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Tarzan e Jane

di Giuseppe Gario
  Tarzan e Jane
Data di pubblicazione su web 03/03/2020  

Ospite di un amico americano, anni fa ho ammirato l’arrivo serale di uno stormo di anatre sul prato tra casa e laghetto, lieta novità per la disponibilità di cibo e soprattutto l’assenza di alligatori, millenari abitanti oggi ospiti in un parco naturale senza tempo perché senza storia, già set dei film di Tarzan. Precedente e adottata dallo stormo, una paperina bianca zoppa e incapace di volare contraccambiava l’ospitalità con un ovetto quotidiano. «95% of the time for food, 5% for sex», mi disse di loro l’amico, lotta per la vita trasferita poi altrove dalle anatre e persa dalla paperina al ritorno degli alligatori.

A Milano, «ti chiami Baggio e hai quarantacinque anni. Facevi il contabile amministrativo, non il calciatore. Posto fisso per quindici anni, ferie e tutte quelle cose che ti sembravano scontate, sino a qualche mese fa. Poi l’azienda è fallita e sei stato liquidato insieme agli altri settantanove dipendenti. Prendi la Naspi, 960 euro al mese da quasi un anno, e arrotondi facendo le consegne per Glovo. Non ti è mai piaciuta la bicicletta, ma l’auto hai dovuto venderla. All’inizio guadagnavi, correvi come un matto e hai preso anche delle multe perché per fare meno strada percorrevi le strade in senso inverso. Poi ti sei ammalato una settimana e da quel momento sei diventato vittima del ranking. Ranking, ranking, quella stronzata di darti il punteggio per tenerti sotto scacco. Non puoi ammalarti con Glovo. Non puoi avere la febbre. Se hai la febbre, dopo ti vengono precluse le fasce orarie più redditizie. Diventi inaffidabile. Magari te lo dicessero in faccia. Non c’è nessuna faccia. Ti sbarrano la porta. Non sai mai nulla, tu. Gli slot orari sono quasi tutti bloccati e aspetti che qualcuno molli il turno. Aspetti davanti allo schermo. Rapidamente hai cominciato a lavorare meno ore e a guadagnare meno soldi. A Milano 960 euro non bastano se hai un figlio, una separazione alle spalle. Hai provato a protestare al telefono, con il tuo referente di zona. Lui non ti ha quasi fatto parlare. È l’algoritmo. Non dipende da lui. Ti ha fatto incazzare. Non ti ascolta. Non capisce che quei soldi ti servono. Lui ti ha detto allora che se avessi continuato a scocciarlo, ti avrebbe sloggato. Non lui direttamente, ma il sistema. Lui è obbligato, dice. Deve registrare la chiamata. Deve registrare il tuo comportamento. “Aggressivo” dice. “Aggressivo di che?” gli rispondi. Provaci tu a stare in bicicletta la sera d’inverno, in equilibrio nel traffico, colorato come un pagliaccio» (D. Serafin, Senza più valore. Indagine sui salari e le retribuzioni in Italia, Varese, People, 2019, pp. 5-6).

In pochi anni il ranking si è diffuso dalla global governance alla consegna a domicilio di cibi pronti nelle nostre città, secondo un modello matematico di percolazione che, scrive la Treccani, «può essere esteso a tutti quei problemi in cui si è interessati alle proprietà di connessione globale di un sistema macroscopico, le cui connessioni sono realizzate a livello microscopico in modo stocastico». È tutto sistema: «la spettacolare proliferazione della indicizzazione internazionale sembra essere il risultato di almeno tre tendenze interrelate: l’adozione della valutazione della performance nella moderna vita politica e sociale, il rafforzamento delle reti globali di governance e la proliferazione di nuove tecnologie dell’informazione e di fonti dati aperte» (RANKING THE WORLD. Grading States as a Tool of Global Governance, a cura di A. Cooley e J. Snyder, Cambridge, Cambridge University Press, 2015, p. 10). Fino al punto che ormai è necessario «valutare la mania di valutare, dalle scelte di consumo ai risultati delle politiche pubbliche», perché «il giudizio contenuto nei ranking può minare la chiarezza dei dibattiti politici sui valori che essi pretendono servire»: «ranking e indicatori non solo esprimono giudizi, ma hanno cominciato ad agire come “sostituti” del giudizio nella sfera politica pubblica. È una pericolosa svolta, specie quando gli indici guadagnano sempre più autorità e sono usati per finalità di supporto e governo. Alla radice, il problema è il fallimento di chi classifica nel concettualizzare correttamente ciò che valuta – nel nostro caso democrazia, fallimento dello stato, corruzione, libertà di stampa, qualità dell’investimento». «Dato che i casi di interesse per la politica pubblica sono spesso quelli in cui gli elementi non si adattano ordinatamente in sindromi coerenti, il risultato può essere un indice che oscura persino le peculiarità, fondamentali per la valutazione politica» (ivi, p. 179).

Appunto ciò che oggi il signor Baggio contesta quale corriere di Glovo: il sistema non governa, ma genera caos coi suoi giudizi di fatto arbitrari. Cooley e Snyder nel 2015 non prevedevano la capillare diffusione del ranking coi suoi vizi, ma già allora «in casi estremi, come la Russia, l’oltraggio sociale sentito dagli attori quando sono comparati a paesi anch’essi poveramente valutati in termini di libertà civili quali Nord Corea, Iran o Turkmenistan può rimpicciolire lo spazio per un utile dialogo politico su temi quali la “democrazia” o la “trasparenza”» (ivi, p. 191). Oggi, per il signor Baggio, azzera lo spazio di dialogo tra cura e lavoro. A scala globale e individuale, «da ultimo il valore del ranking è minato dall’endogenesi del processo di rating. Un rating basso di credito è facilmente una profezia che si autorealizza» (ibid.), come anche il signor Baggio denuncia.

Apparentemente scientifico, il ranking domina economia, società e politica. «Considerando quanto sono complicate le economie reali – scrive il matematico Bruce M. Boghosian, segnalato da un amico che ringrazio – troviamo soddisfacente che un approccio analitico semplice sviluppato da fisici e matematici descriva le attuali distribuzioni della ricchezza in varie nazioni con un’accuratezza senza precedenti. È anche curioso che queste distribuzioni mostrino caratteristiche sottili ma fondamentali tipiche di sistemi fisici complessi. Ma soprattutto il fatto che un ritratto del libero mercato semplice e plausibile come il modello affine della ricchezza dia origine a economie tutt’altro che libere ed eque dovrebbe essere sia motivo di allarme che un invito all’azione». «Di fatto questi modelli matematici dimostrano che la ricchezza, lungi dallo scendere come un rivolo fino ai poveri, ha un’inclinazione a fluire verso l’alto, cosicché la distribuzione “naturale” della ricchezza in un’economia di libero mercato è quella di una completa oligarchia. È solo la ridistribuzione che pone limiti alla disuguaglianza» (B.M. Boghosian, Misurare la disuguaglianza, in «le Scienze», 31 gennaio 2020, p. 63. E a p. 58: «nel 2010, 388 individui possedevano la stessa ricchezza personale di tutta la metà più povera della popolazione mondiale: circa 3,5 miliardi di persone; oggi Oxfam stima che questo numero di individui sia sceso a 26»). 

Il signor Baggio non sa che il suo caso, motivo d’allarme e invito all’azione per un professore di matematica della Tufts University, è un dato di natura per i neoliberisti dominanti in cielo e in terra, con la parziale ma fondamentale eccezione dell’UE. Che può trarre un decisivo vantaggio anche competitivo riconoscendo, con Boghosian, che «la fortuna ha un ruolo molto più importante di quello che le viene generalmente riconosciuto, e quindi la virtù comunemente attribuita alla ricchezza nella società moderna – e, allo stesso modo, lo stigma attribuito alla povertà – è completamente ingiustificata» (ibid.), anche se per i ricchi sponsor di Brexit è fede. «Inoltre, solo un meccanismo per la ridistribuzione attentamente studiato può compensare la tendenza naturale della ricchezza a fluire dai poveri ai ricchi in un’economia di mercato. La ridistribuzione è spesso confusa con le tasse, ma i due concetti vanno tenuti distinti. Il prelievo fiscale fluisce dai cittadini allo Stato per finanziare le attività di quest’ultimo [infatti l’UE vuol tassare i profitti GAFA sul mercato europeo, meritando l’immediata rabbiosa reazione daziaria di Trump, ndr]. La ridistribuzione, invece, può essere messa in atto dallo Stato, ma va pensata come un flusso di ricchezza da cittadini a cittadini per compensare l’iniquità intrinseca dell’economia di mercato. Nel più semplice schema di ridistribuzione, tutti coloro con una ricchezza al di sotto della media riceverebbero fondi, mentre chi è al di sopra pagherebbe. E dato che gli attuali livelli di disuguaglianza sono così estremi, molte più persone riceverebbero di quante pagherebbero» (ibid.).

In UE, naturalmente, non negli Stati nazionali anch’essi sotto scacco del ranking, che l’UE può invece reinventare, pur se di (limitata) utilità, in coerenza con una compiuta democrazia federale di dimensione sufficiente per badare a sé stessa, nello storico impegno europeo d’innovazione culturale, civile, politica, economica, tecnica: impegno necessario e indifferibile nel mondo cosiddetto globale che, nella sua deriva pseudoscientifica, produce la chimera della democrazia di pochi sempre meno numerosi e sempre più ricchi, che governano i molti sempre più numerosi e sempre più poveri. Questa chimera sta distruggendo le fondamenta USA. Nel processo a Trump, appunto per abuso di potere, i senatori repubblicani hanno respinto l’audizione delle testimonianze – rappresentanti dei ricchi sempre più ricchi a sostegno di un presidente eletto da una minoranza bianca di poveri sempre più poveri. Trump non è più solo ad abusare.

 

Tarzan e Jane festeggiano il primo anno di unione in un film d’animazione Disney del 2002, quasi un secolo dopo il loro primo incontro letterario sempre stroncato da costumi e leggi razziali tuttora floridi. Come le anatre e la paperina, soggetti alla legge “naturale” degli alligatori fin che è prevalsa – sempre tra alti e bassi – la legge umana a tutela dei diritti. Costumi e leggi sono questioni politiche e le regole del gioco democraticamente accettate sono tali alla lettera, funzionano solo se condivise e attivamente partecipate nel riconoscere (capire e far capire) l’importanza vitale del rispetto reciproco. Altrimenti sono regole non del gioco, ma di ingaggio che consentono nel migliore dei casi (il signor Baggio) l’esclusione dal consorzio civile, nel peggiore (i nostri vicini medio-orientali e orientali) il massacro di chi non è tutelato dal sistema bilanciato di poteri specializzati che diciamo democrazia a garanzia del rispetto della vita e della dignità di ognuno di noi, conquista politica fondamentale della modernità, in crisi (di crescita?) nella cosiddetta post-modernità, il nostro presente in bilico.

Il fatto è che «del potere si può abusare; l’esatta definizione di ciò che costituisce abuso dipenderà dal contesto sociale e culturale, ma è ineludibile nell’analisi del comportamento umano. Se l’abuso è sistematico – ripetuto e deliberato – bullismo sembra il termine giusto per definirlo». «Il bullismo può essere definito come l’abuso sistematico del potere. Ci saranno sempre relazioni di potere nei gruppi sociali, per forza o dimensione o abilità, forza personale, numerica o gerarchica riconosciuta». «Il bullismo può verificarsi in molti contesti, inclusi il posto di lavoro e la casa; è particolarmente probabile si verifichi in gruppi sociali con chiari rapporti di potere e scarsa supervisione, come le forze armate, le prigioni e anche le scuole» (School Bullying: Insights and Perspectives, a cura di P.K. Smith e S. Sharp, London-New York, Routledge, 1994, p. 2). «Gli studi delle singole personalità e attitudini degli alunni coinvolti nel bullismo offrono un quadro di bambini piuttosto estroversi e socialmente sicuri di sé, che mostrano assai poca ansia o senso di colpa, si conformano moltissimo ai loro propri ideali di essere dominanti e potenti nel proprio gruppo di pari. Significativamente, tendono inoltre a considerare l’aggressione un modo accettabile e realistico di esprimere la propria posizione sociale e lo percepiscono sostenuto dagli atteggiamenti famigliari» (ivi, p. 5). Patologico negli studenti, lo è doppiamente in persone adulte – se ci rammenta qualcuno anche a casa nostra, non è un caso.

Trump ha portato il bullismo nella Casa Bianca, facendo di una devianza scolastica una pratica di governo per esaltare il proprio potere personale e ridurre la democrazia a una lotta di provocazioni e insulti: una chimera. Il bullismo diventa così la chiave di volta di ogni società che lo esprime o tollera. Allo specifico di Trump ben s’adatta il commento di un personaggio di Scott Spencer sul processo al campione O.J. Simpson, accusato dell’assassinio della moglie: «Sai, Jim, tutti i media sono impazziti perché il signor O.J. Simpson si è procurato una squadra di avvocati di prim’ordine. Tutti continuano a dichiarare che la giustizia è stata messa in vendita. Io dico invece che ha fatto bene. L’America è questa, cari miei. Tutto è in vendita. Credete sul serio che i poveri ricevano le stesse cure mediche dei ricchi? Tutto è in vendita, senza eccezioni. Dovete capire che è così che funziona il sistema, e perciò O.J. ha fatto esattamente quel che doveva. In America, il verde dei dollari conta più del nero, e anche del bianco» (S. Spencer, Una nave di carta, a cura di L. Briasco, Palermo, Sellerio 2019, p. 435).

La democrazia cosiddetta illiberale è solo bullocrazia, violenza gratuita e sistematica che, come il bullismo scolastico, impone di «focalizzarsi sulla soluzione del problema», «incoraggiare i cittadini stessi a portare soluzioni», «usare stili di comunicazione assertivi invece che aggressivi o passivi» e «intraprendere azioni immediate assicurandosi di intraprendere passi per affrontare il problema sul lungo termine» (School Bullying, cit., p. 212). Democrazia non è violenza, è abito di diritti e doveri cucito da un sistema di istituzioni giuridiche e politiche (odiate dai governi populisti centro-europei, per dire) a misura di cittadini solidali (nel volontariato, per dire) che sanno pensare, capire, motivare, fare del bene anche per gli altri nella ventura (nelle cose a venire) che diciamo vita. Cittadini reali del mondo reale, non cittadini-chimera (incluso chi non vota, per dirla con le sardine), quasi bastasse non respirare se l’aria non è buona o badare ai fatti propri nelle ricorrenti epidemie globali. Peculiarità dei cittadini-chimera è di essere sacrificabili, sul mercato tecno-politico del riconoscimento facciale per dire, recrudescenza del virus tecno-totalitario diagnosticato nel 1948 da George Orwell in 1984. Il vaccino democratico è indispensabile per non essere più sacrificabili.







 
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