Festeggiamenti per un novantunenne, epicedio per un
sessantottenne. Il Rossini Opera Festival si apre allinsegna di queste due
polarità, enfatizzate dal titolo inaugurale prescelto. Benché mai più ripresa
dopo una manciata di recite nel 1997, Moïse et Pharaon fu a Pesaro una
delle regie più memorabili di Graham Vick, che a luglio si è
congedato prematuramente dai suoi ammiratori e detrattori (ma quello
spettacolo, innovativo senza bisogno delle provocazioni che talvolta gli
prendevano la mano, incantò gli uni e gli altri). A questo capolavoro del Rossini
“francese” approda ora Pier Luigi Pizzi, giovanotto nato
nel giugno 1930 alla cui indefessa militanza rossiniana il Moïse mancava
ancora, con uno spettacolo che il Rof avrebbe voluto affidargli già lanno
scorso per festeggiarne il novantesimo genetliaco, se il Covid non avesse
rivoluzionato ogni programma. Daltronde, in annate pionieristiche del festival
pesarese (1983-1985), fu Mosè in Egitto – la primigenia versione
italiana di questopera, composta da Rossini nove anni prima di quella parigina
– uno dei primi memorabili spettacoli di Pizzi: sicché il gioco dei corsi e
ricorsi storici continua.
Al contrario di Vick, pure a un Pizzi quaranta o
cinquantenne sarebbe stato arduo chiedere una regia capace di “riscrivere” la
drammaturgia dellopera. Dunque è ingeneroso sostenere, anche se qualcuno lha detto,
che questo Moïse denuncia tutta letà anagrafica del suo metteur en scène: piuttosto, conferma con coerenza lestetica di un uomo di spettacolo
per il quale la dimensione illustrativa, e con essa la chiarezza del racconto, vengono
prima di qualsiasi Konzept; e che il mondo di Pizzi attenga allarte
della scenografia prima che quella della regia non è una deminutio, ma
semplicemente un fatto testimoniato dal proprio vissuto professionale
(scenografo dai primi anni Cinquanta, regista dai tardi anni Settanta). Poi,
certo, si potrà dire che i budget contenuti, inevitabili nei nostri
tempi di vacche magre, ad allestimenti come i suoi giovano poco. “Artigiano”
più che “autore”, sì, ma di un artigianato sontuoso, Pizzi non è uno di quei
registi ai quali la scarsezza dei mezzi acuisce lingegno. Sotto tale profilo
il suo vecchio Mosè in Egitto, realizzato in anni dove le vacche grasse
invece abbondavano, era visivamente più appagante di questo Moïse et Pharaon.
Un momento dello spettacolo © Studio Amati Bacciardi
Tuttavia è proprio la marcata componente
architettonica del Pizzi scenografo a consentire una corretta visione
drammaturgica – forse perfino una riflessione ermeneutica – intorno al Rossini
“parigino”, alle differenze tra Mosè e Moïse. Se il taglio
oratoriale, prima ancora che operistico, del Mosè in Egitto si sostanzia
in una sorta di scultoreo monoblocco (i singoli brani restano ben enucleabili, ma
la forza centripeta della rigorosa struttura rossiniana li fa convergere verso
una superiore unitarietà), la più ampia monumentalità del Moïse et Pharaon
procede invece per via di paratassi (minuziosa articolazione di ogni snodo
drammatico, parentesi coreografiche ineludibili quandanche esornative). Pizzi
tutto questo lo restituisce benissimo, grazie a una scenografia stilizzata ma che
va per accumuli, stratificandosi in senso verticale quanto invece il suo
vecchio Mosè in Egitto – palesando tutta la severa compattezza di quella
drammaturgia musicale – si dipanava in una plastica orizzontalità.
Uscita dalla porta del Pizzi regista, la
riflessione drammaturgica rientra dunque dalla finestra del Pizzi scenografo.
Ma anche la regia in senso stretto – pur penalizzata da video che risolvono in
modo naïf i grandi momenti spettacolari della pioggia di fuoco e
dellapertura del Mar Rosso – non demerita, dipanandosi sul crinale di una dialettica
tra il moderno e il senza tempo; ed è un lampo di pudica efficacia il
sottofinale con quelle silhouette che, travalicando il dato biblico,
evocano (ma con discrezione, senza calligrafismi o didatticismi) le più orrende
persecuzioni del “secolo breve”. A funzionar male, semmai, sono le coreografie
di Gheorghe Iancu: ginnicamente dimostrative, di un moderno
aproblematico in collisione con quel classico-moderno che è la cifra di Pizzi
e, in definitiva, tali da appesantire la limpidezza guizzante con cui Rossini,
in questa partitura, aggira il “pedaggio” parigino delle danze.
Un momento dello spettacolo © Studio Amati Bacciardi
Se la messinscena sa cogliere visivamente quanto suggerito
dalla musica, tale consapevolezza architettonica è mancata purtroppo alla
bacchetta. LOrchestra Sinfonica Nazionale della Rai sfoggia, del suo, sonorità
di gran pregio; ma sin dallouverture appare chiaro come, a fronte di
tali intrinseche qualità foniche, dal podio ben poco venga aggiunto in termini
di articolazione e fraseggio. Giacomo Sagripanti imprime scarsa
duttilità dinamica, la dialettica tensione-distensione (quegli inopinati indugi
con cui il Rossini delle opere francesi rallenta ad arte la tensione
drammatica) si stempera in una narrazione di breve respiro. E gli
accompagnamenti vocali mostrano unindifferente genericità, con un colpo al
cerchio del belcanto e laltro alla botte del declamato, anziché approdare a
quella sintesi tra i due linguaggi che è uno dei risultati più alti del Moïse.
Il cast daltronde appare ondivago, con un
fronte femminile agguerritissimo e un reparto maschile meno probante. Eleonora
Buratto non è una specialista rossiniana: la stessa natura del suo
strumento, più portato alle frasi ampie e legate che al canto di agilità, sembra
impedirglielo. Tuttavia, il personaggio di Anaï le sta a pennello. Siamo al
cospetto di un soprano lirico nel senso più completo e opulento del termine, eccellente
nellestensione – la scrittura del ruolo flirta con la tessitura mezzosopranile
– e morbidissima nellemissione, dove il fantasma di Mirella Freni
(che mai affrontò il Moïse, ma trovò uno dei propri esiti più alti nel
Rossini francese del Guillaume Tell) più che un generico riferimento è
unautentica stella polare. E questa fanciulla ebrea severa, quasi claustrale,
eppure duna sensualità tanto più repressa quanto più catturante, resta nellincarnazione
della Buratto una prova memorabile anche sul piano strettamente interpretativo.
Lamplissima estensione – qui si arriva al soprano
partendo dal mezzosoprano, anziché viceversa – caratterizza pure Vasilisa
Berzhanskaya: unampiezza, nel suo caso, che non si traduce nella
formidabile omogeneità di canto della collega italiana e si fa latrice,
piuttosto, di fertili disuguaglianze (gli affondi di petto suonano scurissimi e
contraltili), molto efficaci nel ritrarre lanima divisa in due della faraonessa
Sinaïde, di volta in volta mater dolorosa o orgogliosa donna di potere. Tra
acuti sciabolanti, “pianissimi” perfettamente sostenuti e agilità “di forza” ma
governate al millimetro, la sua grande aria del secondo atto è stata – almeno
alla prova generale cui fa riferimento questa recensione – il momento di gran
lunga più applaudito dello spettacolo.
Un momento dello spettacolo © Studio Amati Bacciardi
Detto che le vestigia di Monica Bacelli
(voce usurata, classe intatta) assicurano rilievo al breve ruolo di Marie,
restano gli interpreti maschili. Il Mosè di Roberto Tagliavini è
un profeta giovanile, autorevole forse per lenergia più che per la saggezza,
non a caso a suo agio nel gran declamato iniziale piuttosto che nel pulviscolare
“legato” della Preghiera. Gli si contrappone – ma per Rossini si tratta di un
coprotagonismo solo nominale – il Faraone di Erwin Schrott: recitazione
grintosa (molto esteriore, però) e canto sempre sonoro (anche se il
basso-baritono in lui cede il passo al baritono tout court), al
servizio di uninterpretazione robusta, compiaciuta, alla lunga monotona.
Quanto al comparto tenorile, Aménophis è parte
improba e acutissima, laddove Éliézer viene confinato in quel limbo del
“secondo tenore” di modeste soddisfazioni per lartista e gli spettatori. Qui
invece è questultimo a conquistare lattenzione: Alexey Tatarintsev
se lo merita, perché la sua arte del porgere, si tratti del declamatorio
racconto del primo atto o degli squarci cantabili successivi, appare sempre
fine, puntuale, appiombata. Che però il tenore-spalla sopravanzi il tenore-protagonista
scompagina le carte e, daltronde, già a dare unocchiata ai curricula (molti
cimenti importanti nella carriera di Tatarintsev, più allinsegna dei
comprimariati quella di Andrew Owens) serpeggiava limpressione
che nelle scelte del Rof qualcosa non avesse funzionato. Certo: scopo di un
festival è anche promuovere un comprimario a mattatore, così come per un
artista la distinzione tra parti grandi e meno grandi non dovrebbe esistere. Sta
di fatto che il buon Owens, del ruolo affidatogli, avrà pure avuto le note. Ma
proprio solo quelle.
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