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Il mondo che cambia

di Giuseppe Gario
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Data di pubblicazione su web 22/03/2021  

«Un po’ tardi, forse, cominciava a capire che chi pranza col diavolo deve avere un cucchiaio dal manico assai lungo» (così Alan Bullock su Fritz von Papen, effimero vice-cancelliere del neo-cancelliere Hitler: Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Mondadori, 1955, p. 247). Non esiste cucchiaio per mestare nella pandemia, ma «il regime cinese non fa mistero delle sue ambizioni. La “cooperazione vaccinale” è una “nuova direttrice” della sua politica estera, spiega Global Times; sei paesi europei “hanno già acquistato o espresso il loro interesse” per il vaccino cinese. In primo piano, le due teste di ponte di Pechino in Europa: l’Ungheria, membro UE, ha acquistato cinque milioni di dosi (per 10 milioni di abitanti) e la Serbia, fuori UE, ne ha acquistati 1,5 milioni (per 5 milioni di abitanti). Se si dubitava del ruolo geopolitico del vaccino in questa pandemia, ecco la prova». «Mentre il presidente Biden, rilanciando la diplomazia americana, torna ai suoi alleati, la Cina non vuole cedere nulla del terreno conquistato nell’era Trump e l’Europa cerca il suo posto tra i due, consapevole del potere che le dà l’unità, nuova ma precaria, forgiata negli ultimi quattro anni all’ombra delle grandi potenze predatrici. Svela anche la potenza del fattore pandemico in questo mondo in ricomposizione» (S. Kaufmann, Le vaccin chinois qui divise l’Europe, in «Le Monde», 11 febbraio 2021, on line).

E «il mondo non ha finito con Covid-19 che spunta una nuova pandemia. Non colpisce gli uomini, ma le macchine. Da una settimana, un attacco informatico fuori dall’ordinario infetta centinaia di migliaia, se non milioni di computer nel pianeta. Gli assalitori usano una falla del software email di Microsoft, Exchange, molto usato nelle imprese. Una volta entrati rubano i dati o istallano malware. Secondo Bloomberg, si contano già 600.000 vittime negli Stati Uniti, molte piccole imprese, ma pure amministrazioni, banche, aziende elettriche… E non v’è motivo perché il contagio si fermi ai confini USA, Exchange è un software dei più usati nel mondo». «Nel ciberspazio la guerra fredda si scalda pericolosamente. Software e Internet hanno conquistato il mondo ma generato una criminalità nuova e nuovi campi di battaglia. La soluzione, secondo Microsoft, passa per più connettività per rimediare più rapidamente. Ma accresce l’interdipendenza e la vulnerabilità dei sistemi. La tecnologia è una corsa senza fine» (P. Escande, Piratage: la nouvelle pandémie, in «Le Monde», 9 marzo 2021, on line).

Oltre alla pandemia social. In un decennio Samuel Laurent, giornalista tra i più attivi su Twitter, è «passato a giochi retorici in cui l’idea non è più tanto di convincere l’altro quanto di mostrargli che ha torto» (Réseaux sociaux: il serait illusoire d’imaginer que cette boîte de Pandore puisse être refermée, in «Le Monde», 11 febbraio 2021, on line). «Come affrontare un vortice che svuota l’idea stessa di verità? Anzitutto considerare “il nostro bisogno di capire il mondo tramite le storie”, dice Giovanni Cattabriga. E, aggiunge Roberto Bui, riconoscere che “ogni fantasmagoria parte da un nucleo di verità prima di pervertirlo. In questo caso, la lotta di classe, le ineguaglianze e la distanza tra il popolo e i governi”. Il cospirazionismo sarebbe così una forma di anticapitalismo smarrito, contro cui bisogna raccontare un’altra storia. Vera, però». Scrittori di estrema sinistra, Cattabriga e Bui «non hanno dubbi: QAnon si ispira direttamente al loro primo romanzo, Q, pubblicato nel 1999 sotto lo pseudonimo ‘Wu Ming’ con Einaudi» (R. Rérolle, QAnon, la piste italienne, in «Le Monde», 20 febbraio 2021, on line; QAnon è la setta digitale che denuncia il governo occulto del mondo, ndr).

Intanto, un caso per tutti, «i ceti superiori britannici procedono all’infinito, mutanti ma sempiterni, spugnosi ma auto-appagati, letargici ma opportunistici, i più cinici e abili scrocconi del mondo» (Bagehot. The British establishment is the world’s most open – for a price, in «The Economist», 13-19 febbraio 2021, on line). Un cinismo scroccone di troppo nel nostro mondo che cambia.


Il mondo che cambia: «mai esistito prima, cioè una società globale cosmopolita: siamo la prima generazione a vivere in questa società» (A. Giddens, Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Bologna, il Mulino, 2000, p. 31). «Abbiamo cominciato a preoccuparci meno di quello che la natura può farci e più di quello che noi stiamo facendo alla natura; ciò segna la transizione dal predominio del rischio esterno a quello del rischio costruito» (ivi, p. 41). «Semplicemente non sappiamo quale sia il livello di rischio, e in molti casi non lo sappiamo finché non è troppo tardi» (ivi, p. 43). «Sempre più sono quelli fra noi, comprese le autorità governative e i politici, che hanno e devono avere un rapporto molto più attivo e stretto con la scienza e la tecnologia di quanto non accadesse un tempo» (ivi, p. 45).

«In qualunque modo la si veda, siamo tutti coinvolti nella gestione del rischio. Con l’estendersi del rischio costruito, gli stati non possono pretendere che tale gestione non rientri nei loro compiti, e devono collaborare fra loro, poiché sono ben pochi i rischi di nuovo genere che riguardino solo singole nazioni. Ma neppure come semplici individui possiamo ignorare questi nuovi rischi, o aspettare che siano confermati da prove scientifiche definitive». «La nostra epoca non è più pericolosa – né più rischiosa – di quelle delle precedenti generazioni, ma si è spostata la bilancia dei rischi e dei pericoli. Viviamo in un mondo nel quale i rischi creati da noi stessi sono tanto minacciosi quanto quelli che provengono dal mondo esterno – se non di più. Alcuni fra questi sono davvero catastrofici, come il rischio ecologico globale, la proliferazione nucleare o la fusione dell’economia mondiale; altri ci riguardano più da vicino come individui, per esempio quelli connessi alla dieta, alla medicina o anche al matrimonio» (ivi, p. 48). Oltre alla peggiore crisi finanziaria della storia e al Covid-19, divenuto pandemico sulle nostre gambe.

«Non disponiamo di istituzioni che ci consentano di monitorare il cambiamento tecnologico a livello nazionale o globale. Il disastro della “mucca pazza” in Gran Bretagna e altrove avrebbe potuto essere evitato se si fosse aperto un dialogo pubblico sul cambiamento tecnologico e sulle sue problematiche conseguenze. Un maggiore impegno politico nei confronti della scienza e della tecnologia non risolverebbe l’eterna diatriba fra allarmisti e minimizzatori, ma ci permetterebbe di ridurre alcune delle dannose conseguenze da essa derivanti». «Una attiva assunzione del rischio sta al centro di un’economia dinamica e di una società innovativa. Vivere in un’era globale significa venire a patti con una tipologia di nuove situazioni di rischio» (ivi, p. 49). «Un’era globalizzante richiede risposte globalizzanti, e questo riguarda la politica come qualsiasi altra area» (ivi, p. 92).

«Ma sotto l’impatto della globalizzazione, la sovranità si è opacizzata: nazioni e stati-nazione rimangono forti, ma si creano deficit democratici sempre più ampi fra di essi e le forze globali che incidono sulla vita dei loro cittadini. I rischi ecologici, le fluttuazioni nell’economia globale, o il mutamento tecnologico globale non rispettano certo i confini delle nazioni. Essi tendono a sottrarsi ai processi democratici, una delle ragioni principali, come ho già detto, che spiega la disaffezione della gente proprio laddove la democrazia ha radici più antiche. Parlare di democrazia al di sopra del livello nazionale potrebbe sembrare irrealistico. Di questo si parlava diffusamente un centinaio di anni orsono e invece di un’era di globale armonia si sono avute due guerre mondiali» (ivi, p. 96).

«Come può essere promossa la democrazia al di sopra del livello dello stato-nazione?». «Le Nazioni Unite, come dice il nome, sono un’associazione di stati-nazione; almeno fino ad oggi, raramente hanno sfidato la sovranità delle nazioni, e il loro stesso statuto vieta di farlo. L’Unione europea è differente. Potrebbe aprire una strada che anche altre regioni potrebbero seguire. È importante non tanto che l’Ue sia situata in Europa ma che diventi una forma pionieristica di un governo transnazionale». «I paesi che hanno aderito all’Ue hanno, proprio per questo, volontariamente rinunciato a parte della propria sovranità. Ora, l’Unione europea non è particolarmente democratica. Una famosa battuta dice che se l’Ue chiedesse di aderire a se stessa non verrebbe ammessa: ciò significa che l’Ue non sembra rispondere ai criteri democratici che richiede ai suoi stessi membri, ma in linea di principio non c’è nulla che impedisca una sua ulteriore democratizzazione. Bisognerebbe dunque insistere fortemente su questo cambiamento. L’esistenza dell’Ue realizza un principio cardine della democrazia, se vista sullo sfondo dell’ordine globale: il sistema transnazionale può attivamente contribuire alla democrazia nei singoli stati, tanto quanto fra di essi» (ivi, p. 97). «Anziché pensare la democrazia come a un fiore facilmente calpestabile, dovremmo vederla come una pianta resistente». «Se la mia tesi è corretta, l’espansione della democrazia è strettamente connessa con i cambiamenti strutturali della società mondiale. Nulla si ottiene senza lottare. In particolare, l’avanzamento della democrazia è qualcosa per cui vale la pena di battersi e che può essere raggiunto. Il nostro mondo mutevole e sfuggente non necessita di meno governo, ma di più governo – e questo solo le istituzioni democratiche possono garantirlo» (ivi, pp. 98-99). Lo sappiamo – dovremmo saperlo – in Europa.

«Il secolo XIX è un secolo di speranze infrante, di insurrezioni naufragate, di rivoluzioni fallite». «La grande paura nel secolo XIX si dispiega nella sfera politica, sociale, spirituale, religiosa. Per bandire questa paura le polizie di stato, le censure, le inquisizioni lavorano duramente. Nel XIX secolo, per le personalità più in vista, l’Europa è diventata un carcere. Ben sessanta milioni di persone hanno lasciato l’Europa fra il 1840 e il 1940. Le guerre e le rivoluzioni del nostro secolo XX nascono in modo diretto e immediato dal nostro secolo XIX. Il nostro secolo XIX! Noi che viviamo nella seconda metà del XX secolo siamo figli ed eredi del secolo XIX. In due decenni particolarmente fecondi dal punto di vista creativo, fra il 1790 e il 1810 e fra il 1890 e il 1910, nelle scienze naturali, nelle conquiste della tecnica, nella poesia, nell’arte e nella creazione formale, vengono proposti i modelli e gli esperimenti che rendono possibile agli abitanti di questa terra una civilizzazione globale dell’umanità, insieme unitaria e multiforme, e che preparano i viaggi e le conquiste spaziali e l’insediamento nel cosmo. Poesia, utopia, romanzo, invenzioni e esperimenti parlano già, nell’ultimo terzo del secolo XVIII, una lingua ben chiara: l’uomo vuol superare se stesso; deve superare se stesso, se non vuole soccombere al suicidio e all’autodistruzione» (F. Heer, Europa madre delle rivoluzioni, Milano, Il Saggiatore, 1968, vol. I, pp. 9-10).

«La miseria delle rivoluzioni politiche, la loro disfatta, le loro meschinità, il loro ritornare e ricadere in una barbarie antica e nuova – e il lavoro, spesso per lungo tempo trascurato, disprezzato o addirittura ignorato, degli uomini della rivoluzione interiore, cercatori di Dio, artisti, poeti – cioè il pubblico fallimento di ambedue – oggi dovrebbe chiarire questa verità: la rivoluzione esterna e quella interna appartengono l’una all’altra. I grandi processi sociali e politici del nostro secolo XIX formano, insieme con i processi della rivoluzione interiore, una realtà: la realtà dell’uomo, il quale può ora meglio comprendersi, meglio ritrovarsi sapendo che l’uomo è il prodotto di una storia universale, prima terrestre, poi planetaria, del cui progresso, nelle più varie forme e mutamenti, egli è responsabile: l’uomo è responsabile del senso della propria vita, della storia, della vita sulla terra e nel cosmo» (ivi, pp. 12-13).

In questa pandemia, «il parlamento europeo ieri ha discusso un emendamento al rapporto sul Semestre europeo dove si chiede di superare gli ostacoli posti dai brevetti e dai diritti di proprietà intellettuale. Il voto a favore è stato molto prudente (291 per, ma 195 contro e 204 astenuti). La richiesta di sospensione dei brevetti è stata avanzata dal presidente dell’Oms, Adhanom Ghebreyesus, che si è chiesto: “Se non ora, quando?”. La nuova presidente della Wto, Ngozi Okonjo-Iweala sostiene che l’Organizzazione mondiale del commercio deve favorire l’accesso dei paesi poveri ai vaccini». La Commissione UE ha votato no con i paesi più industrializzati». «La Ue mette avanti il meccanismo Covax a favore dei paesi poveri, a cui aderiscono ora anche gli Usa di Biden», «anche con l’obiettivo di contrastare la diplomazia vaccinale messa in atto dalla Cina e dalla Russia» (A.M. Merlo, Sospendere i brevetti sui vaccini, il Wto dice no, in «Il Manifesto», 12 marzo 2021, on line).

«È la prima emergenza sanitaria globale in cui nuove cure sono distribuite ai paesi poveri quasi insieme ai più ricchi. Un processo certo ingiusto. Ma va festeggiato. Forse non è discontinuità forte come la capacità di sviluppare una faretra di nuovi vaccini in meno d’un anno. Ma impressiona e rincuora» (Vaccinating the world. The great task, in «The Economist», “Today”, 12 marzo 2021, on line). E impone di colmare il deficit di democrazia come fa il Parlamento Europeo che, nell’incontro e scontro di interessi culture visioni, rappresenta l’Europa madre delle rivoluzioni.






 
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