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Chi sorveglia i sorveglianti?

di Pietro Ammaturo
  Fino all'ultimo indizio
Data di pubblicazione su web 02/04/2021  

Los Angeles, 1990. Un ex detective degradato si trova invischiato suo malgrado in una indagine che fa riemergere oscuri fantasmi dal passato. Affiancando un giovane agente incaricato del caso, darà la caccia a un serial killer di giovani donne: cosa collega questa serie di omicidi con l’inchiesta che gli costò la carriera? Quale prezzo i due detective sono disposti a pagare pur di trovare il colpevole?

Costruito narrativamente come un cane che si morde la coda, in continuo conflitto tra il passato e il presente, tra flashback montati a livello visivo e sonoro in maniera quasi sperimentale, il nuovo lavoro scritto e diretto da John Lee Hancock rappresenta un curioso ibrido cinematografico. Al di là della traduzione italiana del titolo, Fino all’ultimo indizio, che tenta di creare un qualche invisibile e forzato legame con il capolavoro godardiano o qualche altro film a stampo investigativo, il titolo originale, The Little Things, dà maggiore risalto ai veri spunti di riflessione della pellicola: i piccoli dettagli che possono fare (narrativamente ma anche metaforicamente) la differenza.


Una scena del film

Curioso regista che si è mosso su più svariati fronti dirigendo tre strani biopic (tra cui The Founder dedicato alla figura del creatore dell’impero McDonald), due film “sportivi” e una pellicola sulla coppia Bonnie e Clyde, Hancock si mette alla prova con quello che potremmo definire un (quasi) noir. Le caratteristiche del genere, infatti, ci sono tutte: le ambientazioni, il passato oscuro che ritorna, gli investigatori, gli episodi efferati. Ma c’è appunto la problematica del “tempo” che, citando uno dei capitoli de L'immagine-tempo di Gilles Deleuze (Dal ricordo ai sogni), si risvolta continuamente, incastra percezione, realtà e onirico senza un filo conduttore, intrappolando lo spettatore in un vortice di immedesimazione che deve per forza far capo a un immaginario filmico più sedimentato. Diversi i riferimenti possibili: la terza stagione della serie True Detective (per ambienti e personaggi) ad esempio o il film Seven (1995). Proprio nel lavoro di Fincher, un poliziotto di colore (quasi) in pensione e un giovane neo detective devono affrontare un sadico assassino, che si rivelerà quasi nel finale (fisicamente).


Una scena del film

Nel film di Hancock tutto si muove prima, presentando (con un falso colpo di scena) solo il “possibile” assassino, che permetterà poi un nuovo risvolto a pochi minuti dalla fine della vicenda, dove le carte in tavola verranno nuovamente rivoltate, ponendo lo spettatore in una scomoda situazione di forte incertezza. Il richiamo al dubbio e a Giovenale è per questo fondante: cosa succede se non siamo sicuri che chi ha nelle mani la sfera del Giusto sia tormentato dalle perplessità su ciò che sta facendo? O commette egli stesso un crimine? Ed ecco perché il plot si risolve molto prima, come se fosse quasi pre-svelato dal regista, scricchiolando proprio sulla componente fondamentale della scrittura.

Diventano così quasi sprecate le ottime prove attoriali dei tre protagonisti, che regalano, ad esempio, una scena d’interrogatorio magistrale: giocando al gatto e al topo Denzel Washington (ormai quasi condannato a ruoli da “vendicatore”: si pensi ai due capitoli di The Equalizer), Rami Malek (timido, introverso ma perno e ponte psicologico dell’intero film) e Jared Leto (compare per pochi minuti ma plasma uno dei ruoli più inquietanti e misteriosi degli ultimi anni) muovono i loro personaggi in un ambiente fotografato alla perfezione da John Schwartzman (che non solo gioca sapientemente con la luce e l’oscurità, illuminando una Los Angeles negli anni Novanta in maniera quanto mai sospesa e ambigua, ma omaggia in alcune inquadrature tele di Hopper e Magritte) e musicato sapientemente da Thomas Newman (il tema musicale principale sembra richiamare una sorta di suono interiore, quasi psichedelico ed elettronico, pungente e fastidioso).


Una scena del film

Discorso a parte meriterebbe l’interessante tematica del “viaggio” americano: i protagonisti hancockiani viaggiano in territori desolati e desolanti, piatti e aridi, dove le città appaiono come oasi nel deserto, ergendo a protagonisti aggiunti le loro ruggenti autovetture. Fino all'ultimo indizio non è una occasione mancata, ma solo un film debole, che intrattiene e convince, con almeno due-tre momenti in cui si “salta dalla sedia”, correndo però il rischio di diventare un episodio lungo della serie televisiva CSI. Il dubbio, però, rimane: Giovenale dixit



Fino all'ultimo indizio
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