Lesordio
alla regia dello statunitense Merawi Gerima non è un mero film “di riempimento” destinato a sfilare tra i
tanti titoli, in concorso e non, di questa atipica edizione della Mostra del
cinema di Venezia. La pellicola si inserisce di diritto nelle Giornate degli autori, sezione
autonoma nata sul modello della Quinzaine des Réalisateurs di Cannes e
dell'Internationales Forum des Jungen Film di Berlino.
Le
prime immagini di Residue proiettano
lo spettatore nel caos visivo di strade affollate; lassordante musica hip
hop è base ritmica di ragazzi che fanno break dance sulle volanti
della polizia. Dopo diversi anni trascorsi a Los Angeles per inseguire il sogno
di diventare regista, il giovane Jay (Obinna Nwachukwu) ritorna nel
quartiere dovè cresciuto, Eckington, Washington DC. Armato di videocamera, è
intenzionato a realizzare unopera sulle persone che un tempo erano suoi amici
e vicini di casa: un film sui “senza voce”, su chi grida senza essere sentito. Ed
è proprio una voce, extradiegetica, che preannuncia a Jay una imminente fine.
Una scena del film © Biennale Cinema 2020 In
un quartiere ormai irriconoscibile per via della gentrificazione, quasi privo
della popolazione autoctona degli afroamericani ormai ghettizzata, il
protagonista si muove sbigottito. Il montaggio propone in parallelo episodi del
passato e del presente, tra continui, prepotenti flashbacks che mostrano
la sua fanciullezza e sequenze che lo vedono impegnato nellattuale spasmodica ricerca
dellamico dinfanzia Demetrius (Julian Selman), di cui si è persa ogni
traccia. Il giovane scomparso è simbolo di un vuoto incolmabile. A bordo strada
le persone rimaste nel quartiere attendono un ritrovamento che non avverrà mai,
richiamando a loro modo i personaggi di Do the Right Thing (Fa la
cosa giusta, 1989) di Spike Lee. Come i genitori di Jay (nonostante
il poster di Malcolm X affisso sulla parete), tutti hanno ormai smesso di
lottare: gli adulti sono obbligati a vendere la propria casa mentre molti
coetanei di Jay sono stati arrestati o uccisi. Il protagonista prende
progressivamente coscienza di essere diventato un estraneo in patria: nessuno
si fida di lui, addirittura si sospetta che sia “passato” dalla parte delle
forze dellordine. Il suo errore è stato quello di aver abbandonato gli amici
al loro destino per fare una vita più agiata sotto il sole della California. Una scena del film © Biennale Cinema 2020 Il
senso di colpa, di disagio e di disorientamento si traduce in un complesso
visivo e sonoro quasi “barocco”: riprese nauseanti con camera a mano,
soggettive, dissolvenze incrociate, immagini darchivio, sovrapposizioni, inquadrature
fuori fuoco sovraesposte con colori caldi accesi fino allinverosimile. Un film
di taglio semi-documentaristico a tratti “confusionario” (aggettivo non per
forza negativo), che restituisce la sensazione di trovarsi mentalmente e
moralmente dentro un caos violento, attraverso svariate tecniche di ripresa e
di montaggio a dimostrazione di una notevole padronanza del mezzo
cinematografico.
In
questa sovrapposizione fra reale, passato, onirico e presente, Gerima riflette
sulla perdita del sé in una società, quella americana contemporanea, sempre più
alla deriva tra proteste, malcontenti e disparità sociali e razziali. Forse non
a caso il ritorno di Jay avviene in pieno autunno o, per dirla allamericana, in
fall, “in caduta”: metafora di ciò che succederà. Come un gas sul punto di
erompere, il protagonista è pronto a rivendicare con inaudita veemenza tutto
ciò che gli è sfuggito.
|
|