«Anche tra gli attori, ci sono gli avventurieri» aveva detto di lui Jean-Claude Carriére. Senza dubbio la libertà che attraversava Bruce Myers era tangibile. Ed è forse quella ad aver colpito Peter Brook quando, alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, lo incontra a Stratford poco dopo che lattore ha abbandonato la Royal Shakespeare Company, rinunciando a una posizione di prestigio. Di quellincontro indelebile, Brook ricorda i dettagli nella sua autobiografia, raccontando come Myers, in sella alla sua motocicletta, spolverando con le lunghe dita il cappotto in pelle, dichiarasse lapidario di voler chiudere completamente con «the bloody British theatre». Da allora i due non si sono più separati: Myers parteciperà alla nuova fase della sperimentazione del teatro brookiano, diventando uno dei pilastri de Les Bouffes du Nord, fino alla sua scomparsa il 15 aprile scorso.
Nato a Manchester nel 1942, dopo gli studi in filosofia al Trinity College di Dublino, Myers frequenta brillantemente la Royal Academy of Dramatic Arts di Londra per poi farsi cacciare presentandosi in scena completamente ubriaco nelle vesti di Napoleone per il Man of Destiny di George Bernard Shaw. Insieme allamico e regista Terry Hands passa alla Royal Shakespeare Company di cui diventa presto uno dei più promettenti attori, lavorando con Peter Hall, Paul Scofield, Alan Howard, Judi Dench, Helen Mirren. Insofferente a ogni conservatorismo, decide di lasciare la RSC e, in cerca di un altro approccio artistico, si rifugia nella natura a praticare la vela e lalpinismo. È allora che incontra Brook, in un café di Stratford: i due parlano di viaggi, di progetti in Africa e in Persia. Lavventura è presto servita. Myers è uno dei primi a unirsi al disordinato gruppo di Brook, composto da attori di origini diverse e formazione disparata. Nel 1971 è in Iran al festival di Shiraz, con Orghast, un esperimento sonoro firmato e diretto da Brook. La sua straordinaria abilità vocale, allenata negli anni alla Royal Shakespeare Company, si sposa alla ricerca sul suono e sul linguaggio «a matrice fisica» del poeta Ted Hughes e del compositore Richard Peaslee. Gli echi feroci e vibranti della lingua tonale ideata da Hughes, uniti al greco antico, allavesta e al giapponese, entrano a far parte del suo repertorio e riemergeranno durante tutta la sua carriera.
Con il CIRT, nel 1972 parte per lAfrica in un viaggio destinato a segnare la ricerca teatrale contemporanea. Per tre mesi, gli attori della spedizione praticano misteriosi esercizi con bastoni di bambù e tai-chi nei deserti e nelle foreste. Nei villaggi sperimentano limprovvisazione spietata del Carpet show, affrontando il pubblico delle piazze creando unazione istantanea, senza un testo di riferimento, una storia, un canovaccio. Letteralmente lanciati nel vuoto. In molte immagini dellepoca del CIRT, Myers appare intento a osservare con uno sguardo insondabile. «Per anni mi sono domandato cosa stessimo facendo – racconterà lattore –. Cercavamo in tutte le direzioni: il carpet show era un mistero. Dopo dieci anni di teatro professionale, mi ritrovavo a guardare negli occhi il pubblico e avevo paura. Avevo limpressione che mi togliessero la mia difesa più importante, quella di concentrarmi sulla scena e sul partner».
Il carpet show accompagnerà la ricerca per anni, nelle periferie immigrate parigine, tra gli operai di Porto Marghera, nei villaggi del Burkina Faso, tra gli indiani messicani o nelle strade del Bronx. Col tempo Myers riesce a trasformare la vulnerabilità in preziosa alleata pronta a indicargli la via per una confidenza privata con il pubblico.
Lapporto dellattore alle prime produzioni del CIRT è centrale. Quando, nel 1974, il Teatro Les Bouffes du Nord apre a Parigi con Timon d'Athènes, Myers offre un corpo a corpo sonoro con Shakespeare, in una magnifica interpretazione di Alcibiade. Nel 1975 partecipa alla ricerca antropologica che porta alla realizzazione del The Iks che sarà alla Biennale di Venezia; nel 1978 è in scena in Mesure pour mesure di Shakespeare. Lanno successivo passa dalla mistica persiana di Farid Al-Din Attar ne La Conférence des oiseaux, al grottesco della farsa africana LOs di Birago Diop.
Indimenticabile la sua presenza nel Mahâbhârata al Festival dAvignone nel 1985 e la sua interpretazione di Khrisna, nella versione filmica del 1989, che riuscì a dare concretezza allo sfuggente e ambiguo semidio indiano. Sua la scena centrale della maestosa regia brookiana, in cui Khrisna trasmette la parte più segreta del poema indiano: la Bhagavad Gita. Myers ne sfiorava la mistica con grazia, senza alcuna sacralità né enfasi, in un capolavoro di equilibri.
In scena Myers aveva il dono della leggerezza, lieve come il passo dellalpinista che appoggia appena la montagna nella ricerca paradossale di liberarsi del proprio peso per salire più in alto e per consentire al gregario di cordata – lo spettatore – di arrivare a contemplare la montagna. Così Myers scompariva dietro la gioia di una salita riuscita, di una fragile concentrazione del pubblico.
Questo gli permetteva di attraversare i personaggi più complessi ed enigmatici, i più sottili movimenti del loro animo e il labirinto delle loro azioni. Ne LHomme qui (1993) basato sui racconti del neurologo Oliver Sack e in Je suis un phénomène (1998) sul libro del neuropsicologo Alexander Luria, Myers incarna gli spazi dombra e di smarrimento della mente con limmediatezza e la sincerità di un bambino. Il suo sguardo sperduto nel gorgo della memoria, delloblio e dellafasia lasciava per sempre sgomenti.
Myers oltrepassava con facilità la soglia tra gioco e spaesamento, come il suo collega Yoshi Oida con cui per anni dividerà la scena in una polifonia di silenzi e movimenti che culminerà nel loro Fragments di Beckett, diretto da Brook nel 2010.
A loro Brook affidava spesso il compito di maneggiare la scivolosa alternanza tra grottesco e mistico, tra théâtre brut e théâtre sacré. Fin dai primi anni del CIRT, Myers estende la gamma del suo repertorio attoriale, colorando lirresistibile ilarità di Trinculo nella Tempesta shakesperiana nel 1990, la comica ottusità di Polonio e la beffarda sagacità del becchino ne La tragédie dHamlet del 2000, la burlesca goffaggine del generale dellamministrazione coloniale francese in Tierno Bokar nel 2004. Lumorismo festivo di Myers era sempre pronto a svoltare inaspettatamente e infilzare lo spettatore in uninterrogazione amara. Daltra parte, lo spazio del dubbio e del pensiero erano territori che lattore frequentava senza fatica, non solo a teatro.
Osservatore infaticabile, preciso e arguto, Myers praticava lironia come una lettura dellesistenza. Che applicava in primis a sé stesso. Riservato e discreto, schivava le occasioni pubbliche. Si schermì anche quando il «Los Angeles Times», nel 2011, lo definì «uno Stradivari umano», per la sua interpretazione del Grande Inquisitore tratto da Dostoevskij e diretto da Brook. La pièce metteva in luce la sua inequivocabile eleganza vocale, quella stessa che la scena inglese spiava con ammirazione quando Shakespeare atterrava sulle sue labbra, come fu per i sonetti de Love Is My Sin che Brook creò per lui e Natasha Parry nel 2009.
Per quasi cinquantanni Myers lavorò sulla ricerca della qualità del suono, cesellando i dettagli, riempiendo tutti i respiri della parola senza sfarzo, segretamente. Pur sapendo che lessenza ultima del teatro stava fuori dal palco, sulla strada. Non cera tecnica, virtuosismo, estetica, interpretazione che potesse sopperire allunico elemento degno di essere citato: il pubblico.
Anche per questo amava trasmettere ai giovani. In Italia insegnò allAccademia nazionale darte drammatica Silvio dAmico, alla Scuola del Teatro Stabile di Torino, al Piccolo Teatro di Milano, allUniversità “La Sapienza” di Roma.
Myers alternava progetti, le regie (con il suo Dybbuk vinse lOBI Award a New York), i film (tra cui Linsostenibile leggerezza dellessere nel 1987, Henry & June nel 1990), le collaborazioni e soprattutto i viaggi. Il movimento era il suo centro e il viaggio la sua dimensione privilegiata. DallAfghanistan che lo aveva stregato nel 1977 durante le riprese di Meetings with Remarkable Men, allamatissima India che aveva attraversato più volte, dallAfrica che aveva calpestato in lungo e in largo, alla Russia da cui veniva la moglie. Molti i paesi che entravano e uscivano dalla sua biografia lasciando un repertorio di avventure insospettate. Come quando nel cuore del Sahara, durante la traversata con il gruppo di Brook, scomparve dallaccampamento alle prime luci dellalba, causando il panico del regista e degli attori che lo cercavano ovunque seguendo le sue tracce sulla sabbia, per poi vederlo tornare placidamente dopo aver scalato da solo il massiccio dellAhaggar. Gli ultimi anni non avevano sottratto lindomabile curiosità del suo sguardo, il guizzo giocoso e linsolente fascino giovanile che, a tratti, sfuggiva al tempo.
Refrattario a qualunque etichetta, anticonformista non di facciata, la sua ironia arguta investiva con pacatezza ogni sistema e rivoltava ogni dogma, in un instancabile desiderio di ricerca. A una delle interviste che gli feci, quindici anni fa, rispose lapidario: «Lunica vera ricerca è la ricerca su sé stessi in cui si deve essere rigorosi e accurati, senza farsi prendere da esaltazioni o eccitazioni. È poi necessaria una certa riflessione per intrecciare questo cammino con il teatro e portarne i risultati in scena. Non abbiamo una grande conoscenza di noi stessi, non sappiamo neanche cosa siamo».
Se nè andato quasi un mese fa, in una Parigi soffocata dal silenzio e dallepidemia, coperta da una coltre di paura, spogliata della sua bellezza, svuotata dei suoi teatri, come tutte le nostre città in questi giorni. Prima dellalba, come gli alpinisti, non visto, lasciando gli altri giù, nelle nebbie delle insicurezze. A noi resta la traccia di una concezione della scena diversa, sensibile, ribelle e libera.
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