«Io
sono unattrice»: queste le parole che Federica Bognetti sceglie come emblema
del suo ultimo lavoro, Il mio nome è Cassandra, che la vede nelle vesti
di drammaturga, regista e interprete. Tale affermazione si carica di un
significato ancora più intenso se rapportata al lungo periodo di reclusione che
ha costretto attori e performers, così come il teatro in generale, a una
forzata chiusura. Lo spettacolo, andato in scena in anteprima al Teatro
Cantiere Florida, vede la protagonista – unica interprete in palcoscenico – impegnata
nel tentativo di rivendicare il ruolo dellartista nella società contemporanea. Lo
spunto del racconto è di ispirazione mitologica: la profetessa di Apollo che dà
il titolo allopera, costantemente presente nelle storie che lattrice racconta
al pubblico, diventa il simbolo della parola, della verità di cui lattore
dovrebbe farsi portatore. La figura di Cassandra, così come appare nella
tradizione antica, simboleggia la trasmissione di una realtà che non viene mai
accolta e creduta in quanto tale. Portando alle estreme conseguenze il mito,
lautrice costruisce un parallelismo con lartista, ipotizzando la sparizione
del verbo trasmesso dallattore e, dunque, la sparizione della voce dellarte.
Un momento dello spettacolo © Gianluca Giannone
Insieme
alla tradizione mitologica, la Bognetti si ispira anche agli scritti di Platone,
Rudolph Steiner, George Steiner, Anton Čechov e Franz
Kafka, i quali costituiscono gli spunti dei molteplici racconti che si
alternano durante la rappresentazione. Lattore-creatore dà voce a storie non
sue, diventa una sorta di cantastorie, tramanda verità provenienti da lontano, si
fa intermediario tra il divino e il quotidiano, tenendo così in vita un rito,
quel rito collettivo e sacro che trova le sue origini nella dimensione della
tragedia greca. Lesigenza più intima per lattore-profeta risiede proprio
nella possibilità di raccontare queste storie, di veicolare bellezza, arte e
verità anche quando la sua voce potrebbe essere non ascoltata o creduta.
Un momento dello spettacolo © Gianluca Giannone
La
messa in scena ideata e diretta dalla Bognetti si compone di un unico atto,
senza interruzioni, scandito dai movimenti e dai monologhi dellinterprete. La
scena, quasi interamente spoglia, si avvale di pochi ma essenziali elementi: il
corpo e la fisicità dellattrice che si muove in maniera quasi scomposta nello
spazio, lilluminazione di Claudine Castay che colma i vuoti della scenografia
e, infine, i pochi oggetti presenti sul palco con cui linterprete interagisce.
Limmagine che appare davanti agli occhi dello spettatore allinizio della
rappresentazione vede la protagonista seduta, quasi abbandonata su una sedia,
vestita di rosso e illuminata lateralmente. Tutto intorno il buio. Quando, pian
piano, la luce si fa più intensa, si intravedono, posizionati allinizio del
palco, una ciotola con dellacqua, degli occhiali da sole e un microfono.
Questi gli unici oggetti con cui lartista si rapporterà, in una regia che
affida la sua riuscita interamente allinterpretazione dellattrice. Per i
primi cinque minuti lo spettacolo è avvolto nel silenzio, intervallato dai
movimenti convulsi e agitati della protagonista e dal canto di cicale in
lontananza, quasi a voler prefigurare limmagine utopica di una realtà in cui
la parola dellartista non trova collocazione.
Intensa
e coinvolgente la recitazione, vero punto di forza dello spettacolo: la Bognetti
alterna registri diversi, dal tragico al colloquiale, dal drammatico al comico,
rivolgendosi in più occasioni allo spettatore, in un continuo dialogo con sé
stessa e con il pubblico. Degno di nota il momento in cui lattrice-profetessa
ribalta i toni della propria misurata interpretazione, inserendo un intermezzo comico
accompagnato dalla musica: mentre racconta la storia della nascita delle Muse,
prende il microfono e intona una canzone con sottofondo rap e un cappello di
paglia in testa, imitando con ironia le mode musicali oggi più diffuse.
Un momento dello spettacolo © Gianluca Giannone
Anche
in questa occasione, così come per la sua precedente produzione Bar Blues,
in cui interpretava uneroina contemporanea accompagnata soltanto dal sax di Emiliano
Vernizzi, Federica Bognetti decide di rimanere sola in scena ed è nella
parte finale che emerge con chiarezza il senso dello spettacolo. La
rivendicazione dello statuto attorico attorno a cui ruotano i racconti che si
alternano nel corso della narrazione è pienamente dichiarata: il continuo
interrogarsi sul ruolo che lattore riveste e sul suo riconoscimento a livello
sociale diventa una sorta di domanda esistenziale. Questo bisogno di rivalsa
che emerge gradualmente nel corso dello spettacolo ed esplode apertamente nella
sua conclusione non fa che richiamare inevitabilmente la condizione
dellartista nella società contemporanea, dando vita a una domanda cruciale: se
lattore-creatore sparisse, tutte le verità artistiche di cui è portavoce sopravviverebbero?
Lasciando
senza risposta tale quesito, si ritorna ciclicamente allinizio dello
spettacolo: la luce fioca che illumina il palco si spegne lentamente, le cicale
riprendono a cantare e il corpo dellattrice si abbandona su quella sedia da
dove tutto è partito.
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