Los
Angeles, 1990. Un ex detective degradato si trova invischiato suo malgrado in
una indagine che fa riemergere oscuri fantasmi dal passato. Affiancando un
giovane agente incaricato del caso, darà la caccia a un serial killer di
giovani donne: cosa collega questa serie di omicidi con linchiesta che gli
costò la carriera? Quale prezzo i due detective sono disposti a pagare pur di
trovare il colpevole?
Costruito
narrativamente come un cane che si morde la coda, in continuo conflitto tra il
passato e il presente, tra flashback montati a livello visivo e sonoro in
maniera quasi sperimentale, il nuovo lavoro scritto e diretto da John Lee Hancock rappresenta un curioso
ibrido cinematografico. Al di là della traduzione italiana del titolo, Fino allultimo indizio, che tenta di
creare un qualche invisibile e forzato legame con il capolavoro godardiano o
qualche altro film a stampo investigativo, il titolo originale, The Little
Things, dà maggiore risalto ai veri spunti di riflessione della pellicola:
i piccoli dettagli che possono fare (narrativamente ma anche metaforicamente)
la differenza.
Curioso
regista che si è mosso su più svariati fronti dirigendo tre strani biopic (tra
cui The Founder dedicato alla figura del creatore
dellimpero McDonald), due film “sportivi” e una pellicola sulla coppia Bonnie
e Clyde, Hancock si mette alla prova con quello che potremmo definire un
(quasi) noir. Le caratteristiche del genere, infatti, ci sono tutte: le
ambientazioni, il passato oscuro che ritorna, gli investigatori, gli episodi
efferati. Ma cè appunto la problematica del “tempo” che, citando uno dei
capitoli de L'immagine-tempo di Gilles Deleuze (Dal ricordo ai sogni), si risvolta
continuamente, incastra percezione, realtà e onirico senza un filo conduttore,
intrappolando lo spettatore in un vortice di immedesimazione che deve per forza
far capo a un immaginario filmico più sedimentato. Diversi i riferimenti
possibili: la terza stagione della serie True Detective (per ambienti e personaggi) ad esempio o il film Seven (1995). Proprio nel lavoro di
Fincher, un poliziotto di colore (quasi) in pensione e un giovane neo detective
devono affrontare un sadico assassino, che si rivelerà quasi nel finale
(fisicamente).
Nel
film di Hancock tutto si muove prima, presentando (con un falso colpo di scena)
solo il “possibile” assassino, che permetterà poi un nuovo risvolto a pochi
minuti dalla fine della vicenda, dove le carte in tavola verranno nuovamente
rivoltate, ponendo lo spettatore in una scomoda situazione di forte incertezza.
Il richiamo al dubbio e a Giovenale è per questo fondante: cosa succede se non
siamo sicuri che chi ha nelle mani la sfera del Giusto sia tormentato dalle
perplessità su ciò che sta facendo? O commette egli stesso un crimine? Ed ecco
perché il plot si risolve molto prima, come se fosse quasi pre-svelato dal
regista, scricchiolando proprio sulla componente fondamentale della scrittura.
Diventano così quasi
sprecate le ottime prove attoriali dei tre protagonisti, che regalano, ad
esempio, una scena dinterrogatorio magistrale: giocando al gatto e al topo Denzel Washington (ormai quasi condannato a ruoli da “vendicatore”: si pensi ai
due capitoli di The Equalizer), Rami Malek (timido, introverso ma
perno e ponte psicologico dellintero film) e Jared Leto (compare per
pochi minuti ma plasma uno dei ruoli più inquietanti e misteriosi degli ultimi
anni) muovono i loro personaggi in un ambiente fotografato alla perfezione da John Schwartzman (che non solo gioca sapientemente con la luce
e loscurità, illuminando una Los Angeles negli anni Novanta in maniera quanto
mai sospesa e ambigua, ma omaggia in alcune inquadrature tele di Hopper e Magritte) e musicato sapientemente da Thomas Newman (il
tema musicale principale sembra richiamare una sorta di suono interiore, quasi
psichedelico ed elettronico, pungente e fastidioso).
Discorso
a parte meriterebbe linteressante tematica del “viaggio” americano: i protagonisti
hancockiani viaggiano in territori desolati e desolanti, piatti e aridi, dove
le città appaiono come oasi nel deserto, ergendo a protagonisti aggiunti le
loro ruggenti autovetture. Fino all'ultimo indizio non è una occasione mancata, ma solo un film debole, che
intrattiene e convince, con almeno due-tre momenti in cui si “salta dalla
sedia”, correndo però il rischio di diventare un episodio lungo della serie
televisiva CSI. Il dubbio, però,
rimane: Giovenale dixit.
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