drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti
cerca in vai

Celeste Aida, oro nero

di Paolo Patrizi
  .
Data di pubblicazione su web 30/08/2021  

L’Aida “del centenario” con cui lo Sferisterio di Macerata ha solennizzato il suo primo secolo di vita musicale (nel luglio 1921 la semicircolare arena neoclassica di Ireneo Aleandri si aprì all’opera lirica grazie proprio al capolavoro verdiano) è un’Aida molto “egiziana”, nell’ottica della regista Valentina Carrasco, ma tutt’altro che nel senso oleografico del termine. Per la teatrante argentina il bric-à-brac dell’esotismo di tradizione non potrebbe essere più lontano, questo è pacifico; eppure, nella sua messinscena, non c’è nemmeno traccia di modernizzazioni forzate, né di minimalismi gratuiti (Aida è più intima che kolossal, questo negli ultimi tempi lo riconosceva pure Zeffirelli, ma dove anche nei momenti più raccolti si pensa comunque in grande). Soprattutto, emerge un gran senso drammaturgico: al contrario dei suoi ex compagni della Fura dels Baus, la Carrasco è sensibile alla musa del teatro piuttosto che a quella dell’installazione. La visualità resta di quelle “forti”, però mai fine a sé stessa (vedi ancora la vecchia Fura), anzi ponendosi sempre al servizio della storia. E questa sua teatralità artigianale e materica, questa plasticità nel dar rilievo a ogni carattere, è un valore aggiunto anche per Verdi: il quale, a ben vedere, fece di Aida più un oratorio sinfonico-corale che un’opera-opera, dove i personaggi – caso raro nella parabola verdiana – non conoscono evoluzioni psicologiche, rimanendo graniticamente uguali dall’inizio alla fine.


Un momento dello spettacolo
© Studio Tabocchini Zanconi

Cosa escogitano la Carrasco e i suoi collaboratori (lo scenografo Carles Berga modula l’enorme palcoscenico dello Sferisterio con abile dialettica di pieni e di vuoti, il coreografo Massimiliano Volpini traduce in danza molti momenti al di là dei tradizionali ballabili)? Nulla più che l’applicazione dell’aureo precetto di Reynaldo Hahn per il quale, quando si assiste a un’opera, noi spettatori “diventiamo” il momento in cui l’opera stessa fu composta. Dunque niente pedisseque fedeltà all’ambientazione storica del libretto, ma neppure artificiose pretese di trasformare Aida e Radames in figure di oggi: lo spettacolo ci restituisce l’Egitto visto con gli occhi di Verdi e dei suoi contemporanei, l’Africa degli esploratori del tardo Ottocento e dei primi colonizzatori, una terra – insomma – come poteva venir letta dalla colta borghesia italiana degli anni in cui Aida vide la luce. Il tutto senza rigide contestualizzazioni, bensì fluttuando attraverso una manciata di decenni dove lo sfruttamento imperialista si farà via via sentire di più: diciamo da quel 1871 in cui l’opera fu tenuta a battesimo al Cairo a quel 1921 nel quale lo Sferisterio offrì ai maceratesi la sua prima Aida. È mezzo secolo, ma senza brusche sterzate diacroniche: merito dei costumi di Silvia Aymonino, che lasciano convivere senza stridori quel Radames con panama in testa e mappa geografica in mano insieme agli ombrellini belle époque di Amneris e del suo gineceo.

In questa prospettiva, il mastodontico oleodotto in cui si sostanzia la Scena del Trionfo – e che da quel momento resterà la scatola scenica in cui far muovere ogni personaggio – è un gigantesco “segno” teatrale, prima ancora d’una metafora politica. Certo, i barili di oro nero rotolano trasportati dalle popolazioni conquistate e sottomesse (un modo anche ironico di risolvere le danze del secondo atto), mentre i generosi uomini del protettorato colonizzatore sventolano ramoscelli di ulivo dopo aver pestato a morte un ultimo rivoltoso: tuttavia, per la Carrasco, più che la denuncia del messaggio è la sua forza poetica a contare davvero. Ecco dunque l’oleodotto, quando Amneris prega gli dei che gli restituiscano l’amore di Radames, trasformarsi in un’epifania di fiammelle: ideale controcanto di quegli spiriti della natura che – due atti prima – avevano puntellato la scena del Tempio di Fthà (le dune che si animano grazie a mimi avvolti in teli color sabbia è un colpo di teatro stupefacente). Ed ecco il petrolio assumere, al di là del j’accuse politico, un retrogusto catartico mentre nell’epilogo inizia gradualmente a dilagare, surrogando – si presume – «la fatal pietra» nell’opera di sepoltura dei due protagonisti.


Un momento dello spettacolo
© Studio Tabocchini Zanconi

Indipendentemente dal variabile valore dei singoli (il cast va dal buono al deludente), sul fronte canoro invece non siamo in Egitto: siamo a Babele. Ciascuno degli interpreti sembra cantare la “sua” Aida. Qui però entrano in gioco le responsabilità del concertatore, la sua incapacità di approntare una “regia vocale”. Preoccupato di far quadrare troppi altri conti (la pandemia ha imposto distanziamento tra gli orchestrali e un loro relativo sfoltimento numerico, senza contare che l’acustica all’aperto è da sempre quello che è), Francesco Lanzillotta lascia carta bianca – almeno di fatto, magari le intenzioni erano altre – ai suoi interpreti. Dunque si ascoltano, nella stessa serata, un’Aida sul solco della tradizione “areniana” e “caracalliana”, un Radames lirico-minimalista e un’Amneris quasi espressionista o, almeno, incline più al recitar cantando che al cantar recitando.

È comunque quest’ultima – Veronica Simeoni – l’artista più rodata. Right or wrong, la sua Amneris tutta giocata sul pedale isterico-nevrotico, latrice di un personaggio con cui è difficile entrare in empatia (Verdi non sarebbe stato d’accordo), ha un’indubbia incisività di resa: antimusicale ma teatralissimo, l’urlo da belva ferita su cui apre l’ultimo atto – uno degli effetti più forti della regia della Carrasco – è un momento che non si dimentica facilmente. E le stesse asprezze di emissione, inevitabile corollario di un’interpretazione di tal segno, faranno rimpiangere interpretazioni meno moderne e vocalmente più appaganti, ma tornano comunque utili: mascherano le crepe, soprattutto timbriche, di uno strumento che nonostante la giovane età suona già piuttosto usurato.


Un momento dello spettacolo
© Studio Tabocchini Zanconi

Luciano Ganci mira a un Radames antieroico o, almeno, eroe per caso. Più esploratore che condottiero, appunto. Glielo suggeriscono molteplici fattori: la voce di gradevole brillantezza, ma acconcia a una tenorilità meno spinta di quella che il ruolo, in più momenti, richiederebbe; una propensione a sviscerare la “parola scenica” piuttosto che abbandonarsi al flusso del canto; lo stesso aspetto fisico, prestante eppure un po’ sovrappeso. Poteva scaturirne un personaggio più “fraseggiato” che “cantato”: l’esito, però, non è andato oltre a un porgere arzigogolato di molte battute – il recitativo di Celeste Aida, il terzetto del primo atto – e a un’emissione laboriosa che (sulla scia del Radames di Jonas Kaufmann?) risolve in falsetto molte mezzevoci. Considerando che i momenti migliori sono stati, soprattutto negli ultimi due atti, quelli in cui Ganci si è più lasciato andare a “fare il tenore”, il consiglio sarebbe quello di ricalibrare a fondo il personaggio. Si è trattato d’altronde di un debutto: quindi, se crede, ne avrà ancora il tempo.

Al contrario dei due colleghi, Maria Teresa Leva è una protagonista nel solco della tradizione. Senza scomodare paragoni impossibili, viene da pensare a certe commendevoli nostre Aide degli anni Settanta: Orianna Santunione, Rita Orlandi Malaspina, tutte professioniste caratterizzate – e la giovane protagonista messa in campo dallo Sferisterio sembra essere di questa pasta – da un timbro non troppo nobile, sorretto tuttavia da un’emissione sicurissima. Ne fa fede, nel caso della Leva, soprattutto il dominio davvero eccellente dei “pianissimi”. Anche Marco Caria è un Amonasro tradizionale, come intenzioni; la voce, più voluminosa che realmente capace di espandersi, non è però gestita altrettanto bene, sebbene il congruo timbro di baritono scuro risolva molto. Poco a fuoco il Ramfis di Alessio Cacciamani, mentre la sacerdotessa di Maritina Tampakopoulos è un cammeo prezioso e ipnotico.

Il tutto, come si diceva, sotto la bacchetta di Lanzillotta. Il quale, dopo un preludio che tenta di sopperire con una certa ricchezza agogica alla relativa povertà dinamica della volenterosa Orchestra Filarmonica Marchigiana, sigla una direzione tradizionale, equilibrata – anche se il versante cerimoniale-sacerdotale resta un po’ troppo sottotono – e molto ben servita dal sonoro e appiombatissimo Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini” istruito da Martino Faggiani. Al termine festeggiamento da un pubblico distanziato, ma caloroso come in tempi prepandemici.



Aida



cast cast & credits
 
trama trama



Un momento dello spettacolo visto all'Arena Sferisterio di Macerata il 23 luglio 2021

© Studio Tabocchini Zanconi

 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013