non ha ancora compensato (specie in Italia, e specie alla Scala, dove Handel e Monteverdi hanno solo da pochissimo fatto capolino). In questo contesto il numero esiguo dei Barbieri recenti spicca. E spicca forse ancor di più il fatto che dal 1971 – sempre secondo il programma di sala – alla Scala si è sempre visto lo stesso allestimento, quello ormai storico di Jean-Pierre Ponnelle. Si provò nel 1999 a sostituirlo con uno spettacolo affidato ad Alfredo Arias, ma non andò bene, e si tornò presto a Ponnelle, replicato per gli anni 2002-2015. Ci si riprova adesso con questo nuovo Barbiere di Leo Muscato.

© Marco Brescia & Rudy Amisano
© Marco Brescia & Rudy Amisano

Di nuovo le cose non vanno bene. Il barbiere di Siviglia è l’opera più famosa di Rossini e sembra che proprio il suo successo sia alla fine la causa della ritrosia a riportarlo in scena. Soprattutto di farlo nei grandi teatri che, se producono qualcosa di nuovo, vorrebbero (e forse pure dovrebbero) ogni volta lasciare il segno, fornire modelli, offrire soluzioni in qualche modo durevoli nel contesto degli allestimenti lirici contemporanei. Muscato alla Scala gioca la carta del Konzept e fa del Barbiere un’opera metateatrale. Lo spiegano le sue note di regia: siamo tra fine Otto e inizio Novecento; Don Bartolo è l’impresario di un teatro decadente (forse un possibile “Teatro Siviglia”, scrive Muscato), di cui Rosina è la vedette, Berta la coreografa, Figaro il factotum, il Conte d’Almaviva l’autore dell’Inutile precauzione e così via.

C’è un problema. Senza le leggere le note, il Konzept non emerge dalla scena: che il Conte sia l’autore del dramma e Rosina la “stella” di un teatro decadente (che peraltro le scene non mostrano così), assieme a tutta una serie di altri dettagli, non è preso in carico dall’allestimento, ma si chiarisce solo leggendo le note di regia contenute in un programma di sala che nessuno è tenuto ad acquistare. Certo, si capisce che siamo in un teatro, ma non si capisce perché siamo in un teatro, né come e per quale motivo questo spostamento di ambientazione metta in luce aspetti interessanti dell’opera, o ne produca di nuovi. Non si discute qui l’esigenza di proporre una regia creativa, ci mancherebbe; tuttavia operazioni di questo tipo richiedono di essere portate a compimento con convinzione. Realizzare uno spettacolo seguendo le indicazioni presenti nei testi non esime certo da un impegno serio con la messinscena, ma almeno solleva chi cura la regia dall’avere per forza un’idea originale. Quando però si vuole imporre un Konzept a tutti i costi, e questo non è né originale né – che è peggio – evidente, il risultato è la mancanza di interesse per quanto si vede in scena. Ci sono tante, troppe trovate, e alla fine proprio per questo anche tanta noia: in questo Barbiere non si ride mai.

© Marco Brescia & Rudy Amisano
© Marco Brescia & Rudy Amisano

È davvero un peccato, perché il cast messo insieme per l’occasione è uno dei meglio assortiti e più omogenei ascoltati in quest’opera: tutti gli interpreti sono ottimi, anche quelli dei ruoli minori. Maxim Mironov (Conte d’Almaviva) è un musicista raffinato, e conferisce eleganza musicale a tutto ciò che canta, distinguendosi in scena per finezza di gestualità e portamento. Mattia Olivieri è un Figaro vocalmente baldanzoso, che affronta senza esitazioni già dalla Cavatina uno dei ruoli più temibili per un baritono. Marco Filippo Romano è Bartolo, e si potrebbe dire anche solo questo per sottolineare quanto dal punto di vista attoriale e musicale sia un interprete ideale per il personaggio. Molto bene Svetlina Stoyanova, mezzosoprano chiaro che ricorda Frederica von Stade, ma con le colorature sgranate “alla moderna”; bene anche Nicola Ulivieri (Basilio). Ottimi, come dicevo, anche i comprimari nei ruoli di Berta (Lavinia Bini) e Fiorello/Un Ufficiale (Costantino Finucci), ruoli che raramente si ascoltano cantati così bene.

I problemi della regia hanno trovato riflesso in quelli della direzione. Riccardo Chailly è un veterano del repertorio rossiniano buffo – penso alle sue registrazioni del Turco in Italia o della Cenerentola, divenute giustamente punti di riferimento nella storia esecutiva di queste opere. Eppure le sue ultime prove alla Scala sono state deludenti: pesante e fragorosa la sua Gazza ladra scaligera di qualche stagione fa; preciso ma lento e senza slanci o sorprese questo Barbiere.

Buon successo per gli interpreti, in particolare per Marco Filippo Romano – di sicuro il migliore in scena in questa produzione.



Il barbiere di Siviglia
Commedia in due atti


cast cast & credits
 
trama trama



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