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Berlino. Sinfonia di un grande abisso

di Giuseppe Mattia
  Undine
Data di pubblicazione su web 04/12/2020  

Habitué della Berlinale, il sessantenne Christian Petzold ha presentato all’ultima edizione del Festival tedesco Undine, vincitore dell’Orso d’argento per la migliore attrice a Paula Beer e del Premio FIPRESCI, conferito dalla federazione internazionale della stampa cinematografica. Il film conferma la propensione del regista tedesco ad affidare il ruolo principale delle sue opere a figure femminili complesse, come dimostrano le sue precedenti collaborazioni con l’attrice Nina Hoss. Ispirato al mito folkloristico germanico delle undine, creature d’acqua che rimandano alle Nereidi greche cantate da Omero, l’ultima fatica di Petzold mette in scena le vicende amorose e tragiche della protagonista in chiave fantasy e melodrammatica.

Come in un film della Nouvelle Vague francese, al tavolino di un bar Johannes (Jacob Matschenz) rivela a Undine (Paula Beer) le sue intenzioni di porre fine alla loro relazione, in un silenzioso, reiterato utilizzo di campi e controcampi. La donna in tutta tranquillità mette in guardia l’uomo sul tragico destino che lo aspetta qualora perseverasse nella sua decisione. Poi, apparentemente impassibile, torna al suo lavoro di storica freelance presso il Märkisches Museum di Berlino, guidando gruppi di visitatori nella storia della città (edificata profeticamente su una palude) attraverso plastici che testimoniano uno sviluppo urbano condizionato in larga parte dai maggiori avvenimenti del Novecento. Questo incipit di orientamento storico-architettonico è fondamentale per addentrarsi nella comprensione di questa fiaba contemporanea che si rifà a un mito tanto caro anche alla letteratura romantica. Petzold, qui anche in veste di (unico) sceneggiatore, utilizza l’idea di riempimento dei vuoti urbani – rappresentati dalle massicce costruzioni nella parte orientale della città, un tempo sotto la giurisdizione sovietica della DDR – mettendola in rapporto alle vacuità emozionali e relazionali dei protagonisti. Un giorno Undine conosce un riparatore di turbine idroelettriche di nome Christoph (Franz Rogowski) con il quale inizia una nuova storia d’amore. Secondo la leggenda le undine non possiedono un’anima fino a quando non si uniscono carnalmente a un uomo, rinunciando in quel caso alla propria immortalità ed esponendosi quindi a tutte le lacerazioni sentimentali dei comuni mortali.



Una scena del film

Dopo aver già riproposto in chiave moderna un mito antico – quello della fenice – ne Il segreto del suo volto (Phoenix) del 2014, Petzold affonda le mani nel genere del melodramma fiabesco, ponendo nello spettatore numerosi dubbi sui concetti di verità e di progresso. Nel film si dipana un continuo dialogo tra passato e presente, tra mito e modernità, passando da Bach ai Bee Gees, da Guglielmo I a cancellieri non ancora nati, attualizzando l’immaginario acquatico di Jules Verne e le allucinazioni oniriche de L’Atalante (1934) di Jean Vigo. Il regista costruisce una serie di relazioni amorose a mo’ di stratificazione urbana che tiene in considerazione il passato per progettare il futuro. L’onomastica ha poi un’importanza centrale. Per far sì che la leggenda si consumi, Undine (nome che richiama fin troppo dichiaratamente la sua natura di ninfa acquatica) deve compiere la propria vendetta contro Johannes, nome che a sua volta rimanda a quel Ioannes Baptista tradizionalmente associato all’acqua e alla seguente frase rivolta a Gesù (il nuovo amore della protagonista si chiama guarda caso Christoph): «Egli deve crescere e io invece diminuire» (Giovanni 3, 30). C’è in questa sentenza l’idea di sacrificio che si dovrà concretizzare per chiudere apparentemente il cerchio fiabesco e drammatico degli eventi.



Una scena del film
 
Sebbene la pellicola sia impregnata di scelte visive di grande spessore, come le visioni subacquee di Christoph e come le scene d’amore dei due protagonisti, la storia risulta a tratti macchinosa e sconnessa per l’assenza di un filo conduttore, con vuoti nella trama e voli pindarici che sembrano derivare da indecisioni narrative. Le relazioni dei protagonisti restano in bilico sul vago, sull’incomprensibile, sul possibile. Lo spettatore aggrotta più volte le sopracciglia davanti al paradosso dell’esistenza quando un personaggio del film telefona un altro nonostante sia stato dichiarato cerebralmente morto ore prima. Da elogiare invece, come già accennato, la regia e la recitazione degli attori, specialmente della Beer che aveva già dato prova delle sue capacità interpretative a Venezia con Frantz (2016) di François Ozon. La rilettura del mito di Petzold, che vede precedenti illustri come Jean Giraudoux e Hans Christian Andersen, ha comunque il merito di aver proposto qualcosa di sperimentale, intrecciando il contesto sociale e urbano con un realismo onirico che sembra ormai cinematograficamente estinto.



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