LAida “del centenario”
con cui lo Sferisterio di Macerata ha solennizzato il suo primo secolo di vita musicale
(nel luglio 1921 la semicircolare arena neoclassica di Ireneo Aleandri si
aprì allopera lirica grazie proprio al capolavoro verdiano) è unAida
molto “egiziana”, nellottica della regista Valentina Carrasco,
ma tuttaltro che nel senso oleografico del termine. Per la teatrante argentina
il bric-à-brac dellesotismo di tradizione non potrebbe essere più lontano,
questo è pacifico; eppure, nella sua messinscena, non cè nemmeno traccia di
modernizzazioni forzate, né di minimalismi gratuiti (Aida è più intima
che kolossal, questo negli ultimi tempi lo riconosceva pure Zeffirelli,
ma dove anche nei momenti più raccolti si pensa comunque in grande). Soprattutto,
emerge un gran senso drammaturgico: al contrario dei suoi ex compagni della
Fura dels Baus, la Carrasco è sensibile alla musa del teatro piuttosto che a
quella dellinstallazione. La visualità resta di quelle “forti”, però mai fine
a sé stessa (vedi ancora la vecchia Fura), anzi ponendosi sempre al servizio
della storia. E questa sua teatralità artigianale e materica, questa plasticità
nel dar rilievo a ogni carattere, è un valore aggiunto anche per Verdi: il
quale, a ben vedere, fece di Aida più un oratorio sinfonico-corale che
unopera-opera, dove i personaggi caso raro nella parabola verdiana non
conoscono evoluzioni psicologiche, rimanendo graniticamente uguali dallinizio
alla fine.
Un momento dello spettacolo © Studio Tabocchini Zanconi
Cosa escogitano la Carrasco e i suoi collaboratori (lo
scenografo Carles Berga modula lenorme palcoscenico dello Sferisterio con
abile dialettica di pieni e di vuoti, il coreografo Massimiliano Volpini
traduce in danza molti momenti al di là dei tradizionali ballabili)? Nulla più
che lapplicazione dellaureo precetto di Reynaldo Hahn per il quale,
quando si assiste a unopera, noi spettatori “diventiamo” il momento in cui
lopera stessa fu composta. Dunque niente pedisseque fedeltà allambientazione
storica del libretto, ma neppure artificiose pretese di trasformare Aida e
Radames in figure di oggi: lo spettacolo ci restituisce lEgitto visto con gli
occhi di Verdi e dei suoi contemporanei, lAfrica degli esploratori del tardo
Ottocento e dei primi colonizzatori, una terra insomma come poteva venir
letta dalla colta borghesia italiana degli anni in cui Aida vide la
luce. Il tutto senza rigide contestualizzazioni, bensì fluttuando attraverso
una manciata di decenni dove lo sfruttamento imperialista si farà via via sentire
di più: diciamo da quel 1871 in cui lopera fu tenuta a battesimo al Cairo a
quel 1921 nel quale lo Sferisterio offrì ai maceratesi la sua prima Aida.
È mezzo secolo, ma senza brusche sterzate diacroniche: merito dei costumi di Silvia
Aymonino, che lasciano convivere senza stridori quel Radames con panama
in testa e mappa geografica in mano insieme agli ombrellini belle époque
di Amneris e del suo gineceo.
In questa prospettiva, il mastodontico oleodotto in
cui si sostanzia la Scena del Trionfo e che da quel momento resterà la
scatola scenica in cui far muovere ogni personaggio è un gigantesco “segno”
teatrale, prima ancora duna metafora politica. Certo, i barili di oro nero
rotolano trasportati dalle popolazioni conquistate e sottomesse (un modo anche
ironico di risolvere le danze del secondo atto), mentre i generosi uomini del
protettorato colonizzatore sventolano ramoscelli di ulivo dopo aver pestato a
morte un ultimo rivoltoso: tuttavia, per la Carrasco, più che la denuncia del
messaggio è la sua forza poetica a contare davvero. Ecco dunque loleodotto,
quando Amneris prega gli dei che gli restituiscano lamore di Radames, trasformarsi
in unepifania di fiammelle: ideale controcanto di quegli spiriti della natura
che due atti prima avevano puntellato la scena del Tempio di Fthà (le dune
che si animano grazie a mimi avvolti in teli color sabbia è un colpo di teatro
stupefacente). Ed ecco il petrolio assumere, al di là del jaccuse
politico, un retrogusto catartico mentre nellepilogo inizia gradualmente a
dilagare, surrogando si presume «la fatal pietra» nellopera di sepoltura
dei due protagonisti.
Un momento dello spettacolo © Studio Tabocchini Zanconi
Indipendentemente dal variabile valore dei singoli
(il cast va dal buono al deludente), sul fronte canoro invece non siamo in
Egitto: siamo a Babele. Ciascuno degli interpreti sembra cantare la “sua” Aida.
Qui però entrano in gioco le responsabilità del concertatore, la sua incapacità
di approntare una “regia vocale”. Preoccupato di far quadrare troppi altri
conti (la pandemia ha imposto distanziamento tra gli orchestrali e un loro
relativo sfoltimento numerico, senza contare che lacustica allaperto è da
sempre quello che è), Francesco Lanzillotta lascia carta bianca
almeno di fatto, magari le intenzioni erano altre ai suoi interpreti. Dunque
si ascoltano, nella stessa serata, unAida sul solco della tradizione
“areniana” e “caracalliana”, un Radames lirico-minimalista e unAmneris quasi
espressionista o, almeno, incline più al recitar cantando che al cantar
recitando.
È comunque questultima Veronica Simeoni
lartista più rodata. Right or wrong, la sua Amneris tutta giocata sul
pedale isterico-nevrotico, latrice di un personaggio con cui è difficile
entrare in empatia (Verdi non sarebbe stato daccordo), ha unindubbia
incisività di resa: antimusicale ma teatralissimo, lurlo da belva ferita su
cui apre lultimo atto uno degli effetti più forti della regia della Carrasco
è un momento che non si dimentica facilmente. E le stesse asprezze di
emissione, inevitabile corollario di uninterpretazione di tal segno, faranno
rimpiangere interpretazioni meno moderne e vocalmente più appaganti, ma tornano
comunque utili: mascherano le crepe, soprattutto timbriche, di uno strumento
che nonostante la giovane età suona già piuttosto usurato.
Un momento dello spettacolo © Studio Tabocchini Zanconi
Luciano Ganci mira a
un Radames antieroico o, almeno, eroe per caso. Più esploratore che
condottiero, appunto. Glielo suggeriscono molteplici fattori: la voce di
gradevole brillantezza, ma acconcia a una tenorilità meno spinta di quella che il
ruolo, in più momenti, richiederebbe; una propensione a sviscerare la “parola
scenica” piuttosto che abbandonarsi al flusso del canto; lo stesso aspetto
fisico, prestante eppure un po sovrappeso. Poteva scaturirne un personaggio
più “fraseggiato” che “cantato”: lesito, però, non è andato oltre a un porgere
arzigogolato di molte battute il recitativo di Celeste Aida, il
terzetto del primo atto e a unemissione laboriosa che (sulla scia del
Radames di Jonas Kaufmann?) risolve in falsetto molte mezzevoci. Considerando
che i momenti migliori sono stati, soprattutto negli ultimi due atti, quelli in
cui Ganci si è più lasciato andare a “fare il tenore”, il consiglio sarebbe
quello di ricalibrare a fondo il personaggio. Si è trattato daltronde di un
debutto: quindi, se crede, ne avrà ancora il tempo.
Al contrario dei due colleghi, Maria Teresa Leva
è una protagonista nel solco della tradizione. Senza scomodare paragoni
impossibili, viene da pensare a certe commendevoli nostre Aide degli anni
Settanta: Orianna Santunione, Rita Orlandi Malaspina,
tutte professioniste caratterizzate e la giovane protagonista messa in campo
dallo Sferisterio sembra essere di questa pasta da un timbro non troppo
nobile, sorretto tuttavia da unemissione sicurissima. Ne fa fede, nel caso della
Leva, soprattutto il dominio davvero eccellente dei “pianissimi”. Anche Marco
Caria è un Amonasro tradizionale, come intenzioni; la voce, più
voluminosa che realmente capace di espandersi, non è però gestita altrettanto
bene, sebbene il congruo timbro di baritono scuro risolva molto. Poco a fuoco il
Ramfis di Alessio Cacciamani, mentre la sacerdotessa di Maritina Tampakopoulos
è un cammeo prezioso e ipnotico.
Il tutto, come si diceva, sotto la bacchetta di
Lanzillotta. Il quale, dopo un preludio che tenta di sopperire con una certa
ricchezza agogica alla relativa povertà dinamica della volenterosa Orchestra
Filarmonica Marchigiana, sigla una direzione tradizionale, equilibrata anche
se il versante cerimoniale-sacerdotale resta un po troppo sottotono e molto
ben servita dal sonoro e appiombatissimo Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo
Bellini” istruito da Martino Faggiani. Al termine festeggiamento
da un pubblico distanziato, ma caloroso come in tempi prepandemici.
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