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L’ultimo ballo

di Paolo Patrizi
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Data di pubblicazione su web 06/10/2021  

Sarebbe stato bello se l’ultima, postuma regia di Graham Vick si fosse idealmente riallacciata alle messe in scena dei primi vent’anni di carriera, quando una lucida creatività visiva prevaleva sui compiacimenti del “trash d’autore” e la forzatura di certe riletture in chiave contemporanea era compensata dalla capacità d’individuare, così facendo, i rapporti nascosti tra i personaggi. Chissà, forse questa volta sarebbe andata di nuovo così, anche se l’idea di trasformare la corte di Un ballo in maschera – era questa l’ultima opera su cui il regista inglese aveva iniziato a ragionare – in un’apoteosi del fluid gender parrebbe rimandare al Vick manieristicamente provocatore degli ultimi tempi. In ogni caso, non lo sapremo mai: Jacopo Spirei, suo assistente, si è limitato a ereditarne l’ancora scarno progetto, per poi impaginare uno spettacolo innocuo a cominciare proprio dalle sedicenti trasgressività. Ad evidenziare le ambiguità sessuali del paggio Oscar – già presenti in partitura con l’anacronistico ricorso del soprano en travesti – non serve infatti alcun surplus di vena gay-lesbo; così come quei mimi pansessuali e travestiti che qui popolano la spelonca di Ulrica sembrano fare nota di colore, più che descrizione di un’umanità borderline.

Insomma il Festival Verdi 2021 di Parma – andando contro le proprie intenzioni, si presume – si è inaugurato con uno spettacolo quietamente tradizionale, proprio a cominciare dalla sua epidermica riverniciatura anticonformista, e di tranquilla monocromia espressiva. Al di là degli sgambettamenti delle drag queen, ciò che più spicca in questo Ballo in maschera è semmai che Thanatos primeggia, non di poco, su Eros; e in tale prospettiva che il sepolcro del protagonista domini – quale elemento unificante della stilizzata scatola scenica di Richard Hudson – dall’inizio alla fine, o che l’opera venga ricostruita come un lungo flashback dove il sipario si alza su un funerale, sono soltanto un corollario. Come a dire che la caleidoscopicità impressa da Verdi a questo capolavoro (passionalità versus lirismo, elemento drammatico versus elemento brillante) viene livellata in favore di un pedale grigio e funereo, che tra l’altro sottrae carica eversiva alla trasformazione del ballo eponimo in sfrenato gay pride: forse perché nell’ottica di Vick, o di Spirei, è mancata la sensibilità per raccontare la lancinante, ma tanto più vivificante, sensualità dell’amore platonico tra Amelia e Riccardo.


Un momento dello spettacolo
© Roberto Ricci

Se la regia non ha offerto grandi intuizioni, l’operazione musicologica sottesa allo spettacolo è apparsa del tutto ininfluente. L’obiettivo – peregrino in una produzione tradizionale, legittimo in un festival – era quello di ricostruire Un ballo in maschera “prima della prima”. Non si è trattato, cioè, solo di riproporre l’originaria ambientazione svedese prevista da Verdi e dal suo librettista in luogo di quella bostoniana cui poi li costrinse la censura (questo negli ultimi decenni lo si è visto spesso e già nel 1959, a Roma, Margherita Wallmann aveva fatto scontrare il Riccardo di Di Stefano e il Renato di Bastianini all’interno della Stoccolma settecentesca, anziché d’un Massachussets del diciassettesimo secolo): qui si è voluti andare oltre, innestando sulla partitura che tutti conosciamo quel libretto mai musicato nella sua veste primigenia. L’edizione critica di Ilaria Narici compie all’uopo un buon lavoro di sartoria, ma resta fermo che molti snodi della trama, a cominciare da tutta la parte della fattucchiera Ulrica, appaiono più congrui nell’ambientazione New England; che certi passaggi del testo originario non illuminano la dialettica tra i personaggi come avrebbe fatto il libretto revisionato (far cantare «del vassallo tuo primo» anziché «dell’amico tuo primo» banalizza le motivazioni di Renato); e che tutto, insomma, ha un sentore di operazione più da laboratorio che realmente filologica.

La bacchetta di Roberto Abbado si pone al servizio di tale impresa con professionalità e convinzione. Gli esiti sono felici nel primo atto, dove le sonorità terse e scattanti che il direttore riesce a ottenere dagli orchestrali della Filarmonica Toscanini sono un buon viatico per ricostruire la “tinta” cortigiana, scandinava e settecentesca di questo Ur-Ballo in maschera. Nel prosieguo, invece, pure a lui sembra un po’ sfuggire il reticolato delle diverse sollecitazioni psicologico-drammatiche, in una concertazione elusiva tanto delle sfumature sensuali quanto degli affondi grotteschi. Il ritmo narrativo, comunque, non si perde (in quest’opera è capitato di smarrirlo a direttori più blasonati di lui), anche perché l’indubbio sostegno offerto da Abbado alle voci imprime una cantabilità che rappresenta un apprezzabile collante. E – risultato forse paradossale per una produzione che puntava soprattutto sul lavoro registico e musicologico – appunto da alcuni cantanti sono arrivati gli unici momenti memorabili dello spettacolo.


Un momento dello spettacolo
© Roberto Ricci

Il triangolo amoroso aveva i suoi punti di forza nel soprano e nel baritono. Maria Teresa Leva lascia in ombra i devastanti impulsi masochistici di Amelia e le femminili sotterranee connivenze con il proprio incubo, offrendo un ritratto meno contorto, ma tenero e appassionato. Il suono è sempre ottimamente pilotato (un “legato” impeccabile pure nei “pianissimi”), il fraseggio non scandaglierà abissi inesplorati eppure la parola scenica viene restituita in ogni sfumatura. Aliena da effetti plateali, scorrevole anche nei momenti più insidiosi (la cadenza di Morrò, ma prima in grazia), attenta al canto più che alla recitazione ma sempre puntuale pure scenicamente, ecco un soprano giovane che canta all’antica italiana. E di ancor maggiore spicco è la prova di Amartuvshin Enkhbat, artista mongolo che sembra sintetizzare il meglio della tradizione baritonale postbellica italiana e statunitense, un occhio a Bastianini e l’altro a Robert Merrill. Renato (conte di Anckastrom, nel libretto “svedese”) è un personaggio che parte faticosamente, prima di decollare come una delle massime creazioni verdiane: Enkhbat lo prende sul serio dall’inizio (l’aria del primo atto, che scivola inosservata con molti interpreti illustri, è stata salutata da grandi applausi), per approdare a un personaggio insieme austero e sfumato, dove la trasformazione in giustiziere implacabile appare tanto più graduale quanto più consequenziale. E il timbro morbido e scuro, nonché il perfetto sostegno del suono, non sono valori aggiuntivi o paralleli: sono essi stessi elementi di tale chiave interpretativa.

Una primadonna e un antagonista di tale spessore hanno messo in ombra il tenore protagonista, i cui limiti sarebbero stati meno notati al fianco di due colleghi non così agguerriti. Piero Pretti è voce gradevole (più in alto che al centro), fraseggiatore misurato (un’ottima dizione) e mostra la personalità non debordante del corretto professionista, ma in ogni caso – vesta i panni del conte inglese divenuto governatore bostoniano o indossi, come qui, la corona di Gustavo III di Svezia – Un ballo in maschera è troppo per i suoi mezzi: l’affaticamento vocale, nell’ultimo atto, era palpabile. E gli strapiombi d’estensione richiesti dalla Barcarola restano, per lui, del tutto fuori portata. Meglio allora l’Ulrica di Anna Maria Chiuri, che non ha gli abissali affondi contraltili del personaggio, ma se li sa inventare in un cantar parlando dove la nota è davvero l’ineludibile compenetrazione della sillaba: una prova che, più dei grandi modelli all’italiana con cui non potrebbe competere (la Barbieri, la Cossotto), sembra riecheggiare certe storiche Ulriche di repertorio tedesco, vocalmente meno sontuose eppure a loro modo altrettanto idiomatiche.


Un momento dello spettacolo
© Roberto Ricci

Giuliana Gianfaldoni plasma efficacemente un paggetto androgino senza affettazioni, mercuriale senza leziosità e virtuosistico senza inutili fuochi d’artificio. Baritono lirico-brillante con buona vena di caratterista, Fabio Previati si ritaglia un icastico primo piano nel personaggino del fedele marinaio. Al contrario appare un po’ sbilanciata la coppia dei congiurati, perché tra Ribbing e Dehorn (alias Samuel e Tom) il primo dovrebbe essere il traino e il secondo la spalla, mentre qui Carlo Cigni è presenza timbricamente e musicalmente più appiombata di Fabrizio Beggi. Insomma luci e ombre, anche tra i comprimari. A conferma di un Ballo a corrente alternata, generoso di spunti, discontinuo negli esiti. Forse uno spettacolo – com’è nel destino degli spettacoli “postumi” – da ripensare nel tempo: chissà che invecchiando non migliori.




Un ballo in maschera (Gustavo III)



cast cast & credits
 
trama trama


Un momento dello spettacolo
© Roberto Ricci


 
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