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Lacrime di vetro su guance roventi

di Giuseppe Mattia
  Pieces of a Woman
Data di pubblicazione su web 28/01/2021  

È possibile sopravvivere dopo che si è persa la persona che più si amava? A cosa ci si aggrappa quando sembra che non ci siano più appigli? Il regista ungherese Kornél Mundruczó prova a rispondere a queste domande, come da lui stesso esplicitato durante la conferenza stampa di presentazione del suo primo film in lingua inglese all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Al Lido Pieces of a Woman si è aggiudicato il Premio Arca Cinema Giovani, consentendo inoltre alla magnetica Vanessa Kirby di conquistare la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile e la successiva candidatura ai premi Oscar 2021. Fortemente voluto dal produttore esecutivo Martin Scorsese, il film ha attirato l’attenzione di Netflix che ne ha acquisito i diritti di distribuzione, pubblicandolo sulla propria piattaforma streaming a partire da gennaio 2021. La sceneggiatura di Kata Wéber nasce da una reale esperienza vissuta dalla donna e dal regista stesso, desiderosi di condividere la loro drammatica storia con il pubblico, servendosi dell’arte come panacea per il dolore. 

Nella città di Boston Martha (Kirby) e Sean (Shia LaBeouf) stanno per diventare genitori ma, come ogni tragedia che si rispetti, il destino – sotto le sembianze di un’ostetrica superficiale (Molly Parker) – ha altri programmi in serbo per loro. Costretti ad affrontare disarmati il più inenarrabile dei dolori, la coppia intraprenderà un arduo percorso di risalita e di rinascita. Il film seguirà le loro vicende nell’arco di un anno, con le didascalie a scandire lo scorrere del tempo. Il punto di vista privilegiato è quello di Martha (“donna a pezzi” come suggerisce il titolo), chiamata a gestire il rapporto con sé stessa, con il marito, con la madre e con un processo penale nei confronti dell’apparente causa di ogni male.



Una scena del film

L’esperienza come regista teatrale di Mundruczó trova il suo massimo compimento nel magistrale, struggente piano sequenza iniziale nel quale i tre protagonisti si muovono nevrotici, doloranti, incerti e terrorizzati durante le operazioni di parto. Il tutto è ripreso in tempo reale, senza possibilità di rifiatare o chiudere gli occhi, in una situazione di puro voyeurismo. Il risultato è stilisticamente impeccabile e memorabile, grazie anche all’imprescindibile commento sonoro del leggendario Howard Shore, già collaboratore di Scorsese in After Hours (1985). Essendo strutturato a mo’ di Kammerspielfilm (il progetto iniziale prevedeva un allestimento teatrale), il film punta in maniera decisiva sulle prove attoriali. Azzeccata la scelta di affidare il ruolo di Marta all’attrice londinese –presente in Concorso a Venezia anche con The World to Come di Mona Fastvold (nei panni di una donna omosessuale nel XIX secolo) –; così come convince il ruolo di co-protagonista affidato a LaBeouf, divenuto celebre per la serie cinematografica Transformers. Da sottolineare che i due avevano già recitato insieme in Charlie Countryman (2013) di Fredrik Bond. Non è possibile, inoltre, non menzionare l’immensa Ellen Burstyn – nel ruolo della dispotica madre di Martha – anch’ella a suo tempo diretta da Scorsese nel meraviglioso Alice Doesn’t Live Here Anymore (1974). 

La soluzione registica di prendere subito “per la collottola” lo spettatore consente al seguito della pellicola di vivere di rendita, con un ritmo che va progressivamente appiattendosi, privo di ulteriori picchi emozionali. Tuttavia, dalla tragedia dell’ouverture si dipanano arringhe che colpiscono la società, sempre più egoista e cinica; la burocrazia, sempre più farraginosa e cieca; le disuguaglianze tra il ceto abbiente e quello proletario. Martha ha il compito di incollare e rimettere assieme tutti i pezzi della sua vita andata in frantumi, costretta a tenere a bada gli ingombranti sensi di colpa, l’ira repressa e l’impossibilità di ritornare all’equilibrio prepartum. Tra tutti, il rapporto con Sean, destinato a naufragare quando i due si rendono conto di essere incastrati in un limbo, incapaci di voltare pagina.



Una scena del film

L’ultima fatica di Mundruczó ha il merito di creare sullo schermo un pathos intenso, quasi totalmente accentrato sulla Kirby (in pole position per i prossimi Oscar) e sulle sue camminate solitarie che ricordano tanto quelle malinconiche di Jeanne Moreau in Ascenseur pour l’échafaud (1958) di Louis Malle. Dai suoi occhi emerge prepotentemente il desiderio di lasciarsi andare, di non allacciare più la cintura di sicurezza, di non ascoltare più la musica, di non avere più pensieri. La macchina da presa si posa su dettagli della casa, come i fiori appassiti o le pile di piatti sporchi nel lavandino, a simboleggiare proprio questo desiderio incontrollabile di scorrere inerti, senza alzare la testa: a tal proposito è memorabile il monologo della madre di Marta, sopravvissuta alla Shoah.

Non esiste insomma vendetta o risarcimento capace di riannodare i fili del tempo. Tocca solo rialzarsi quel tanto che basta per raccogliere una mela dall’albero. 




Pieces of a Woman
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