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Baccanti di Padrissa, ma senza Euripide

di Elisabetta Matelli
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Data di pubblicazione su web 06/10/2021  

Teatro greco-romano di Siracusa, 18 agosto 2021 alle ore 20 con mezzaluna crescente in cielo: va in scena la ventiduesima e penultima replica di Baccanti, capolavoro di Euripide, nella traduzione di Guido Paduano, con la regia del catalano Carlus Padrissa, uno dei fondatori della compagnia Fura dels Baus, famosa per una teatralità che cerca un linguaggio coinvolgente per il pubblico, anticonformista, provocatorio e talora scioccante. Siamo nel programma della 56a stagione dell’INDA, che nel 2021 ha ripreso con tre spettacoli la tradizione di rappresentazioni estive, interrotta nel 2020 per la pandemia. Padrissa presenta nel teatro greco-romano di Siracusa la messinscena di questa tragedia: prima di lui, Baccanti andò in scena con le regie di Ettore Romagnoli (sia nel 1922 che nel 1950), Giancarlo Sbragia (1980), Walter Pagliaro (1998), Luca Ronconi (2002) e Antonio Calenda (2012). 

Gli attori (in ordine d’ingresso) sono Lucia Lavia che interpreta Dioniso, Stefano Santospago per Cadmo, Ivan Graziano per Penteo, Antonello Fassari per Tiresia, Spyros Chamilos, Francesca Piccolo per il primo messaggero, Antonio Bandiera per il secondo messaggero, Linda Gennari per Agave. Prende spazio, in coerenza con le scelte registiche, anche il rapper Domenico Lamparelli, che interpreta sé stesso. Le musiche e le scene sono di Padrissa stesso. Per il Coro, non è semplice presentarne i protagonisti, non solo per il loro grandissimo numero, ma soprattutto perché il regista non rispetta il “copione” del testo euripideo, per cui nella Parodos dovrebbero entrare in scena quindici baccanti d’Asia, le fedeli seguaci di Dioniso. Il testo euripideo non presenta le “altre” baccanti, che potremmo considerare un secondo Coro, un coro “assente”, rappresentato delle donne fuggite sul monte Citerone dopo aver abbandonato le proprie case nella città di Tebe, di cui sentiamo però molto raccontare. L’unica baccante del monte Citerone che prende direttamente parte alla vicenda tragica è il personaggio di Agave, madre di Penteo, che compare in scena, in uno stato folle, nell’Esodo (al v. 1165).

Un momento dello spettacolo
                                           © Gianni Luigi Carnera

Euripide crea un’avvincente trama in cui le donne tebane, guidate da Agave (madre del sovrano Penteo), “da impazzite” cercano libertà sul monte Citerone. La loro follia consiste nel non credere affatto nella divinità di Dioniso, ma nel cercare l’ebrezza, la liberazione da vincoli, il contatto diretto con la natura che dovrebbero essere propri delle seguaci del dio (vv. 26-42, 664-774): agire da baccanti senza fede significa cadere in uno stato di allucinazione. Il poeta fa dunque solo immaginare, ma non fa mai apparire le baccanti “impazzite” (con l’eccezione di Agave, nell’Esodo, che arriva con il suo triste bottino di caccia: il figlio Penteo che ha scambiato per una preda di caccia e smembrato). Il Coro delle baccanti asiatiche, seguaci del dio e fedeli ai riti, si esprime invece sempre con parole religiosamente arcaiche, piene di mistica sacralità, anche quando invoca la vendetta del dio contro i sacrileghi. Il dubbio della critica è se il titolo Baccanti faccia riferimento alle fedeli baccanti d’Asia che vediamo in scena o all’altro tipo di baccanti, quelle senza fede in Dioniso e deliranti sul Citerone.

Nonostante queste indicazioni del testo, Padrissa sceglie di inondare sin dall’inizio la scena solo di baccanti “impazzite”, in stato euforico, invasate e violente, cioè quel tipo di baccante che Euripide descrive sì, ma che non fa mai comparire. A loro attribuisce anche le parole “mistiche” delle baccanti d’Asia. Il pubblico coglie, a livello interpretativo, l’intenzione del regista di comunicare l’idea di un baccantismo liberatorio e demoniaco, come fenomeno sociale che coinvolge l’intera collettività (baccantismo di menadi del Citerone, non d’Asia). Il numero dei coreuti è stravolto: non quindici ma cinquantacinque. Nell’ordine, entrano in scena prima due corifee con un coro di otto baccanti; di seguito si anima un altro Coro “sospeso” da un’elevatissima gru quale macchina scenica, dove nell’insieme trentatré coreuti compiono ardite coreografie acrobatiche; infine arriva un coro di dodici “cittadini”.

Coerentemente con questa idea, la figura di Dioniso (interpretato con molto vigore da Lucia Lavia, che ha un’efficace controfigura quando nell’Esodo è sospesa sulla macchina scenica) risulta caratterizzata, per tutto il tempo, da un’aggressiva animalità e una demoniaca ferocia: in scena appare vestito con una corazza e non si scorge mai la potentissima, serafica e ironica “mitezza” che nel testo euripideo ha quando perpetra la punizione degli infedeli di Tebe, come ci saremmo aspettati soprattutto grazie a una bionda femminile interprete. La peculiarità del Dioniso euripideo consiste proprio nella sua straordinaria, divina “potenza” espressa senza armi, con mitezza e modi di fare che potrebbero essere scambiati per femminili, eppure capace di spezzare catene, scuotere la terra, far sì che siano confusi i pensieri di chi non crede in lui.


Un momento dello spettacolo
© Gianni Luigi Carnera

Nella trama, gli atti violenti consistono solo nelle azioni sconvolgenti perpetrate da chi non ha fede nel dio. Il Dioniso di Lucia Lavia sembra invece essere sempre, dall’inizio alla fine della rappresentazione, il terribile demone metamorfizzante delle allucinazioni di Penteo quando da “impazzito” crede di vedere la manifestazione teriomorfa del dio (vv. 918-922). Lavia è certamente bravissima nel tenere alta, con coerenza e potenza espressiva, per circa due ore e mezza l’interpretazione di una perversità ambigua e paurosa di un Dioniso “distruttore”. Al contrario Penteo, vittima della vicenda tragica, entra in scena già come un personaggio debole nell’interpretazione di Ivan Graziano. Nonostante il ruolo tirannico, non compare “armato” (entra in scena con una semplice tunica), né l’eloquio esprime la veemenza che i versi euripidei suggeriscono. Si perde, dunque, la finissima ideazione di un carattere all’inizio tirannico e aggressivo, poi reso debole dal suo stesso desiderio di potere, per contrappasso: da spavaldo cacciatore, Euripide lo tramuta in una miserevole preda, e proprio questa trasformazione rende ancor più tragica la sua katastrophè finale.

Se ricordiamo Teorema di Pier Paolo Pasolini (1968), accolto con perplessità dalla critica, rammentiamo anche come, in quel contesto, Pasolini abbia elaborato la sua personale idea di dionisismo: un Dioniso interpretato nei termini di una sovrumana e demoniaca irrazionalità distruttiva dell’ordine umano. Non è questa la sede in cui possiamo approfondire il particolarissimo contesto culturale, artistico e politico-sociale del Sessantotto, in cui il regista elaborò tali idee, ma certo riconosciamo, nell’amarezza delusa delle sue parole, una violenta reazione “di rottura” verso il mondo conservatore dei molti Pentei a lui contemporanei (tra cui coloro che avevano condannato Teorema, non capendolo), gli «Infelici Molti»: «I Péntei italiani sono dei mediocri, dei meschini imbecilli, neanche degni di essere dilaniati dalle Menadi», scrive. Non so se la regia di Padrissa intenda ridare voce a questa interpretazione sessantottesca di Dioniso (non ho trovato indizi): quello che è certo è che il suo spettacolo consegna al pubblico le Baccanti di Padrissa, non di Euripide. Uscendo dal teatro, il pubblico commentava il grande effetto acrobatico del “coro aereo” appeso alla gru, esprimeva ammirazione per la potenza scenica di Lavia nei panni di Dioniso, ma anche ammetteva «non ho capito niente!».

Il senso della tragedia euripidea sfugge completamente, infatti. Sfugge anche come sia che il dio del teatro, in nome del quale le città antiche ed Atene in particolare si fermavano per celebrare riti e culti gioiosissimi, venga rappresentato come il protagonista di un’«orrenda carneficina» (parole di Pasolini) all’interno dell’ultima trilogia euripidea (Baccanti, Ifigenia in Aulide e Alcmeone a Corinto). Sfugge il doppio senso religioso-metateatrale (probabilmente ispirato dai culti orfico-dionisiaci della Macedonia, dove Euripide compose Baccanti) che attraversa tutta la vicenda. Seguendo l’interpretazione di un Dioniso demone perverso, non si capisce come sia possibile che la tragedia Baccanti abbia avuto fortuna nelle più antiche comunità cristiane, al punto che un centone cristiano (il Christus Patiens, si vedano Le Baccanti, a cura di V. Di Benedetto, Milano, RCS, 2004, pp. 65-67) utilizza alcuni versi della tragedia greca per esprimere il pianto di Maria sul corpo del Cristo. Anche l’autore degli Atti degli Apostoli e San Paolo sembrano aver ben presente Baccanti.


Un momento dello spettacolo
© Michele Pantano

Colpisce la disattenzione verso le didascalie interne del testo (una peculiarità del teatro antico), per cui la realizzazione scenica in molti casi non segue gli spunti offerti dai versi euripidei e in alcuni altri casi addirittura vi entra in conflitto. Ad esempio, sono del tutto assenti i colori e i simboli dionisiaci, sebbene vengano spesso nominati. Soprattutto, si perdono quei momenti di comicità assoluta che Euripide sapientemente insinua nel testo tragico, proprio attraverso le didascalie. Nel primo episodio viene meno l’effetto del parodistico, variopinto camuffamento bacchico di Tiresia e di Cadmo. Nel quarto episodio, invece, si perdono tutti i particolari dell’esilarante travestimento in menade di Penteo, preoccupato che il lungo peplo di bisso sia in posizione giusta rispetto al tallone, e incerto se tenere il tirso con la mano destra o sinistra (vv. 934-944): il Penteo “travestito” da baccante di Padrissa pronuncia questi versi, ma veste una dimessa giacchetta nera, una calzamaglia smagliata e non ha il tirso in mano.

Perdendo la comicità parodistica di queste scene, mi sembra che si perda la poetica tragicomica di Euripide (inventore del “genere misto”) che, se colta, può far luce su un sottotesto molto importante di Baccanti: Euripide (vv. 821, 830-835, 912-944) fa infatti agire Dioniso nei confronti di Penteo esattamente come Aristofane fa muovere Euripide quando traveste il Parente in Donne alle Tesmoforie, vv. 130-262 (commedia andata in scena qualche anno prima di Baccanti). Nel reciproco gioco parodistico tra i due poeti, l’allusione a un’assimilazione metateatrale di Dioniso/Euripide in Baccanti salta all’occhio, così come l’intreccio dei due generi teatrali.

L’allestimento di Padrissa, dunque, comunica inquietudine, paura, grandezza tragica dai toni violenti e perversi, suscita ammirazione per i giocosi giochi acrobatici a venti metri d’altezza, ma noi abbiamo perso Euripide.



Baccanti
cast cast & credits
 


Un momento dello spettacolo
© Maria Pia Ballarino


Si può vedere lo spettacolo su Rai Play
 
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