drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti
cerca in vai

Seminare teatro, raccogliere sogni. Giuliano Scabia, l’angelico eretico

di Teresa Megale
  Giuliano Scabia
Data di pubblicazione su web 22/05/2021  

Ci ha lasciato in una limpida mattina di maggio Giuliano Scabia, cantore speciale del nostro tempo. E ci ha lasciato più poveri e più indifesi. Poeta del teatro per indole e per versi, per attitudine e per filosofia. In sandali ha percorso anonime periferie, corsie di manicomi, scoscesi sentieri di montagna, paesini, paesucoli, boschi e grandi città. Ovunque, con l’eleganza discreta di un pifferaio magico ha sedotto studenti, spettatori, lettori, declinando la drammaturgia in forme vive, plastiche, inoculando il teatro come gioco, fantasia, narrazione, rivoluzione nei suoi diversificati ascoltatori. 

Scabia (Padova, 1935) ha iniziato là dove pochissimi arrivano: dal Gruppo ’63, da Luigi Nono, per il quale scrisse nel 1964 La fabbrica illuminata, e dalla Biennale di Venezia. Qui, nell’autunno del 1965, si misurò con Carlo Quartucci, Lele Luzzatti, Leo De Berardinis, Claudio Remondi, nomi parlanti, che da soli evocano mondi artistici. Il debutto di Zip Lap Lip Vap Mam Crep Scap Plip Trip Scrap e La Grande Mam alle prese con la società contemporanea, a prima vista ermetico insieme di onomatopee sconosciute, in realtà maschere sceniche provocatorie, ha scandito un punto di non ritorno nella costruzione del Nuovo teatro italiano. Scritto direttamente in teatro, con il copione rifiutato dalla SIAE, Zip fu lo scandalo che segnò la nascita del drammaturgo appena trentenne, lo spartiacque presto passato dalla cronaca alla storia. Nell’arco della sua ricca e generosa vita, ha sempre rilanciato il teatro fuori dai circuiti ufficiali, nei grigi quartieri operai torinesi degli anni Sessanta-Settanta, nelle scuole dei bambini immigrati quando decentramento e animazione teatrale, non ancora irrigiditi in burocrazia, pulsavano nelle vite dei singoli con la loro carica eversiva. 

Alla ricerca di nuovi sensi per il teatro, Scabia ancora una volta doveva marcare il nostro tempo con una performance di cui forse ancora non si è colto fino in fondo il valore. Il 25 febbraio del 1973 con l’invenzione di Marco Cavallo ha contribuito a far uscire il dolore da dove si riteneva fosse rinserrato per sempre. Una deflagrazione in piena regola, una dimostrazione del potere catartico del teatro, avvenute a Trieste spingendo fuori dall’ospedale psichiatrico la scultura di cartapesta e legno sotto gli occhi attoniti dei presenti. Foucaultiano ante litteram, erede a sua insaputa di Jakob Moreno, con compagni di viaggio di intelligenza elevatissima quali Franco e Vittorio Basaglia e con la partecipazione degli stessi ospiti di quell’antico ospedale-prigione, ha realizzato l’utopia della libertà «da un’altra vita», come scrisse Beckett. La parata liberatoria e libertaria di Marco Cavallo verso la città è assurta a simbolo di una rivoluzione culturale di portata inestimabile, di moderno “trionfo”, a significare che un’altra vita è possibile. Azzurra come i suoi occhi, la scultura ha marchiato la vita di Scabia, ne è stato uno dei fulcri generatori intorno al quale tutto si è annodato: idealità, passione civile, necessità espressive, poetica teatrale. 

Articolata la produzione drammaturgica e registica di questo originalissimo «angelico viandante», come lo stigmatizzò De Monticelli. Dopo il clamoroso Zip, si possono annoverare almeno Fantastica visione, diretta da Massimo Castri (1979), poi ripresa da Alessandro Marinuzzi (1993), Cinghiali ai limiti del bosco (1985), Commedia del poeta d’oro, con bestie (1994), Gloria del teatro immaginario (1997) con Luigi Lo Cascio e Rita Maffei: una manciata di titoli esemplificativi della sua ampia teatrografia, alcuni dei quali rimarcano il rapporto privilegiato che instaurò con il Centro del Teatro Stabile di Innovazione del Friuli Venezia Giulia. 

Amava scrivere lettere da affidare alla sua stessa voce, e così lasciare segni indelebili. I suoi destinatari potevano spiazzare chi non lo conoscesse: Angeli, Demoni, Lupi, Alberi, Foreste, creature vive del suo immaginifico mondo consapevolmente fiabesco, consapevolmente lieve, alle quali inviava compitissimi pensieri, versi e persino disegni. Come performer si esibiva da solo, in compagnia di scelti musicisti, lui che proveniva da una famiglia che con la musica aveva avuto molta dimestichezza. Per fare spettacolo gli bastava pochissimo: un cartellone dipinto e, in alternativa, un leggio o un ramo di un albero. Voleva essere un ponte con il passato, riproporre rituali arcaici e ricostruirne il senso in una società sempre più progressivamente disumanizzata. Da qui la stagione di ricerca teatrale e di didattica (per lui assolutamente coincidenti) con il Gorilla Quadrumàno, inseguito per i borghi dell’Appennino emiliano, il recupero del «teatro di stalla» con un gruppo di damsiani della prima ora e la formulazione del Teatro Vagante. 

Fattosi in uno cantastorie e scrittore, aveva racchiuso in pagine la cultura orale verificata a teatro. Il ciclo einaudiano dei romanzi di Nane Oca, varato nel 1992 e ancora alimentato nel 2019 con Nane Oca rivelato, racchiude insieme il ritorno al pavano, il parlato risonante dell’infanzia, il gesto della sua voce e del suo corpo in azione in piazze, strade, montagne, la sua sfrenata fantasia desunta da bestiari e favolistica classica, popolata da paladini e da cavalieri erranti, da arcangeli e da diavoli in calzamaglia.  

Come un hyppie sopravvissuto alla sbornia di slogan e roba, si è infiltrato ovunque ci fosse sentore di teatro come rivolta: tra gli immigrati di quartieri operai, tra i portatori di disagio psichico, tra i rami di querce robuste. Seminava teatro come si semina il grano: cercava terreni propizi e li frequentava, arandoli con la dolcezza del suo ineguagliabile sorriso. Nulla di forzato vi era in Giuliano. Convinto sperimentatore della forza politica del teatro, aveva fatto coincidere la ricerca drammaturgica con la prassi artistica, lo studio severo con l’artigianalità dei mezzi espressivi. Un francescano che in Toscana si muoveva tra i festival del teatro di strada, habitué di Mercantia a Certaldo, e si confondeva con quanti volessero fare arte. 

Splendido eretico dalle movenze gandhiane, ha lasciato segni indelebili del suo passaggio. Vivendo all’ombra della sinagoga di Firenze, con la mente rivolta al veneziano Campo Sant’Angelo, ha sempre prediletto come Pascoli la poesia delle piccole cose, nelle quali intravedeva possibilità drammaturgiche misteriose. Il teatro è stato per lui partecipazione collettiva, scambio di sguardi e di narrazioni, formidabile arma di incontro intergenerazionale e di rinnovamento sociale, riscatto, festa. In un’intervista rilasciata nel 1997 a Massimo Marino, tra i suoi allievi prescelti, lo definiva «qualcosa che ha a che fare col diletto e con l’amore. Come la poesia. Un andare in festa, interiore, che produce gioia: come entrare in paradiso per un momento e trasportarvi chi ascolta». Buon paradiso a te, Giuliano.




 



Marco Cavallo, 1973




























Nane Oca rivelato, Torino, Einaudi, 2019


























Locandina di Zip, 1965




 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013