Quando
un attore muore, ad accompagnarlo sono i tanti personaggi interpretati nel
corso della sua carriera, una folla di volti e di voci, una ridda di sensazioni
e sentimenti, che, a ricordarli, tornano a emozionarci e a vivere in quella zona
particolare della memoria degli spettatori, che inizia quando il sipario cala. Sentiamo
allora che lattore è più di un singolo, è la somma di tanti, e per quel bagaglio
di ricordi, che ci lascia in eredità, noi gli siamo grati. Per questo noi
amiamo gli attori. Quando poi ad andarsene, centenario, è lattore Gianrico Tedeschi (Milano, 20 aprile 1920-Pettenasco,
27 luglio 2020), il lascito di rimembranze e di emozioni è talmente ricco che
si fatica a costringerlo nella ristretta dimensione di un articolo, tali e
tanti sono gli echi che suscita dentro di noi.
Eppure,
a mettere ordine nella selva delle memorie che urgono e si affollano e premono,
ci aiuta un libro bellissimo, denso di caldi ricordi, raccolti dalla figlia Enrica Tedeschi (Semplice, buttato via, moderno. Il “teatro per la vita” di Gianrico
Tedeschi, postfazione di Luciano Zani, Roma, Viella, 2019), in una lunga
conversazione, dipanatasi negli ultimi anni di vita del padre. È come se
Cordelia avesse ritrovato il suo Lear rinsavito. Più che una biografia, una
testimonianza, ma anche la chiave per capire come mai Tedeschi occupava un
posto di riguardo nella scala degli affetti di noi spettatori. Abbiamo
avvertito dietro i suoi personaggi luomo, la sua carica di umanità e di
ironia, una leggerezza e una svagatezza sotto le quali si intuiva una
profondità riflessiva mai esibita, e ne restammo affascinati. Questo libro,
così diverso dalla tradizionale memorialistica di attore, ci permette oggi di
precisare meglio quella nostra intuizione. A partire dal peso delle pagine in
esso dedicate allesperienza di vita di giovane ufficiale internato in un campo
di prigionia tedesco, dopo l8 settembre 1943, e sino alla fine della guerra,
che costituiscono una giusta premessa per capire la complessità e il rigore
dellattore.
La
sua vocazione teatrale scaturisce da quellesperienza dolorosa, quando, interpretandolo
in una squallida baracca del campo dinternamento, scoprì laffinità tra la sua
condizione di recluso e la lucida follia dellEnrico IV pirandelliano. Ad anni di distanza, portandolo in
palcoscenico, volle evocare quellesperienza: «il teatro per la vita! In prigionia, recitare è stata la mia
salvezza, mi ha permesso di sopravvivere. E ha dato speranza ai miei compagni,
li ha distolti dalla disperazione. NellEnrico
IV del 1994 ero attore e regista… Esattamente come accadeva nella baracca.
Non so se è stato più impegnativo in baracca o in un teatro vero. Per fortuna
nel 94 cera Siro Ferrone… lo
conosci, no? Scrisse che Pirandello è un classico e come tale va trattato.
Significa rispettarne i testi, che ormai tutti conoscono, e ai quali bisogna
essere fedeli. Però dobbiamo anche concederci certe libertà, certe
reinterpretazioni che rendano il suo messaggio comprensibile ai contemporanei.
Bisogna evitare il “pirandellismo”, che è un esercizio scolastico, da manuale.
Bisogna riappropriarsi del testo con la giusta libertà. Il virtuosismo è
menzogna, mentre la libertà è verità». Enrica domanda a Gianrico: «La tua
regia, di vero teatro e senza concessioni intellettuali, piacque a Ferrone?». E
Gianrico risponde: «Lui era daccordo su questo punto. Era un intellettuale,
però si rendeva conto che il teatro è unaltra cosa, una cosa calda, in cui si
muovono le passioni, non le idee, non i concetti. Infatti, guarda qui cosa
scrive della mia regia: “Mi pare sia invece giusto quello che tu hai fatto,
riproponendo il misto di debolezza e prepotenza, amore e paura della vita che
sta alla base dellautosegregazione di Enrico IV. Egli si è dimesso dal mondo
perché questultimo non lo merita, ma anche perché quel mondo gli si para
davanti come un mistero angoscioso che lo terrorizza”».
Tra
gli spettatori in quella baracca del lager cerano Giovannino Guareschi e il poeta Roberto Rebora, il filosofo Enzo
Paci ed Enzo de Bernart, fratello
di Laura, la sua prima moglie e
madre di Enrica. Tutti IMI (Internati Militari Italiani), che avevano rifiutato
di ritornare in Italia aderendo alla repubblica di Salò, ma anche di lavorare
per i tedeschi, una forma di collaborazionismo inaccettabile, rinunciando ai
vantaggi connessi, soprattutto alimentari. Una diversa forma di resistenza, nel
2006 tardivamente riconosciuta con una medaglia donore, rifiutata da Tedeschi,
pago di aver fatto il suo dovere. Solo Eduardo nella sua Napoli milionaria era riuscito a dar voce allo spaesamento di
allora, quando nessuno aveva voglia di stare a sentire i reduci tornati a casa,
come Primo Levi con Se questo è un uomo
avrebbe fatto con i sopravvissuti dei campi di sterminio.
Sceso
dal treno che lo aveva riportato a Milano dopo la prigionia, Tedeschi vide un
manifesto che invitava a iscriversi alla nuova scuola darte drammatica, che Paolo Grassi e Giorgio Strehler avevano in animo di creare. Passò il provino
recitando il monologo di Enrico IV,
ma i tempi si facevano lunghi e la scuola non apriva, sicché bussò
allAccademia Nazionale dArte Drammatica di Silvio dAmico e, dopo qualche peripezia, venne ammesso al secondo
anno. Nel frattempo, aveva completato gli studi di Magistero, iniziati alla
Cattolica di Milano e completati alla Sapienza di Roma. Come Franca Valeri, amica e compagna in
arte, andava orgoglioso della sua origine milanese e credeva nellidea di
teatro come servizio pubblico, professata da Grassi e Strehler, che presiedette
alla nascita del Piccolo Teatro di Milano, in quello stesso edificio di via
Rovello, che, come via Tasso a Roma, aveva ospitato le carceri nazifasciste,
dove venivano torturati i resistenti. Era la Milano di Antonio Greppi, primo sindaco socialista del dopoguerra, il sindaco
della ricostruzione della Scala.
Talento
versatile, capace di variare dal drammatico al comico, lui stesso amava
definirsi un “promiscuo”, mutuando la definizione dal vocabolario ormai desueto
del teatro dantan. Ha recitato con
tutti i registi: dall«aristocratico» Luchino
Visconti (Mirandolina «lui lha resa moderna, vera») all«appassionato» Strehler
(«un vero teatrante, nel senso più alto del termine»), dal visionario Luigi Squarzina («intelligente, un
grande intellettuale») al «severo» Luca
Ronconi («uno fuori dagli schemi»), sino al primo, incontrato allAccademia
Nazionale dArte Drammatica, il maestro,
Orazio Costa («lo studioso che era
felice di condividere con i giovani la conoscenza»).
Registi
che riportano alla memoria le tante interpretazioni, che abbiamo ammirato o
anche solo sognato, leggendo le cronache, sfogliando gli album fotografici:
alla fine degli anni Quaranta con lo stesso Costa al Piccolo Teatro della città
di Roma. Per proseguire con una galleria di personaggi: dal Conte di
Albafiorita della goldoniana Locandiera
al Kulygin delle Tre sorelle di Čechov,
entrambe regia di Visconti risalenti al 1952; dal Pantalone del goldoniano Arlecchino servitore di due padroni
(1958) al Peachum de Lopera da tre soldi
di Brecht (1973) con Strehler al
Piccolo; dal capitano Shotover in Casa Cuorinfranto
di Shaw (1980) al Cardinale Lambertini di Testoni (1981) allArgentina di Roma ancora
con Squarzina; sino a La compagnia degli
uomini di Bond (2011), regia di Ronconi.
Per
finire con un lungo addio alle scene, snocciolato attraverso una serie di
spettacoli: dal Minetti, ritratto
dellartista da vecchio (2000) dellamato e frequentato Thomas Bernhard a Le ultime lune (2000) di Furio
Bordon, che era stato anche lultima interpretazione teatrale di Marcello Mastroianni («Marcello lo fece
benissimo – dice con gli occhi che gli si arrossano. Lo recitò che stava già
male. Mi ha colpito questo suo addio struggente alla vita dellattore.
Soprattutto perché sapeva di morire e non ha voluto chiudere col cinema, ma con
il teatro. Non con le immagini, ma con la parola. Ha recitato fino allultimo
respiro, penso si possa dire così. La verità è che ho accettato questo copione proprio
come omaggio a Marcello. Eravamo veramente amici, abbiamo iniziato insieme. Al
teatro Eliseo dividevamo il camerino e ci divertivamo da pazzi. Questa mia
scelta di riprendere un “suo” spettacolo, sono certo che lappoggerebbe»); da Smemorando, la ballata del tempo ritrovato
(2005), scritto e interpretato dal medesimo Tedeschi, per la regia di Gianni Fenzi, sino allultimo Dipartita finale di Franco Branciaroli, nella parte di Pot, in scena da 2014 al 2016.
Attore
eclettico frequentò anche, con ottimi risultati, la commedia musicale con
Garinei & Giovannini (da La padrona
di raggio di luna, 1956, a Enrico 61)
e il varietà televisivo (Bambole, non cè
una lira, 1977). Voce inconfondibile della radio, è stato anche interprete
della stagione dei grandi sceneggiati e della prosa televisiva, divenendo uno
dei volti più noti del piccolo schermo, a partire dalle generazioni di piccoli
telespettatori, affezionati a Carosello
(come non ricordare la pubblicità del cofanetto di caramelle Sperlari?). Il
progetto pedagogico della televisione di Ettore
Bernabei faticava a conciliarsi con le esigenze del mercato pubblicitario e
con pudore misto a un po dipocrisia escogitò la formula, tutta italiana, di Carosello: due minuti di creatività
artistica e trenta secondi in coda di messaggio pubblicitario. È in quella
trasmissione, premio serale prima di andare a letto, che i bambini italiani
hanno iniziato a familiarizzarsi con gli attori del tempo, prima di applaudirli
a teatro o di riconoscerli al cinema.
Nel
cinema ha tanto lavorato e, anche se talvolta le sue partecipazioni si
esaurivano in un cammeo, è difficile dimenticare il suo Arcangelo Bardacci,
maestro di mistica fascista, ne Il
federale (1961) di Luciano Salce,
protagonista un indimenticato Ugo
Tognazzi, o la sua ultima apparizione in Viva la libertà (2013) di Roberto
Andò nella parte di Furlan, il vecchio mentore del partito, cui si rivolge
il disperato Valerio Mastrandrea,
protagonista Toni Servillo nel
doppio ruolo, degno discendente de I due
gemelli veneziani di goldoniana memoria. Era lo stesso Tedeschi ad
ammettere, senza particolare rammarico, di non avere mai sfondato nel cinema:
«Il cinema è faticoso, ma poi cammina da solo, le repliche le fa la pellicola,
non tu. Manca il rapporto col pubblico. È una cosa importante il rapporto col
pubblico. Guarda, al cinema preferisco la televisione. Più simile al teatro».
Racconta che Fellini lo avrebbe voluto nel suo film E la nave va, ma gli impegni teatrali gli impedirono di accettare
quella scrittura: «Fa una smorfia alzando le sopracciglia. La nave è andata
senza di me!».
«Semplice, buttato via, moderno» sono le
istruzioni di Pantalone ai comici dellArlecchino
servitore di due padroni, nelledizione del 1973, un «soggetto» che piacque
a Strehler al punto di inserirlo stabilmente nel copione dello spettacolo.
Commenta Enrica Tedeschi: «Eri Pantalone, il capocomico, e davi istruzioni ai
tuoi attori. Stavi spiegando come andava recitato quel canovaccio. Come volevi
che risultasse la commedia. Davi unindicazione di regia. La battuta va detta così, dovete recitare così: semplice, buttato via,
moderno!. Non era verosimile che un guitto del Settecento suggerisse uno
stile privo di enfasi, senza “recitazione”, senza impostazione, così come
farebbe un attore “moderno”, in modo “semplice”, anzi, “buttato via”…
Unintuizione fantastica, una strizzatina docchio allo spettatore, un entrare
e uscire dal testo che allepoca era impensabile, una meta-comunicazione
improbabile nel mondo goldoniano. Una chicca dautore, una firma». La firma di
Gianrico Tedeschi, la cifra del suo stile recitativo, un momento di vita
teatrale, che ci riporta a un passo meta-teatrale, la scena seconda dellatto
terzo di Amleto, laddove Scespir (come amava dire lo stesso Tedeschi) si rivolge al
suo pubblico per enunciare per bocca di Amleto i principi che devono ispirare
un buon attore, gli stessi, che hanno guidato il moderno Tedeschi, un attore
«semplice», «moderno», in una parola: «grande».
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