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Hollywood tra cellulosa e celluloide

di Giuseppe Mattia
  Mank
Data di pubblicazione su web 07/12/2020  

A sei anni dal suggestivo Gone Girl (2014), David Fincher ritorna al cinema in quello che verrà ricordato come annus horribilis per la settima arte e non solo. Vincitore di due premi Oscar (fotografia e scenografia), Mank, prodotto e distribuito su Netflix (con cui il regista ha già collaborato per diverse produzioni), è un biopic sullo sceneggiatore newyorkese Herman J. Mankiewicz (Gary Oldman), fratello maggiore del ben più celebre regista Joseph (Tom Pelphrey). La storia di Mank, sviluppata nell’arco di una decina d’anni, si sofferma parallelamente sulla realizzazione della sceneggiatura di Citizen Kane (1941), diretto dall’allora enfant prodige Orson Welles (Tom Burke). L’idea di mettere in scena un film biografico come pretesto per raccontare sia un processo creativo di scrittura sia un contesto socio-culturale vanta svariati precedenti, da Finding Neverland (2004) di Marc Forster – sulla nascita del personaggio di Peter Pan – a Saving Mr. Banks (2013) di John Lee Hancock, sulla produzione del film Mary Poppins (1964) di Robert Stevenson.

Mank – sceneggiato negli anni Novanta da Jack Fincher, padre del regista – trasporta lo spettatore direttamente nella Hollywood degli anni Trenta e Quaranta, dalla Grande depressione alla Seconda guerra mondiale. Il protagonista viene ingaggiato dal ventiquattrenne Welles, fresco di contratto con la RKO, per scrivere la sceneggiatura del sopracitato Citizen Kane. Allettato in seguito a un incidente d’auto, Herman lavora al progetto in compagnia della stenografa Rita (Lily Collins), ricevendo le visite regolari del collaboratore di Welles John Houseman (Sam Troughton), finalizzate a ricordargli la scadenza per la consegna dello script. La narrazione del film è scandita dalla presenza di flashback introdotti da intestazioni identiche a quelle presenti nelle sceneggiature (interno, giorno, descrizione, data), quasi a rimarcare il fatto che i ricordi del protagonista siano materia soggettiva, una libera interpretazione di come le vicende abbiano avuto luogo. Lo scopo di questo escamotage è di mostrare la genesi dei personaggi e delle vicende presenti nella sceneggiatura, sulla base del vissuto di Mank: ad esempio il tycoon William Randolph Hearst (Charles Dance) diventerà Charles Forster Kane mentre l’attrice Marion Davies (Amanda Seyfried) diventerà Susan Alexander Kane.



Una scena del film

Il film di Fincher si trasforma a un certo punto in una vera e propria arringa contro il fulcro del cinema mondiale, rappresentando la diatriba tra un individuo “libero” e un sistema produttivo castrante e in ginocchio per via della crisi economica. Nonostante l’uomo Mank – con cui Oldman firma probabilmente la sua migliore interpretazione – venga presentato come uno scommettitore accanito nonché alcolista che arriva a vomitare su tappeti da migliaia di dollari, traspare lo stesso la sua natura di Don Chisciotte che si dimena contro titanici mulini a vento: un antieroe che nel silenzio dell’umiltà favorì l’ingresso in America di centinaia di tedeschi antinazisti, negli anni in cui l’avvento del Fuhrer veniva visto nel Nuovo Mondo con curiosità e quasi ammirazione. Amato ma allo stesso tempo temuto per la sua schiettezza, Mank è un corpo estraneo nella Hollywood dei grandi produttori come Louis B. Mayer (Arliss Howard), David O. Selznick (Toby Leonard Moore) e Irving Thalberg (Ferdinand Kingsley), figura che ispirò Francis Scott Fitzgerald per il protagonista del suo romanzo incompiuto The Last Tycoon che funse poi da soggetto per l'omonima trasposizione cinematografica di Elia Kazan nel 1976. Nonostante si trovasse nel periodo di poco precedente alla celebre “caccia alle streghe” attuata dal Senatore Joseph McCarthy, Mank è quel cavaliere spavaldo a favore delle nuove spinte socialiste, a dispetto dei tentativi di Hollywood di sostenere il Partito Repubblicano. Fincher veste i panni di radiologo nell’analizzare scientificamente tutto un humus di ipocrisie e di cinismo nascosti dietro fiumi di champagne e di meravigliose attrici e ballerine.



Una scena del film

Una delle questioni più calde chiamate in causa in Mank riguarda la paternità dell’opera filmica. A seconda dell’area geografica e del periodo storico, tale onore (ma anche onere) è stato attribuito ai produttori, ai registi, agli sceneggiatori o addirittura agli attori. Se questa tematica era stata già brillantemente portata alla ribalta da Vincente Minnelli in The Bad and the Beautiful (1952), Fincher rimarca qui il ruolo dello sceneggiatore – definito da Cesare Zavattini un “mestiere zoppo” – al cospetto della sempre più dilagante auteur theory che annichilisce qualsiasi altro merito per quanto riguarda la responsabilità di un film. Tale vexata quaestio ha in sé un deciso portato contemporaneo, contribuendo alla costruzione di collegamenti tra il passato di Mankiewicz e il presente di Fincher. Su tutto la volontà di riportare il pubblico nelle sale cinematografiche; l’avversione americana verso il socialismo (si pensi all’esclusione di Bernie Sanders nella corsa alla Casa Bianca); lo sconfinamento del cinema nella politica, ad esempio il falso cinegiornale che si erge a progenitore delle moderne fake news. Mank è la prova tangibile che uno sceneggiatore può fare più frastuono di un’intera campagna politica.



Una scena del film

Il protagonista presenta una serie di sfaccettature che lo rendono poliedrico, labirintico un po’ come Kane (non a caso Borges definì il film di Welles usando l’espressione «labirinto senza centro»). E a suo modo, come Kane, è circondato da personaggi univoci, privi di riflessi altri. Mank è geniale nella sua inettitudine e per questo funziona sul piano drammaturgico, proprio perché è fallace nelle sue debolezze e nelle sue tiepide prese di coscienza di sé stesso e di ciò che lo ha sempre circondato. Dal punto di vista tecnico e stilistico emergono l’indubbia cura e premura sia per il girato ma soprattutto per il cinema tout court: dalle sovrimpressioni al suono analogico, dalla regia all’effetto fotografico della pellicola in bianco e nero fino alle singole interpretazioni che non fanno altro che richiamare proprio le produzioni filmiche di quel periodo. Senza parlare poi del finissimo e colto citazionismo, donato quasi esclusivamente agli appassionati di storia del cinema.

Nonostante un ritmo poco incalzante dovuto in parte a una scrittura frammentaria (che fu invece punto di forza in Citizen Kane), Mank è una boccata d’aria d’ossigeno in questo 2020: è il ritorno fragoroso a un cinema che meraviglia, dove forma e contenuto si contendono il seguipersone e dove persiste ancora la fantasia, l’illusione di credere che King Kong sia alto davvero dieci metri e che Mary Pickford sia davvero vergine a quarant’anni.



Mank
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