Teatro greco-romano di Siracusa,
18 agosto 2021 alle ore 20 con mezzaluna crescente in cielo: va in scena la ventiduesima
e penultima replica di Baccanti, capolavoro di Euripide, nella
traduzione di Guido Paduano, con la regia del catalano Carlus
Padrissa, uno dei fondatori della compagnia Fura dels Baus, famosa per una
teatralità che cerca un linguaggio coinvolgente per il pubblico, anticonformista,
provocatorio e talora scioccante. Siamo nel programma della 56a stagione
dellINDA, che nel 2021 ha ripreso con tre spettacoli la tradizione di rappresentazioni
estive, interrotta nel 2020 per la pandemia. Padrissa presenta nel teatro
greco-romano di Siracusa la messinscena di questa tragedia: prima di lui, Baccanti
andò in scena con le regie di Ettore Romagnoli (sia nel 1922 che nel
1950), Giancarlo Sbragia (1980), Walter Pagliaro (1998), Luca
Ronconi (2002) e Antonio Calenda (2012).
Gli attori (in ordine dingresso)
sono Lucia Lavia che interpreta Dioniso, Stefano Santospago per
Cadmo, Ivan Graziano per Penteo, Antonello Fassari per Tiresia, Spyros
Chamilos, Francesca Piccolo per il primo messaggero, Antonio
Bandiera per il secondo messaggero, Linda Gennari per Agave. Prende
spazio, in coerenza con le scelte registiche, anche il rapper Domenico
Lamparelli, che interpreta sé stesso. Le musiche e le scene sono di
Padrissa stesso. Per il Coro, non è semplice presentarne i protagonisti, non
solo per il loro grandissimo numero, ma soprattutto perché il regista non
rispetta il “copione” del testo euripideo, per cui nella Parodos
dovrebbero entrare in scena quindici baccanti dAsia, le fedeli seguaci di
Dioniso. Il testo euripideo non presenta le “altre” baccanti, che potremmo
considerare un secondo Coro, un coro “assente”, rappresentato delle donne
fuggite sul monte Citerone dopo aver abbandonato le proprie case nella città di
Tebe, di cui sentiamo però molto raccontare. Lunica baccante del monte
Citerone che prende direttamente parte alla vicenda tragica è il personaggio di
Agave, madre di Penteo, che compare in scena, in uno stato folle, nellEsodo (al
v. 1165).
Un momento dello spettacolo © Gianni Luigi Carnera
Euripide crea unavvincente trama
in cui le donne tebane, guidate da Agave (madre del sovrano Penteo), “da
impazzite” cercano libertà sul monte Citerone. La loro follia consiste nel non
credere affatto nella divinità di Dioniso, ma nel cercare lebrezza, la liberazione
da vincoli, il contatto diretto con la natura che dovrebbero essere propri delle
seguaci del dio (vv. 26-42, 664-774): agire da baccanti senza fede significa
cadere in uno stato di allucinazione. Il poeta fa dunque solo immaginare, ma
non fa mai apparire le baccanti “impazzite” (con leccezione di Agave,
nellEsodo, che arriva con il suo triste bottino di caccia: il figlio Penteo
che ha scambiato per una preda di caccia e smembrato). Il Coro delle baccanti
asiatiche, seguaci del dio e fedeli ai riti, si esprime invece sempre con
parole religiosamente arcaiche, piene di mistica sacralità, anche quando invoca
la vendetta del dio contro i sacrileghi. Il dubbio della critica è se il titolo
Baccanti faccia riferimento alle fedeli baccanti dAsia che vediamo in
scena o allaltro tipo di baccanti, quelle senza fede in Dioniso e deliranti
sul Citerone.
Nonostante queste indicazioni del
testo, Padrissa sceglie di inondare sin dallinizio la scena solo di baccanti “impazzite”,
in stato euforico, invasate e violente, cioè quel tipo di baccante che Euripide
descrive sì, ma che non fa mai comparire. A loro attribuisce anche le parole “mistiche”
delle baccanti dAsia. Il pubblico coglie, a livello interpretativo, lintenzione
del regista di comunicare lidea di un baccantismo liberatorio e demoniaco, come
fenomeno sociale che coinvolge lintera collettività (baccantismo di menadi del
Citerone, non dAsia). Il numero dei coreuti è stravolto: non quindici ma
cinquantacinque. Nellordine, entrano in scena prima due corifee con un coro di
otto baccanti; di seguito si anima un altro Coro “sospeso” da unelevatissima gru
quale macchina scenica, dove nellinsieme trentatré coreuti compiono ardite
coreografie acrobatiche; infine arriva un coro di dodici “cittadini”.
Coerentemente con questa idea, la
figura di Dioniso (interpretato con molto vigore da Lucia Lavia, che ha unefficace
controfigura quando nellEsodo è sospesa sulla macchina scenica) risulta
caratterizzata, per tutto il tempo, da unaggressiva animalità e una demoniaca ferocia:
in scena appare vestito con una corazza e non si scorge mai la potentissima, serafica
e ironica “mitezza” che nel testo euripideo ha quando perpetra la punizione
degli infedeli di Tebe, come ci saremmo aspettati soprattutto grazie a una
bionda femminile interprete. La peculiarità del Dioniso euripideo consiste
proprio nella sua straordinaria, divina “potenza” espressa senza armi, con
mitezza e modi di fare che potrebbero essere scambiati per femminili, eppure capace
di spezzare catene, scuotere la terra, far sì che siano confusi i pensieri di
chi non crede in lui.
Un momento dello spettacolo © Gianni Luigi Carnera Nella trama, gli atti violenti consistono
solo nelle azioni sconvolgenti perpetrate da chi non ha fede nel dio. Il
Dioniso di Lucia Lavia sembra invece essere sempre, dallinizio alla fine della
rappresentazione, il terribile demone metamorfizzante delle allucinazioni di
Penteo quando da “impazzito” crede di vedere la manifestazione teriomorfa del
dio (vv. 918-922). Lavia è certamente bravissima nel tenere alta, con coerenza
e potenza espressiva, per circa due ore e mezza linterpretazione di una perversità
ambigua e paurosa di un Dioniso “distruttore”. Al contrario Penteo, vittima
della vicenda tragica, entra in scena già come un personaggio debole
nellinterpretazione di Ivan Graziano. Nonostante il ruolo tirannico, non
compare “armato” (entra in scena con una semplice tunica), né leloquio esprime
la veemenza che i versi euripidei suggeriscono. Si perde, dunque, la finissima ideazione
di un carattere allinizio tirannico e aggressivo, poi reso debole dal suo
stesso desiderio di potere, per contrappasso: da spavaldo cacciatore, Euripide
lo tramuta in una miserevole preda, e proprio questa trasformazione rende ancor
più tragica la sua katastrophè finale.
Se ricordiamo Teorema di Pier Paolo Pasolini (1968),
accolto con perplessità dalla critica, rammentiamo anche come, in quel contesto,
Pasolini abbia elaborato la sua personale idea di dionisismo: un Dioniso
interpretato nei termini di una sovrumana e demoniaca irrazionalità distruttiva
dellordine umano. Non è questa la sede in cui possiamo approfondire il particolarissimo
contesto culturale, artistico e politico-sociale del Sessantotto, in cui il
regista elaborò tali idee, ma certo riconosciamo, nellamarezza delusa delle
sue parole, una violenta reazione “di rottura” verso il mondo conservatore dei
molti Pentei a lui contemporanei (tra cui coloro che avevano condannato Teorema,
non capendolo), gli «Infelici Molti»: «I Péntei italiani sono dei mediocri, dei
meschini imbecilli, neanche degni di essere dilaniati dalle Menadi», scrive.
Non so se la regia di Padrissa intenda ridare voce a questa interpretazione
sessantottesca di Dioniso (non ho trovato indizi): quello che è certo è che il
suo spettacolo consegna al pubblico le Baccanti di Padrissa, non di
Euripide. Uscendo dal teatro, il pubblico commentava il grande effetto
acrobatico del “coro aereo” appeso alla gru, esprimeva ammirazione per la potenza
scenica di Lavia nei panni di Dioniso, ma anche ammetteva «non ho capito niente!».
Il senso della tragedia euripidea
sfugge completamente, infatti. Sfugge anche come sia che il dio del teatro, in
nome del quale le città antiche ed Atene in particolare si fermavano per
celebrare riti e culti gioiosissimi, venga rappresentato come il protagonista
di un«orrenda carneficina» (parole di Pasolini) allinterno dellultima
trilogia euripidea (Baccanti, Ifigenia in Aulide e Alcmeone a
Corinto). Sfugge il doppio senso religioso-metateatrale (probabilmente
ispirato dai culti orfico-dionisiaci della Macedonia, dove Euripide compose Baccanti)
che attraversa tutta la vicenda. Seguendo linterpretazione di un Dioniso
demone perverso, non si capisce come sia possibile che la tragedia Baccanti
abbia avuto fortuna nelle più antiche comunità cristiane, al punto che un
centone cristiano (il Christus Patiens, si vedano Le Baccanti, a
cura di V. Di Benedetto, Milano, RCS, 2004, pp. 65-67) utilizza alcuni versi della
tragedia greca per esprimere il pianto di Maria sul corpo del Cristo. Anche
lautore degli Atti degli Apostoli e San Paolo sembrano aver ben
presente Baccanti.
Un momento dello spettacolo © Michele Pantano Colpisce la disattenzione verso le
didascalie interne del testo (una peculiarità del teatro antico), per cui la realizzazione
scenica in molti casi non segue gli spunti offerti dai versi euripidei e in
alcuni altri casi addirittura vi entra in conflitto. Ad esempio, sono del tutto
assenti i colori e i simboli dionisiaci, sebbene vengano spesso nominati.
Soprattutto, si perdono quei momenti di comicità assoluta che Euripide sapientemente
insinua nel testo tragico, proprio attraverso le didascalie. Nel primo episodio
viene meno leffetto del parodistico, variopinto camuffamento bacchico di
Tiresia e di Cadmo. Nel quarto episodio, invece, si perdono tutti i particolari
dellesilarante travestimento in menade di Penteo, preoccupato che il lungo
peplo di bisso sia in posizione giusta rispetto al tallone, e incerto se tenere
il tirso con la mano destra o sinistra (vv. 934-944): il Penteo “travestito” da
baccante di Padrissa pronuncia questi versi, ma veste una dimessa giacchetta
nera, una calzamaglia smagliata e non ha il tirso in mano.
Perdendo la comicità parodistica
di queste scene, mi sembra che si perda la poetica tragicomica di Euripide
(inventore del “genere misto”) che, se colta, può far luce su un sottotesto
molto importante di Baccanti: Euripide (vv. 821, 830-835, 912-944) fa infatti
agire Dioniso nei confronti di Penteo esattamente come Aristofane fa muovere
Euripide quando traveste il Parente in Donne alle Tesmoforie, vv. 130-262 (commedia andata in scena qualche anno prima di Baccanti). Nel reciproco gioco parodistico
tra i due poeti, lallusione a unassimilazione metateatrale di Dioniso/Euripide
in Baccanti salta allocchio, così come lintreccio dei due generi
teatrali.
Lallestimento di Padrissa,
dunque, comunica inquietudine, paura, grandezza tragica dai toni violenti e
perversi, suscita ammirazione per i giocosi giochi acrobatici a venti metri
daltezza, ma noi abbiamo perso Euripide.
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