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L’arte, l’attore, la verità

di Rosa Carbone
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Data di pubblicazione su web 05/06/2021  

«Io sono un’attrice»: queste le parole che Federica Bognetti sceglie come emblema del suo ultimo lavoro, Il mio nome è Cassandra, che la vede nelle vesti di drammaturga, regista e interprete. Tale affermazione si carica di un significato ancora più intenso se rapportata al lungo periodo di reclusione che ha costretto attori e performers, così come il teatro in generale, a una forzata chiusura. Lo spettacolo, andato in scena in anteprima al Teatro Cantiere Florida, vede la protagonista – unica interprete in palcoscenico – impegnata nel tentativo di rivendicare il ruolo dell’artista nella società contemporanea. 

Lo spunto del racconto è di ispirazione mitologica: la profetessa di Apollo che dà il titolo all’opera, costantemente presente nelle storie che l’attrice racconta al pubblico, diventa il simbolo della parola, della verità di cui l’attore dovrebbe farsi portatore. La figura di Cassandra, così come appare nella tradizione antica, simboleggia la trasmissione di una realtà che non viene mai accolta e creduta in quanto tale. Portando alle estreme conseguenze il mito, l’autrice costruisce un parallelismo con l’artista, ipotizzando la sparizione del verbo trasmesso dall’attore e, dunque, la sparizione della voce dell’arte.  



Un momento dello spettacolo 
© Gianluca Giannone

Insieme alla tradizione mitologica, la Bognetti si ispira anche agli scritti di Platone, Rudolph Steiner, George Steiner, Anton Čechov e Franz Kafka, i quali costituiscono gli spunti dei molteplici racconti che si alternano durante la rappresentazione. L’attore-creatore dà voce a storie non sue, diventa una sorta di cantastorie, tramanda verità provenienti da lontano, si fa intermediario tra il divino e il quotidiano, tenendo così in vita un rito, quel rito collettivo e sacro che trova le sue origini nella dimensione della tragedia greca. L’esigenza più intima per l’attore-profeta risiede proprio nella possibilità di raccontare queste storie, di veicolare bellezza, arte e verità anche quando la sua voce potrebbe essere non ascoltata o creduta. 



Un momento dello spettacolo 
© Gianluca Giannone

La messa in scena ideata e diretta dalla Bognetti si compone di un unico atto, senza interruzioni, scandito dai movimenti e dai monologhi dell’interprete. La scena, quasi interamente spoglia, si avvale di pochi ma essenziali elementi: il corpo e la fisicità dell’attrice che si muove in maniera quasi scomposta nello spazio, l’illuminazione di Claudine Castay che colma i vuoti della scenografia e, infine, i pochi oggetti presenti sul palco con cui l’interprete interagisce. L’immagine che appare davanti agli occhi dello spettatore all’inizio della rappresentazione vede la protagonista seduta, quasi abbandonata su una sedia, vestita di rosso e illuminata lateralmente. Tutto intorno il buio. Quando, pian piano, la luce si fa più intensa, si intravedono, posizionati all’inizio del palco, una ciotola con dell’acqua, degli occhiali da sole e un microfono. Questi gli unici oggetti con cui l’artista si rapporterà, in una regia che affida la sua riuscita interamente all’interpretazione dell’attrice. Per i primi cinque minuti lo spettacolo è avvolto nel silenzio, intervallato dai movimenti convulsi e agitati della protagonista e dal canto di cicale in lontananza, quasi a voler prefigurare l’immagine utopica di una realtà in cui la parola dell’artista non trova collocazione. 

Intensa e coinvolgente la recitazione, vero punto di forza dello spettacolo: la Bognetti alterna registri diversi, dal tragico al colloquiale, dal drammatico al comico, rivolgendosi in più occasioni allo spettatore, in un continuo dialogo con sé stessa e con il pubblico. Degno di nota il momento in cui l’attrice-profetessa ribalta i toni della propria misurata interpretazione, inserendo un intermezzo comico accompagnato dalla musica: mentre racconta la storia della nascita delle Muse, prende il microfono e intona una canzone con sottofondo rap e un cappello di paglia in testa, imitando con ironia le mode musicali oggi più diffuse. 



Un momento dello spettacolo 
© Gianluca Giannone

Anche in questa occasione, così come per la sua precedente produzione Bar Blues, in cui interpretava un’eroina contemporanea accompagnata soltanto dal sax di Emiliano Vernizzi, Federica Bognetti decide di rimanere sola in scena ed è nella parte finale che emerge con chiarezza il senso dello spettacolo. La rivendicazione dello statuto attorico attorno a cui ruotano i racconti che si alternano nel corso della narrazione è pienamente dichiarata: il continuo interrogarsi sul ruolo che l’attore riveste e sul suo riconoscimento a livello sociale diventa una sorta di domanda esistenziale. Questo bisogno di rivalsa che emerge gradualmente nel corso dello spettacolo ed esplode apertamente nella sua conclusione non fa che richiamare inevitabilmente la condizione dell’artista nella società contemporanea, dando vita a una domanda cruciale: se l’attore-creatore sparisse, tutte le verità artistiche di cui è portavoce sopravviverebbero? 

Lasciando senza risposta tale quesito, si ritorna ciclicamente all’inizio dello spettacolo: la luce fioca che illumina il palco si spegne lentamente, le cicale riprendono a cantare e il corpo dell’attrice si abbandona su quella sedia da dove tutto è partito.




Il mio nome è Cassandra
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Un momento dello spettacolo
@ Gianluca Giannone

 
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