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L'architettura della musica

di Paolo Patrizi
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Data di pubblicazione su web 30/08/2021  

Festeggiamenti per un novantunenne, epicedio per un sessantottenne. Il Rossini Opera Festival si apre all’insegna di queste due polarità, enfatizzate dal titolo inaugurale prescelto. Benché mai più ripresa dopo una manciata di recite nel 1997, Moïse et Pharaon fu a Pesaro una delle regie più memorabili di Graham Vick, che a luglio si è congedato prematuramente dai suoi ammiratori e detrattori (ma quello spettacolo, innovativo senza bisogno delle provocazioni che talvolta gli prendevano la mano, incantò gli uni e gli altri). A questo capolavoro del Rossini “francese” approda ora Pier Luigi Pizzi, giovanotto nato nel giugno 1930 alla cui indefessa militanza rossiniana il Moïse mancava ancora, con uno spettacolo che il Rof avrebbe voluto affidargli già l’anno scorso per festeggiarne il novantesimo genetliaco, se il Covid non avesse rivoluzionato ogni programma. D’altronde, in annate pionieristiche del festival pesarese (1983-1985), fu Mosè in Egitto – la primigenia versione italiana di quest’opera, composta da Rossini nove anni prima di quella parigina – uno dei primi memorabili spettacoli di Pizzi: sicché il gioco dei corsi e ricorsi storici continua.

Al contrario di Vick, pure a un Pizzi quaranta o cinquantenne sarebbe stato arduo chiedere una regia capace di “riscrivere” la drammaturgia dell’opera. Dunque è ingeneroso sostenere, anche se qualcuno l’ha detto, che questo Moïse denuncia tutta l’età anagrafica del suo metteur en scène: piuttosto, conferma con coerenza l’estetica di un uomo di spettacolo per il quale la dimensione illustrativa, e con essa la chiarezza del racconto, vengono prima di qualsiasi Konzept; e che il mondo di Pizzi attenga all’arte della scenografia prima che quella della regia non è una deminutio, ma semplicemente un fatto testimoniato dal proprio vissuto professionale (scenografo dai primi anni Cinquanta, regista dai tardi anni Settanta). Poi, certo, si potrà dire che i budget contenuti, inevitabili nei nostri tempi di vacche magre, ad allestimenti come i suoi giovano poco. “Artigiano” più che “autore”, sì, ma di un artigianato sontuoso, Pizzi non è uno di quei registi ai quali la scarsezza dei mezzi acuisce l’ingegno. Sotto tale profilo il suo vecchio Mosè in Egitto, realizzato in anni dove le vacche grasse invece abbondavano, era visivamente più appagante di questo Moïse et Pharaon.


Un momento dello spettacolo
© Studio Amati Bacciardi

Tuttavia è proprio la marcata componente architettonica del Pizzi scenografo a consentire una corretta visione drammaturgica – forse perfino una riflessione ermeneutica – intorno al Rossini “parigino”, alle differenze tra Mosè e Moïse. Se il taglio oratoriale, prima ancora che operistico, del Mosè in Egitto si sostanzia in una sorta di scultoreo monoblocco (i singoli brani restano ben enucleabili, ma la forza centripeta della rigorosa struttura rossiniana li fa convergere verso una superiore unitarietà), la più ampia monumentalità del Moïse et Pharaon procede invece per via di paratassi (minuziosa articolazione di ogni snodo drammatico, parentesi coreografiche ineludibili quand’anche esornative). Pizzi tutto questo lo restituisce benissimo, grazie a una scenografia stilizzata ma che va per accumuli, stratificandosi in senso verticale quanto invece il suo vecchio Mosè in Egitto – palesando tutta la severa compattezza di quella drammaturgia musicale – si dipanava in una plastica orizzontalità.

Uscita dalla porta del Pizzi regista, la riflessione drammaturgica rientra dunque dalla finestra del Pizzi scenografo. Ma anche la regia in senso stretto – pur penalizzata da video che risolvono in modo naïf i grandi momenti spettacolari della pioggia di fuoco e dell’apertura del Mar Rosso – non demerita, dipanandosi sul crinale di una dialettica tra il moderno e il senza tempo; ed è un lampo di pudica efficacia il sottofinale con quelle silhouette che, travalicando il dato biblico, evocano (ma con discrezione, senza calligrafismi o didatticismi) le più orrende persecuzioni del “secolo breve”. A funzionar male, semmai, sono le coreografie di Gheorghe Iancu: ginnicamente dimostrative, di un moderno aproblematico in collisione con quel classico-moderno che è la cifra di Pizzi e, in definitiva, tali da appesantire la limpidezza guizzante con cui Rossini, in questa partitura, aggira il “pedaggio” parigino delle danze.


Un momento dello spettacolo
© Studio Amati Bacciardi

Se la messinscena sa cogliere visivamente quanto suggerito dalla musica, tale consapevolezza architettonica è mancata purtroppo alla bacchetta. L’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai sfoggia, del suo, sonorità di gran pregio; ma sin dall’ouverture appare chiaro come, a fronte di tali intrinseche qualità foniche, dal podio ben poco venga aggiunto in termini di articolazione e fraseggio. Giacomo Sagripanti imprime scarsa duttilità dinamica, la dialettica tensione-distensione (quegli inopinati indugi con cui il Rossini delle opere francesi rallenta ad arte la tensione drammatica) si stempera in una narrazione di breve respiro. E gli accompagnamenti vocali mostrano un’indifferente genericità, con un colpo al cerchio del belcanto e l’altro alla botte del declamato, anziché approdare a quella sintesi tra i due linguaggi che è uno dei risultati più alti del Moïse.

Il cast d’altronde appare ondivago, con un fronte femminile agguerritissimo e un reparto maschile meno probante. Eleonora Buratto non è una specialista rossiniana: la stessa natura del suo strumento, più portato alle frasi ampie e legate che al canto di agilità, sembra impedirglielo. Tuttavia, il personaggio di Anaï le sta a pennello. Siamo al cospetto di un soprano lirico nel senso più completo e opulento del termine, eccellente nell’estensione – la scrittura del ruolo flirta con la tessitura mezzosopranile – e morbidissima nell’emissione, dove il fantasma di Mirella Freni (che mai affrontò il Moïse, ma trovò uno dei propri esiti più alti nel Rossini francese del Guillaume Tell) più che un generico riferimento è un’autentica stella polare. E questa fanciulla ebrea severa, quasi claustrale, eppure d’una sensualità tanto più repressa quanto più catturante, resta nell’incarnazione della Buratto una prova memorabile anche sul piano strettamente interpretativo.

L’amplissima estensione – qui si arriva al soprano partendo dal mezzosoprano, anziché viceversa – caratterizza pure Vasilisa Berzhanskaya: un’ampiezza, nel suo caso, che non si traduce nella formidabile omogeneità di canto della collega italiana e si fa latrice, piuttosto, di fertili disuguaglianze (gli affondi di petto suonano scurissimi e contraltili), molto efficaci nel ritrarre l’anima divisa in due della faraonessa Sinaïde, di volta in volta mater dolorosa o orgogliosa donna di potere. Tra acuti sciabolanti, “pianissimi” perfettamente sostenuti e agilità “di forza” ma governate al millimetro, la sua grande aria del secondo atto è stata – almeno alla prova generale cui fa riferimento questa recensione – il momento di gran lunga più applaudito dello spettacolo.


Un momento dello spettacolo
© Studio Amati Bacciardi

Detto che le vestigia di Monica Bacelli (voce usurata, classe intatta) assicurano rilievo al breve ruolo di Marie, restano gli interpreti maschili. Il Mosè di Roberto Tagliavini è un profeta giovanile, autorevole forse per l’energia più che per la saggezza, non a caso a suo agio nel gran declamato iniziale piuttosto che nel pulviscolare “legato” della Preghiera. Gli si contrappone – ma per Rossini si tratta di un coprotagonismo solo nominale – il Faraone di Erwin Schrott: recitazione grintosa (molto esteriore, però) e canto sempre sonoro (anche se il basso-baritono in lui cede il passo al baritono tout court), al servizio di un’interpretazione robusta, compiaciuta, alla lunga monotona.

Quanto al comparto tenorile, Aménophis è parte improba e acutissima, laddove Éliézer viene confinato in quel limbo del “secondo tenore” di modeste soddisfazioni per l’artista e gli spettatori. Qui invece è quest’ultimo a conquistare l’attenzione: Alexey Tatarintsev se lo merita, perché la sua arte del porgere, si tratti del declamatorio racconto del primo atto o degli squarci cantabili successivi, appare sempre fine, puntuale, appiombata. Che però il tenore-spalla sopravanzi il tenore-protagonista scompagina le carte e, d’altronde, già a dare un’occhiata ai curricula (molti cimenti importanti nella carriera di Tatarintsev, più all’insegna dei comprimariati quella di Andrew Owens) serpeggiava l’impressione che nelle scelte del Rof qualcosa non avesse funzionato. Certo: scopo di un festival è anche promuovere un comprimario a mattatore, così come per un artista la distinzione tra parti grandi e meno grandi non dovrebbe esistere. Sta di fatto che il buon Owens, del ruolo affidatogli, avrà pure avuto le note. Ma proprio solo quelle.




Moïse et Pharaon



cast cast & credits
 
trama trama



Un momento dello spettacolo visto al Rossini Opera Festival di Pesaro il 6 agosto 2021

© Studio Amati Bacciardi

 
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