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Memorie di un sogno passato

di Giuseppe Mattia
  Lei mi parla ancora
Data di pubblicazione su web 01/03/2021  

Se le donne sono da sempre capaci di dare la vita e allo stesso tempo affrontare l’assenza, il dolore e il lutto, lo stesso non si può dire degli uomini, spesso inermi e sconfitti di fronte al vuoto di un cuscino al proprio fianco. Ispirato all’autobiografia Lei mi parla ancora - Memorie edite e inedite di un farmacista (2016) dell’allora novantacinquenne Giuseppe Sgarbi, padre di Vittorio ed Elisabetta, il nuovo film di Pupi Avati rimanda già nel titolo a qualcosa di mortifero ma allo stesso tempo di imperitura speranza. Alla veneranda età di ottantatré anni e a due anni di distanza dall’ultimo Il signor Diavolo (2019), il regista bolognese confeziona un’opera intimista di buon livello tecnico e stilistico (si segnalano le suggestive, reiterate inquadrature grandangolari), a dispetto delle importanti restrizioni in fase di produzione a causa dell’emergenza sanitaria. Con un cast di tutto rispetto – dai pluripremiati Renato Pozzetto, Stefania Sandrelli e Fabrizio Gifuni ai più giovani Lino Musella e Isabella Ragonese – il film, nonostante alcuni limiti nella scrittura (soprattutto nei dialoghi), rappresenta un deciso segnale di ripresa di un certo tipo di cinema, come solo in Italia sappiamo fare.


Una scena del film

Nel comune di Ro Ferrarese gli ex farmacisti Nino – interpretato da un Pozzetto più convincente che no in un genere per lui inedito – e “la Rina” – interpretata dalla Sandrelli che nonostante i pochi minuti sullo schermo riesce comunque a incidere – devono fare i conti con la fine della loro coppia, formatasi più di sessant’anni fa. La morte della donna trascina l’uomo in uno stato dapprima catatonico e poi di progressiva accettazione. Nella sua triste vicenda si inserisce, quasi per caso, l’aspirante romanziere Amicangelo (nomen omen) – un Gifuni purtroppo molto limitato dalla sceneggiatura e dal contesto in cui si muove, quasi ingabbiato in certe dinamiche narrative – incaricato dalla figlia del vedovo di raccogliere le memorie del padre, in un percorso che si rivelerà per lui catartico. Proprio sull’asse dei due personaggi maschili si regge buona parte del film, che oscilla tra sogno, memoria e presente. Nino, come il bergmaniano professore de Il posto delle fragole (1957), si ritroverà catapultato in una dimensione “altra” alla ricerca del perduto, del non detto, di ciò che è stato e che mai più ritornerà. A restituire sullo schermo i volti della coppia nel passato ci sono Musella e la Ragonese, forse un tantino in là con gli anni per interpretare quelli che nella storia sono pressappoco ventenni.



Una scena del film

Avati riesce brillantemente a tenere il piede in due scarpe, a mostrare gioventù e vecchiaia intente a nutrirsi contemporaneamente di morte, di passione e di nostalgia. Dalla fredda, funerea fotografia della prima parte, a opera dello storico collaboratore Cesare Bastelli, si passa a tinte più calde nei flashback “onirici” di Nino. Per non parlare del forte simbolismo che pervade il film, frutto del genio del maestro del gotico italiano, come la scarpa nera che cade per sbaglio alla domestica e rende così consapevole del lutto il protagonista. Memorabile a inizio pellicola, inoltre, lo stacco di montaggio dalla parola “immortale” alla barella dell’ambulanza, a precedere la struggente chiamata in sala di rianimazione. Sul versante della scenografia, “barocca” e tetra, un grande elogio va a Giuliano Pannuti per la sua ricostruzione di questa Xanadu in miniatura pullulante di migliaia di cimeli inestimabili. Una pecca da segnalare è purtroppo la mancata registrazione del suono in presa diretta che ha come esito alcune incertezze nella sincronia voci-labbra.



Una scena del film

In una spirale di paura, sofferenza e smarrimento, prende forma l’improbabile dialettica tra la scelta provocatoria di Pozzetto (“ragazzo di campagna” e uomo di cabaret) e quella di Gifuni (intellettuale di città e uomo di teatro). Quest’ultimo interpreta un ghost writer divorziato e con uno stile di vita privo di solidi punti di riferimento che trova non poche difficoltà a “gestire” una storia così intensa come quella di Nino, lui che non è stato nemmeno in grado di “gestire” la propria. Questo personaggio potrebbe idealmente rappresentare l’irruzione del contemporaneo in un libro di memorie novecentesche: un confronto-scontro tra due generazioni e matrimoni diversi. Tra le citazioni da segnalare sicuramente ci sono quelle a Ingmar Bergman (ancora) e al suo Il settimo sigillo (1957), proiettato durante un cineforum giovanile; a Raymond Carver (il romanzo di Amicangelo fa un gioco di parole con il celebre testo What We Talk About When We Talk About Love, 1981); a Cesare Pavese, autore della struggente frase che riassume sostanzialmente l’opera di Avati: «L’uomo mortale, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia».

Sebbene risulti generalmente incompiuto, sebbene alcune tappe siano state bruciate troppo in fretta, sebbene alcuni flashback potessero essere evitati e sebbene il rapporto tra i due uomini potesse essere approfondito meglio, Lei mi parla ancora riesce comunque, senza pretese velleitarie, a funzionare come amabile pretesto per muoversi avanti e indietro nella vita e nei ricordi dello stesso Avati. Se il teatro è più vicino alla vita vera, all’hic et nunc, il cinema si presta maggiormente a una vicinanza con l’immortalità: condizione che il regista ci ricorda essere più un punto di partenza che di arrivo.





Lei mi parla ancora
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