A sei anni dal suggestivo Gone Girl (2014), David Fincher ritorna al cinema in quello che verrà ricordato come annus horribilis per la settima arte e non solo. Vincitore di due premi Oscar (fotografia e scenografia), Mank, prodotto e distribuito su Netflix (con cui il regista ha già collaborato per diverse produzioni), è un biopic sullo sceneggiatore newyorkese Herman J. Mankiewicz (Gary Oldman), fratello maggiore del ben più celebre regista Joseph (Tom Pelphrey). La storia di Mank, sviluppata nellarco di una decina danni, si sofferma parallelamente sulla realizzazione della sceneggiatura di Citizen Kane (1941), diretto dallallora enfant prodige Orson Welles (Tom Burke). Lidea di mettere in scena un film biografico come pretesto per raccontare sia un processo creativo di scrittura sia un contesto socio-culturale vanta svariati precedenti, da Finding Neverland (2004) di Marc Forster – sulla nascita del personaggio di Peter Pan – a Saving Mr. Banks (2013) di John Lee Hancock, sulla produzione del film Mary Poppins (1964) di Robert Stevenson. Mank – sceneggiato negli
anni Novanta da Jack Fincher, padre del regista – trasporta lo
spettatore direttamente nella Hollywood degli anni Trenta e Quaranta, dalla
Grande depressione alla Seconda guerra mondiale. Il protagonista viene
ingaggiato dal ventiquattrenne Welles, fresco di contratto con la RKO, per
scrivere la sceneggiatura del sopracitato Citizen Kane. Allettato in
seguito a un incidente dauto, Herman lavora al progetto in compagnia della stenografa
Rita (Lily Collins), ricevendo le visite regolari del collaboratore di
Welles John Houseman (Sam Troughton), finalizzate a
ricordargli la scadenza per la consegna dello script. La narrazione del
film è scandita dalla presenza di flashback introdotti da intestazioni
identiche a quelle presenti nelle sceneggiature (interno, giorno, descrizione,
data), quasi a rimarcare il fatto che i ricordi del protagonista siano materia
soggettiva, una libera interpretazione di come le vicende abbiano avuto luogo. Lo
scopo di questo escamotage è di mostrare la genesi dei personaggi e
delle vicende presenti nella sceneggiatura, sulla base del vissuto di Mank: ad
esempio il tycoon William Randolph Hearst (Charles Dance)
diventerà Charles Forster Kane mentre lattrice Marion Davies (Amanda
Seyfried) diventerà Susan Alexander Kane.
Una scena del film
Il film
di Fincher si trasforma a un certo punto in una vera e propria arringa contro
il fulcro del cinema mondiale, rappresentando la diatriba tra un individuo “libero”
e un sistema produttivo castrante e in ginocchio per via della crisi economica.
Nonostante luomo Mank – con cui Oldman firma probabilmente la sua migliore
interpretazione – venga presentato come uno scommettitore accanito nonché
alcolista che arriva a vomitare su tappeti da migliaia di dollari, traspare lo
stesso la sua natura di Don Chisciotte che si dimena contro titanici mulini a
vento: un antieroe che nel silenzio dellumiltà favorì lingresso in America di
centinaia di tedeschi antinazisti, negli anni in cui lavvento del Fuhrer veniva
visto nel Nuovo Mondo con curiosità e quasi ammirazione. Amato ma allo stesso
tempo temuto per la sua schiettezza, Mank è un corpo estraneo nella Hollywood
dei grandi produttori come Louis B. Mayer (Arliss Howard), David
O. Selznick (Toby Leonard Moore) e Irving Thalberg (Ferdinand
Kingsley), figura che ispirò Francis Scott Fitzgerald per il
protagonista del suo romanzo incompiuto The Last Tycoon che funse poi da
soggetto per l'omonima trasposizione cinematografica di Elia Kazan nel
1976. Nonostante si trovasse nel periodo di poco precedente alla celebre
“caccia alle streghe” attuata dal Senatore Joseph McCarthy, Mank è quel
cavaliere spavaldo a favore delle nuove spinte socialiste, a dispetto dei
tentativi di Hollywood di sostenere il Partito Repubblicano. Fincher veste i
panni di radiologo nellanalizzare scientificamente tutto un humus di
ipocrisie e di cinismo nascosti dietro fiumi di champagne e di
meravigliose attrici e ballerine.
Una
delle questioni più calde chiamate in causa in Mank riguarda la
paternità dellopera filmica. A seconda dellarea geografica e del periodo
storico, tale onore (ma anche onere) è stato attribuito ai produttori, ai
registi, agli sceneggiatori o addirittura agli attori. Se questa tematica era
stata già brillantemente portata alla ribalta da Vincente Minnelli in The
Bad and the Beautiful (1952), Fincher rimarca qui il ruolo dello
sceneggiatore – definito da Cesare Zavattini un “mestiere zoppo” – al
cospetto della sempre più dilagante auteur theory che annichilisce
qualsiasi altro merito per quanto riguarda la responsabilità di un film. Tale vexata
quaestio ha in sé un deciso portato contemporaneo, contribuendo alla
costruzione di collegamenti tra il passato di Mankiewicz e il presente di
Fincher. Su tutto la volontà di riportare il pubblico nelle sale
cinematografiche; lavversione americana verso il socialismo (si pensi allesclusione
di Bernie Sanders nella corsa alla Casa Bianca); lo sconfinamento del
cinema nella politica, ad esempio il falso cinegiornale che si erge a progenitore
delle moderne fake news. Mank è la prova tangibile che uno
sceneggiatore può fare più frastuono di unintera campagna politica.
Una scena del film
Il protagonista presenta una serie di sfaccettature che lo rendono poliedrico, labirintico un po come Kane (non a caso Borges definì il film di Welles usando lespressione «labirinto senza centro»). E a suo modo, come Kane, è circondato da personaggi univoci, privi di riflessi altri. Mank è geniale nella sua inettitudine e per questo funziona sul piano drammaturgico, proprio perché è fallace nelle sue debolezze e nelle sue tiepide prese di coscienza di sé stesso e di ciò che lo ha sempre circondato. Dal punto di vista tecnico e stilistico emergono lindubbia cura e premura sia per il girato ma soprattutto per il cinema tout court: dalle sovrimpressioni al suono analogico, dalla regia alleffetto fotografico della pellicola in bianco e nero fino alle singole interpretazioni che non fanno altro che richiamare proprio le produzioni filmiche di quel periodo. Senza parlare poi del finissimo e colto citazionismo, donato quasi esclusivamente agli appassionati di storia del cinema.
Nonostante
un ritmo poco incalzante dovuto in parte a una scrittura frammentaria (che fu invece
punto di forza in Citizen Kane), Mank è una boccata daria dossigeno
in questo 2020: è il ritorno fragoroso a un cinema che meraviglia, dove forma e
contenuto si contendono il seguipersone e dove persiste ancora la fantasia, lillusione
di credere che King Kong sia alto davvero dieci metri e che Mary Pickford sia
davvero vergine a quarantanni.
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