Habitué della Berlinale, il
sessantenne Christian Petzold ha presentato allultima edizione del
Festival tedesco Undine, vincitore dellOrso dargento per la migliore
attrice a Paula Beer e del Premio FIPRESCI, conferito dalla federazione
internazionale della stampa cinematografica. Il film conferma la propensione del
regista tedesco ad affidare il ruolo principale delle sue opere a figure
femminili complesse, come dimostrano le sue precedenti collaborazioni con lattrice
Nina Hoss. Ispirato al mito folkloristico germanico delle undine,
creature dacqua che rimandano alle Nereidi greche cantate da Omero, lultima
fatica di Petzold mette in scena le vicende amorose e tragiche della
protagonista in chiave fantasy e melodrammatica.Come
in un film della Nouvelle Vague francese, al tavolino di un bar Johannes
(Jacob Matschenz) rivela a Undine (Paula Beer) le sue intenzioni di
porre fine alla loro relazione, in un silenzioso, reiterato utilizzo di campi e
controcampi. La donna in tutta tranquillità mette in guardia luomo sul tragico
destino che lo aspetta qualora perseverasse nella sua decisione. Poi, apparentemente
impassibile, torna al suo lavoro di storica freelance presso il Märkisches
Museum di Berlino, guidando gruppi di visitatori nella storia della città
(edificata profeticamente su una palude) attraverso plastici che testimoniano uno
sviluppo urbano condizionato in larga parte dai maggiori avvenimenti del
Novecento. Questo incipit di orientamento storico-architettonico è
fondamentale per addentrarsi nella comprensione di questa fiaba contemporanea
che si rifà a un mito tanto caro anche alla letteratura romantica. Petzold, qui
anche in veste di (unico) sceneggiatore, utilizza lidea di riempimento dei
vuoti urbani – rappresentati dalle massicce costruzioni nella parte orientale
della città, un tempo sotto la giurisdizione sovietica della DDR – mettendola in
rapporto alle vacuità emozionali e relazionali dei protagonisti. Un giorno Undine
conosce un riparatore di turbine idroelettriche di nome Christoph (Franz
Rogowski) con il quale inizia una nuova storia damore. Secondo la leggenda
le undine non possiedono unanima fino a quando non si uniscono carnalmente a
un uomo, rinunciando in quel caso alla propria immortalità ed esponendosi
quindi a tutte le lacerazioni sentimentali dei comuni mortali.
Una scena del film
Dopo
aver già riproposto in chiave moderna un mito antico – quello della fenice – ne
Il segreto del suo volto (Phoenix) del 2014, Petzold affonda le
mani nel genere del melodramma fiabesco, ponendo nello spettatore numerosi
dubbi sui concetti di verità e di progresso. Nel film si dipana un continuo
dialogo tra passato e presente, tra mito e modernità, passando da Bach
ai Bee Gees, da Guglielmo I a cancellieri non ancora nati, attualizzando
limmaginario acquatico di Jules Verne e le allucinazioni oniriche de
LAtalante (1934) di Jean Vigo. Il regista costruisce una
serie di relazioni amorose a mo di stratificazione urbana che tiene in
considerazione il passato per progettare il futuro. Lonomastica ha poi unimportanza
centrale. Per far sì che la leggenda si consumi, Undine (nome che richiama fin
troppo dichiaratamente la sua natura di ninfa acquatica) deve compiere la
propria vendetta contro Johannes, nome che a sua volta rimanda a quel Ioannes
Baptista tradizionalmente associato allacqua e alla seguente frase rivolta
a Gesù (il nuovo amore della protagonista si chiama guarda caso Christoph):
«Egli deve crescere e io invece diminuire» (Giovanni 3, 30). Cè in questa sentenza
lidea di sacrificio che si dovrà concretizzare per chiudere apparentemente il
cerchio fiabesco e drammatico degli eventi.
Una scena del film Sebbene la pellicola sia impregnata di scelte visive di grande spessore, come le visioni subacquee di Christoph e come le scene damore dei due protagonisti, la storia risulta a tratti macchinosa e sconnessa per lassenza di un filo conduttore, con vuoti nella trama e voli pindarici che sembrano derivare da indecisioni narrative. Le relazioni dei protagonisti restano in bilico sul vago, sullincomprensibile, sul possibile. Lo spettatore aggrotta più volte le sopracciglia davanti al paradosso dellesistenza quando un personaggio del film telefona un altro nonostante sia stato dichiarato cerebralmente morto ore prima. Da elogiare invece, come già accennato, la regia e la recitazione degli attori, specialmente della Beer che aveva già dato prova delle sue capacità interpretative a Venezia con Frantz (2016) di François Ozon. La rilettura del mito di Petzold, che vede precedenti illustri come Jean Giraudoux e Hans Christian Andersen, ha comunque il merito di aver proposto qualcosa di sperimentale, intrecciando il contesto sociale e urbano con un realismo onirico che sembra ormai cinematograficamente estinto.
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