Nel 2019 una grande
coproduzione internazionale allaperto della Turandot di Giacomo
Puccini è stata annunciata e, di lì a non molto, smentita. I teatri coinvolti
estoni, polacchi, greci, ungheresi e soprattutto quelli italiani si sono
ritirati dal progetto a causa delle restrizioni pandemiche e dei lockdowns.
Il 2020 è stato un anno atipico. Un anno dove on line è diventato the new
black. Archivi digitali, trasmissioni in streaming, registrazioni pirata hanno occupato la rete con prodotti
spesso senza qualità, rinnegando il nucleo fondamentale dellarte lirica:
artisti e pubblico dal vivo.
Quale è stato, dunque, il
mio stupore quando lOpera
Nazionale di Lviv, in Ucraina, mi ha richiamato confermando le date della
produzione per il novembre 2020. E questa volta niente coproduttori, niente
spettacolo di massa allaperto, niente artisti stranieri, ma in compenso
il
pubblico. Non potevo dire di no. Invece sono state chiuse le frontiere. Con lo
scenografo in Italia (zona rossa), la coreografa in Grecia (lockdown) e
io, il regista, in Polonia senza il permesso di abbandonare il mio domicilio per
ragioni di quarantena.
Turandot: complessità del progetto
Ero appena uscito da una
timida esperienza di condurre le prove “da remoto”. Daltronde, la didattica a
distanza è già entrata nella norma e diventata prassi accademica. Come
professore di diverse università e accademie ho escogitato un sistema che
potesse soddisfare per la parte pedagogica, se non per quella performativa
sia me che gli studenti.
Nellottobre 2020 La
voix humaine
di Poulenc è stata la mia prima regia operistica diretta, almeno
allinizio, solo on line.
Sembrava una missione facile: uno spazio ridotto, una sola cantante, un atto unico.
Il Teatr Wielki di Łódź al cui interno cerano più di cinquanta contagi ha
provveduto ad aggirare così la quarantena. Si è quindi deciso di cominciare le prove via Skype:
il maestro preparatore a casa, la cantante in sala prove, il regista in un
hotel: tutti collegati a distanza.
Lesperienza si è poi conclusa
dal vivo. Per le prove generali il teatro ha aperto le porte e ho potuto assistere
in diretta. Così ho verificato tutto quello che Skype aveva omesso e storpiato
con la cattiva qualità della connessione. Invece, purtroppo, si è dovuto
interdire la “prima” al pubblico. Il teatro di Łódź ha deciso di trasmetterla
in televisione. Insoddisfatto, mi sono buttato nella nuova avventura ucraina.
Turandot è unopera molto più complessa della Voix humaine.
Oltre a essere strutturata in tre atti, e a richiedere un apparato tecnico-organizzativo
molto più imponente, esige la coordinazione di due cori, numerosi solisti, comparse,
bande di palcoscenico e infine
presuppone tradizionalmente alte aspettative
del pubblico. La narrazione è abbastanza lineare (per non dire schematica) e ciò
mi ha tranquillizzato sul come e quando “semplificare” la drammaturgia: le mie sono
messe in scena che cercano di ascoltare la volontà del compositore, mentre spesso
non rispettano le didascalie e le tradizioni esecutive.
La mia lettura per il
teatro ucraino si concentrava sulla decadenza dellimpero sotto il governo
(condiviso con il padre?!) della principessa Turandot. La ricostruzione
fiabesca di un Puccini “orientale”, fantasioso nella scenografia e nei costumi,
mi sembrava possibile: un maggior realismo simponeva solo nelle relazioni tra figli e padri
(Calaf/Timur, Turandot/Imperatore) e nella costruzione della psicologia di Liù come
fattore scatenante, con la sua morte, della messa in crisi dellimpero. Quindi
il mio spettacolo si concludeva con la morte di Liù. Ma non per lo scrupolo “filologico”
di evitare di proporre quel duetto finale che Puccini non arrivò a scrivere se
non sotto forma di abbozzo. La mia era una scelta diversa, che per la direzione
di un teatro come quello di Lviv un teatro che ama sperimentare e non teme di
allontanarsi dalla tradizione è apparsa
importante: Timur, piangendo sul corpo di Liù, chiede vendetta e uccide
Turandot, chiudendo così il cerchio narrativo padre-figlio. Nonostante il pubblico si
aspettasse uno spettacolo “spartiacque”, gli spettatori non hanno mancato di
sorprendersi.
Un momento dello spettacolo © ph Ruslan Lytvyn
Per il resto, è stato un allestimento
“classico”. Senza grandi sconvolgimenti. Cerano il muro cinese (scene di Luigi
Scoglio), i costumi strabilianti (Małgorzata Słoniowska), la luna
(proiezioni del light designer Dariusz Albrycht), il
Principe di Persia incarnato dal primo ballerino del teatro: tutti elementi
perfettamente gestibili anche da prove on
line. Lunico dubbio era legato alle azioni del coro. Non solo perché quello di
Lviv è di novanta elementi, ma anche perché, a causa di restrizioni, avrebbero dovuto lavorare
a turni, saltando molte prove. Proprio luso del coro è stato per me il più
grande ostacolo prima di accettare. Mi aspettavo di dover scendere a molti
compromessi sulle idee che avevo circa il suo utilizzo: dunque, ho iniziato a
cercare per tutta la drammaturgia dello spettacolo quale potesse essere il
nuovo “luogo” del coro. Questo è stato lunico cambio strutturale del concetto
originale della mia regia. Un cambio che si è trasformato in una chiave di
lettura.
La decisione di modificare
le azioni del coro ha potuto così rientrare in una dimensione interpretativa. Creando
uno spettacolo pieno di effetti scenici, ma costruito su un dualismo spaziale: un
dentro e un fuori. Il muro divideva due mondi, il pubblico e il privato. Da una
parte, in uno squarcio della muraglia corrosa, le cerimonie mortali del
decadente impero pechinese; dallaltro il proscenio, trasformato nello spazio delle
emozioni e del lavoro introspettivo sui personaggi (uno schema, per inciso, che
poteva aiutare nelle prove a distanza). Tuttavia il coro, secondo il libretto,
partecipa molto alle azioni e, per ovviarvi, la mia scelta è andata verso il
modello della tragedia greca. Quindi, un coro fisso. E fisso sino allesasperazione:
fermo, congelato, “impietrito”. Questa soluzione ha permesso di scaricare le
responsabilità su diversi
gruppi della produzione. Le azioni sceniche dei coristi sono state divise tra
le comparse e il corpo di ballo, mentre il coro è rimasto fermo come simbolo
della città murata. Città senza emozioni. Città dove gli abitanti sono stati
trasformati in guerrieri di terracotta. Solo la morte di Liù poteva smuovere lincantesimo e far tornare lanima in ogni figura.
Così il coro, oltre ad
essere immobilizzato, è diventato portatore del messaggio-chiave dello
spettacolo. La sua trasformazione “mistica” dalla pietra alla vita, grazie al
vero sentimento apparso nella città gelida di Turandot, diventa una vera
chiusura del cerchio interpretativo. Non una semplificazione per immobilizzare
gli artisti, ma unidea forte e coerente del regista moderno. Un momento dello spettacolo © ph Ruslan Lytvyn
La de-costruzione e le
soluzioni tecniche
Una volta deciso di
intraprendere lesperienza a Lviv ho cominciato il lavoro dal “riconoscere il
nemico”. Quali elementi del lavoro potrebbero soffrire di più la mancanza
fisica del regista in teatro? La rifinitura del particolare? Le indicazioni ai
cantanti? La coordinazione dei movimenti? La relazione con
spazio scenografico e personaggi (spesso capita, spostandosi dalla sala prove
al palcoscenico reale)? Ognuno di questi fattori doveva essere analizzato.
Disossato. Sminuzzato. Dissociato in elementi primari. Il che, nel finale del
lavoro, è diventato: schematizzato.
Uno degli
esercizi più interessanti del metodo Lecoq nellarte del
recitare è la suddivisione di una semplice azione in venti gesti o movimenti.
Sedersi su una sedia significava guardarla, avvicinarla, piegare la testa,
toccare il poggiolo, chinare il ginocchio, eccetera. Dopo venticinque anni di
carriera registica ho dovuto fare lo stesso trattamento. Ridurre a elementi
primi le azioni che mi sembrano “normali”, “ovvie”, “scontate”. Un gran lavoro
di analisi minuziosa che diventerà uno dei più grandi bagagli di questa
esperienza. Solo così potevo capire quali attività si danneggiavano lavorando a
distanza. È stato importante eliminare paure e dubbi, rimanere fissi nel freddo
proposito analitico.
A ogni elemento avevo
assegnato soluzioni: solo quando ne mancava una andavo verso leliminazione o
modificazione del progetto. La coreografia si doveva reggere sui video demos
e prove
con coreografa. La scenografia esigeva diverse angolazioni di telecamera e
tanti corrieri internazionali con campioncini e materie. Il lavoro con i
solisti richiedeva un buon assistente, un traduttore e contatti diretti
(privati) via Whatsapp tra il regista e il cantante. Il lavoro con le comparse
e i bambini del coro di voci bianche è stato affidato a grandi maestri di
palcoscenico, che usano schemi artigianali antiche maestrie dei teatri di
repertorio ormai assenti nei teatri europei.
Asciugata
e anatomizzata la costruzione, dunque, si arrivava a trovare le soluzioni.
Invece di divagare su alcuni temi interpretativi, la tecnologia esigeva una
sintesi. Un vettore di movimento. Una direzione precisa. I giochi di parole, le
ironie, quegli scherzi che spesso scaricano la tensione dovevano essere evitati.
Ogni espressione del mio viso, ogni parola detta da quel megaschermo messo in
platea accanto al direttore dorchestra diventava un dogma. Nessuno osava discutere
con Grande Fratello-Prospero-Demiurgo. La paura di avere una connessione interrotta
in qualsiasi momento rinforzava quella sensazione dellassoluto. E io dovevo formulare
messaggi diretti, pronti, chiari. Insomma, ben preparati.
Tutta lazione
scenica era disegnata sulle piante schematiche della scenografia. Ogni passo era
diventato una freccia descritta con annotazioni e riferimenti allo spartito.
Ogni spostamento dei ballerini o delle comparse veniva accompagnato con le
icone di oggetti-attrezzeria. I colori delle linee e una serie di vettori
diversificavano i personaggi. Ogni rigo della musica aveva il suo disegno e la
sua spiegazione. Grazie a questo sistema ero riuscito a sorprendere tutti
montando la struttura del primo, secondo e terzo atto in tre prove. Su questa
costruzione eravamo liberi di aggiungere motivazioni, incongruenze, emozioni: in
breve, la vita dei personaggi. Un momento dello spettacolo © ph Ruslan Lytvyn
Questa
fase diventava più complessa, tanto più che si trattava di lavorare con quattro
diversi cast. Per parlare delle intenzioni devi avere già una relazione
umana con il tuo interprete. Sapere quali sono i suoi limiti, i suoi talenti, i
suoi blocchi, le sue aspettative di artista. In questa fase soccorrevano i
messaggi vocali con Whatsapp e le conversazioni senza traduttore: non è facile
ammettere la propria paura di fronte a tutti (e i microfoni di Skype arrivavano
fino agli uffici del teatro).
Non
conoscevo il cast. Tutti i cantanti appartenevano alla famiglia del Teatro
nazionale ucraino: un sistema di lavoro, valutazione e interpretazione diverso
dal mio. Quello che nelle mie esperienze con gli artisti europei e, ancora
più, con quelli americani mi era sembrato facile qua si scontrava con la
tradizione di unaltra scuola. Possiamo dimenticarci la fisicità di Grotowski
e tornare alle basi di Stanislawski. Sono ammiratore di tutti e due, ma
come sappiamo, nellultima fase di lavoro didattico le loro teorie si sono
quasi sovrapposte. In Ucraina nessuno pensava però a queste sfumature, le
domande degli artisti riguardavano più la vita psicologica che quella fisica
del personaggio. Invece il mio metodo, soprattutto in una situazione a
distanza, proponeva un movimento o situazione come spunto per costruire un
personaggio scenico. Dalla fisicità di una scena si arrivava alla sua emozione
senza approfondire i traumi dellinfanzia.
Questo non
vuol dire che la mia messinscena non entrava nei meandri della psiche umana. Anzi,
la relazione tra Calaf e suo padre (abbandonato dal figlio) è stata la chiave
registica di tutte le azioni del tenore. Quasi una Turandot come
capitolo della guida freudiana dei complessi edipici: che però, in questo caso,
venivano spiegati in una sequenza di azioni-reazioni tra figlio e padre.
Legocentrismo e il narcisismo di tutti e due erano costruiti in una danza di
piccoli gesti di rifiuto, abbandono, noncuranza. Le reazioni emotive scaturite
da ogni movimento approdavano così a una rete di intenzioni, senza dover
spiegare che cosa fosse successo nel passato tra il figlio e il padre in
questione.
Non tutti i
solisti capivano il sistema, però dovevano fidarsi: non cera tempo né
occasione per fare domande. Nel collegamento Internet seguivano le prove del ballo su cui era spostato lenorme
peso drammaturgico del primo atto. Allalter ego di Calaf il Principe di
Persia è stato trasferito tutto quel ruolo narrativo secondo cui normalmente
il coro corre, cade, trascina, combatte contro le guardie, ammira la luna e la
principessa. Mentre qui i coristi restavano, appunto, bloccati come metaforiche
figure impietrite. Un esercito di terracotta. Un momento dello spettacolo © ph Ruslan Lytvyn
Il lavoro
con i ballerini si svolgeva in due modi: con i demos preparati dalla
coreografa in Grecia (con allievi di una scuola di danza) e con i video della
coreografa stessa (visto il lockdown e limpossibilità di spostamenti
dei ballerini-campioni). Una volta arrivate le registrazioni il maestro di
ballo del teatro preparava danzatori e danzatrici, mentre la coreografa Diana
Theocharidis correggeva le loro prove in diretta Skype. Altre
preoccupazioni riguardanti la modalità “a distanza” venivano risolte strada facendo.
Due cose
sono rimaste come limiti di questa esperienza, e sono quelle che mi sono
mancate di più: linevitabile mancanza di una visione a trecentosessanta gradi
e lintimità di relazioni con gli artisti. Quellimpossibilità, insomma, di
creare con loro un codice di comunicazione fatto di battute, barzellette, ironia,
autoironia. Lincontro produttivo di ogni spettacolo crea una vera famiglia.
Preferenze, simpatie e antipatie, avvicinamenti e giochi di potere sono alle
base della vita di ogni gruppo che condivide gli stessi obiettivi, le medesime paure.
Qui la mancata presenza del regista sembrava un fatto quasi doloroso.
Quanto alla
visione a trecentosessanta gradi che mi è venuta meno, è in fondo una metafora
del controllo e della partecipazione “totale” a una produzione da parte del
regista. Non potendo esserci dal vivo, non potevo seguire i discorsi sindacali,
vedere i problemi tecnici dietro le quinte, partecipare alle riunioni di
gestione o di emergenza. Non potevo neppure semplicemente girarmi in platea per
studiare le reazioni dei primi spettatori: addette alla pulizia o bidelli che,
durante le prove, appaiono sempre nel teatro vuoto e ridono, si trattengono con
la scopa in mano oppure proseguono senza interesse. Queste sono le prime dritte
che riceve il regista: i primi commenti di un pubblico vero, un pubblico
popolare. Altro
problema grave poteva essere la mancanza di una verifica di colori, atmosfere,
sfumature delle luci e delle proiezioni. La telecamera modifica e falsifica di
gran lunga tutti i parametri. Per fortuna il mio light designer è stato presente
per tutto il tempo delle prove generali.
Se il sistema tecnologico sembrava abbastanza complesso, il
teatro di Lviv è stato preparato a regola darte per condurre e trasmettere le
prove via Skype (cerano quattro responsabili alla connessione e alla sua
qualità): schermo gigante messo in prima fila accanto al direttore dorchestra;
microfoni che raccoglievano voci dei solisti, coro e orchestra distribuiti in quattro
linee; e la mia voce che, grazie agli altoparlanti, arrivava alla platea come
al proscenio, al fondo palcoscenico, dietro le quinte.
Intanto stavo in contatto diretto via Whatsapp con la mia
assistente e lassistente della coreografa. Il direttore tecnico riceveva le
domande via Messenger per non sovraccaricare le linee Whatsapp. La mia scrivania
sembrava unautentica postazione di comando. Due schermi, quattro telefoni,
disegni tecnici di ogni scena, due penne per gli appunti, macchina fotografica
e telecamera per qualche dimostrazione ad hoc da inviare nelle pause di
prova. Il mestiere del regista è una professione di coordinazione. Questa
esperienza lo ha dimostrato e sottolineato ancora di più.
La
verifica
Arriva il
momento della verifica. La prima. Normalmente, per un regista, è anche un momento di impotenza. Per questo motivo non guardo i
miei spettacoli. Non posso migliorarli, correggerli, avvertire di qualche
pericolo. Sono gli interpreti che devono gestire da soli il nuovo fattore, cioè
il pubblico. Aggiustano le mie indicazioni, si adattano alle nuove condizioni:
reazioni, sussurri, risate. Il regista, nel fondo della sala buia, ormai è superfluo.
Tutto è nelle mani dei cantanti-attori. Un momento dello spettacolo © ph Ruslan Lytvyn
Nel caso del
lavoro in Ucraina ho sfruttato un nuovo elemento: la telecamera che ci aveva
accompagnato durante le prove. Senza poter assistere alla prima dal vivo ho
chiesto di girare la telecamera verso
gli spettatori. E ho potuto vedere
reazioni, incomodità, sconvolgimenti. Seguendo, in questo, lesempio di
due grandi maestri: da un lato il mio professore a Bologna Umberto Eco
e la sua Opera aperta, dallaltra il mio idolo Ingmar
Bergman e il suo Flauto magico. La telecamera, nei primi
accordi ad alzar di sipario, seguiva gli sguardi e spiava le emozioni del
pubblico. È lui il vero creatore delloggetto darte.
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