Ci
ha lasciato in una limpida mattina di maggio Giuliano Scabia, cantore speciale del nostro tempo. E ci ha
lasciato più poveri e più indifesi. Poeta del teatro per indole e per versi,
per attitudine e per filosofia. In sandali ha percorso anonime periferie, corsie
di manicomi, scoscesi sentieri di montagna, paesini, paesucoli, boschi e grandi
città. Ovunque, con leleganza discreta di un pifferaio magico ha sedotto
studenti, spettatori, lettori, declinando la drammaturgia in forme vive, plastiche,
inoculando il teatro come gioco, fantasia, narrazione, rivoluzione nei suoi diversificati
ascoltatori.
Scabia
(Padova, 1935) ha iniziato là dove pochissimi arrivano: dal Gruppo 63, da Luigi Nono, per il quale scrisse nel
1964 La fabbrica illuminata, e dalla Biennale di Venezia. Qui,
nellautunno del 1965, si misurò con Carlo
Quartucci, Lele Luzzatti, Leo De Berardinis, Claudio Remondi, nomi parlanti, che da soli evocano mondi artistici.
Il debutto di Zip Lap Lip
Vap Mam Crep Scap Plip Trip Scrap e La Grande Mam alle prese con la società
contemporanea, a prima
vista ermetico insieme di onomatopee sconosciute, in realtà maschere sceniche
provocatorie, ha scandito un punto di non ritorno nella costruzione del Nuovo
teatro italiano. Scritto direttamente in teatro, con il copione rifiutato dalla
SIAE, Zip fu lo scandalo che segnò la nascita del drammaturgo appena
trentenne, lo spartiacque presto passato dalla cronaca alla storia. Nellarco
della sua ricca e generosa vita, ha sempre rilanciato il teatro fuori dai
circuiti ufficiali, nei grigi quartieri operai torinesi degli anni Sessanta-Settanta,
nelle scuole dei bambini immigrati quando decentramento e animazione teatrale,
non ancora irrigiditi in burocrazia, pulsavano nelle vite dei singoli con la
loro carica eversiva.
Alla ricerca
di nuovi sensi per il teatro, Scabia ancora una volta doveva marcare il nostro
tempo con una performance di cui forse ancora non si è colto fino in
fondo il valore. Il 25 febbraio del 1973 con linvenzione di Marco Cavallo ha contribuito a far
uscire il dolore da dove si riteneva fosse rinserrato per sempre. Una
deflagrazione in piena regola, una dimostrazione del potere catartico del
teatro, avvenute a Trieste spingendo fuori dallospedale psichiatrico la
scultura di cartapesta e legno sotto gli occhi attoniti dei presenti. Foucaultiano ante litteram, erede a sua
insaputa di Jakob Moreno, con
compagni di viaggio di intelligenza elevatissima quali Franco e Vittorio Basaglia
e con la partecipazione degli stessi ospiti di quellantico ospedale-prigione, ha
realizzato lutopia della libertà «da unaltra vita», come scrisse Beckett. La parata liberatoria e
libertaria di Marco Cavallo verso la città è assurta a simbolo di una rivoluzione
culturale di portata inestimabile, di moderno “trionfo”, a significare che
unaltra vita è possibile. Azzurra come i suoi occhi, la scultura ha marchiato
la vita di Scabia, ne è stato uno dei fulcri generatori intorno al quale tutto
si è annodato: idealità, passione civile, necessità espressive, poetica
teatrale.
Articolata
la produzione drammaturgica e registica di questo originalissimo «angelico
viandante», come lo stigmatizzò De
Monticelli. Dopo il
clamoroso Zip, si possono annoverare almeno Fantastica visione,
diretta da Massimo Castri (1979),
poi ripresa da Alessandro Marinuzzi
(1993), Cinghiali ai limiti del bosco (1985), Commedia del poeta
doro, con bestie (1994), Gloria del teatro immaginario (1997) con Luigi Lo Cascio e Rita Maffei: una manciata di titoli esemplificativi della sua ampia
teatrografia, alcuni dei quali rimarcano il rapporto privilegiato che instaurò con
il Centro del Teatro Stabile di Innovazione del Friuli Venezia Giulia.
Amava
scrivere lettere da affidare alla sua stessa voce, e così lasciare segni
indelebili. I suoi destinatari potevano spiazzare chi non lo conoscesse:
Angeli, Demoni, Lupi, Alberi, Foreste, creature vive del suo immaginifico mondo
consapevolmente fiabesco, consapevolmente lieve, alle quali inviava
compitissimi pensieri, versi e persino disegni. Come performer si esibiva da
solo, in compagnia di scelti musicisti, lui che proveniva da una famiglia che
con la musica aveva avuto molta dimestichezza. Per fare spettacolo gli bastava
pochissimo: un cartellone dipinto e, in alternativa, un leggio o un ramo di un
albero. Voleva essere un ponte con il passato, riproporre rituali arcaici e
ricostruirne il senso in una società sempre più progressivamente disumanizzata.
Da qui la stagione di ricerca teatrale e di didattica (per lui assolutamente
coincidenti) con il Gorilla Quadrumàno, inseguito per i borghi dellAppennino
emiliano, il recupero del «teatro di stalla» con un gruppo di damsiani della
prima ora e la formulazione del Teatro Vagante.
Fattosi in
uno cantastorie e scrittore, aveva racchiuso in pagine la cultura orale verificata
a teatro. Il ciclo einaudiano dei romanzi di Nane Oca, varato nel 1992 e
ancora alimentato nel 2019 con Nane Oca rivelato, racchiude insieme il
ritorno al pavano, il parlato risonante dellinfanzia, il gesto della sua voce
e del suo corpo in azione in piazze, strade, montagne, la sua sfrenata fantasia
desunta da bestiari e favolistica classica, popolata da paladini e da cavalieri
erranti, da arcangeli e da diavoli in calzamaglia.
Come
un hyppie sopravvissuto alla sbornia di slogan e roba, si è infiltrato ovunque
ci fosse sentore di teatro come rivolta: tra gli immigrati di quartieri operai,
tra i portatori di disagio psichico, tra i rami di querce robuste. Seminava
teatro come si semina il grano: cercava terreni propizi e li frequentava,
arandoli con la dolcezza del suo ineguagliabile sorriso. Nulla di forzato vi
era in Giuliano. Convinto sperimentatore della forza politica del teatro, aveva
fatto coincidere la ricerca drammaturgica con la prassi artistica, lo studio
severo con lartigianalità dei mezzi espressivi. Un francescano che in Toscana si
muoveva tra i festival del teatro di strada, habitué di Mercantia a
Certaldo, e si confondeva con quanti volessero fare arte.
Splendido eretico dalle
movenze gandhiane, ha lasciato segni indelebili del suo passaggio. Vivendo
allombra della sinagoga di Firenze, con la mente rivolta al veneziano Campo
SantAngelo, ha sempre prediletto come Pascoli
la poesia delle piccole cose, nelle quali intravedeva possibilità drammaturgiche
misteriose. Il teatro è stato per lui partecipazione collettiva, scambio di
sguardi e di narrazioni, formidabile arma di incontro intergenerazionale e di rinnovamento
sociale, riscatto, festa. In unintervista rilasciata nel 1997 a Massimo Marino, tra i suoi allievi prescelti,
lo definiva «qualcosa che ha a che fare col diletto e con lamore. Come la
poesia. Un andare in festa, interiore, che produce gioia: come entrare in
paradiso per un momento e trasportarvi chi ascolta». Buon paradiso a te,
Giuliano.
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