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di Giuseppe Mattia
  Residue
Data di pubblicazione su web 04/09/2020  

L’esordio alla regia dello statunitense Merawi Gerima non è un mero film “di riempimento” destinato a sfilare tra i tanti titoli, in concorso e non, di questa atipica edizione della Mostra del cinema di Venezia. La pellicola si inserisce di diritto nelle Giornate degli autori, sezione autonoma nata sul modello della Quinzaine des Réalisateurs di Cannes e dell'Internationales Forum des Jungen Film di Berlino.

Le prime immagini di Residue proiettano lo spettatore nel caos visivo di strade affollate; l’assordante musica hip hop è base ritmica di ragazzi che fanno break dance sulle volanti della polizia. Dopo diversi anni trascorsi a Los Angeles per inseguire il sogno di diventare regista, il giovane Jay (Obinna Nwachukwu) ritorna nel quartiere dov’è cresciuto, Eckington, Washington DC. Armato di videocamera, è intenzionato a realizzare un’opera sulle persone che un tempo erano suoi amici e vicini di casa: un film sui “senza voce”, su chi grida senza essere sentito. Ed è proprio una voce, extradiegetica, che preannuncia a Jay una imminente fine.



Una scena del film
© Biennale Cinema 2020 

In un quartiere ormai irriconoscibile per via della gentrificazione, quasi privo della popolazione autoctona degli afroamericani ormai ghettizzata, il protagonista si muove sbigottito. Il montaggio propone in parallelo episodi del passato e del presente, tra continui, prepotenti flashbacks che mostrano la sua fanciullezza e sequenze che lo vedono impegnato nell’attuale spasmodica ricerca dell’amico d’infanzia Demetrius (Julian Selman), di cui si è persa ogni traccia. Il giovane scomparso è simbolo di un vuoto incolmabile. A bordo strada le persone rimaste nel quartiere attendono un ritrovamento che non avverrà mai, richiamando a loro modo i personaggi di Do the Right Thing (Fa’ la cosa giusta, 1989) di Spike Lee. Come i genitori di Jay (nonostante il poster di Malcolm X affisso sulla parete), tutti hanno ormai smesso di lottare: gli adulti sono obbligati a vendere la propria casa mentre molti coetanei di Jay sono stati arrestati o uccisi. Il protagonista prende progressivamente coscienza di essere diventato un estraneo in patria: nessuno si fida di lui, addirittura si sospetta che sia “passato” dalla parte delle forze dell’ordine. Il suo errore è stato quello di aver abbandonato gli amici al loro destino per fare una vita più agiata sotto il sole della California.


Una scena del film
© Biennale Cinema 2020

Il senso di colpa, di disagio e di disorientamento si traduce in un complesso visivo e sonoro quasi “barocco”: riprese nauseanti con camera a mano, soggettive, dissolvenze incrociate, immagini d’archivio, sovrapposizioni, inquadrature fuori fuoco sovraesposte con colori caldi accesi fino all’inverosimile. Un film di taglio semi-documentaristico a tratti “confusionario” (aggettivo non per forza negativo), che restituisce la sensazione di trovarsi mentalmente e moralmente dentro un caos violento, attraverso svariate tecniche di ripresa e di montaggio a dimostrazione di una notevole padronanza del mezzo cinematografico. 

In questa sovrapposizione fra reale, passato, onirico e presente, Gerima riflette sulla perdita del sé in una società, quella americana contemporanea, sempre più alla deriva tra proteste, malcontenti e disparità sociali e razziali. Forse non a caso il ritorno di Jay avviene in pieno autunno o, per dirla all’americana, in fall, “in caduta”: metafora di ciò che succederà. Come un gas sul punto di erompere, il protagonista è pronto a rivendicare con inaudita veemenza tutto ciò che gli è sfuggito.




Residue
cast cast & credits
 




Il regista Merawi Gerima

 
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