Nel
novembre 2008, alla London School of Economics, la regina Elisabetta II chiese perché nessuno avesse visto arrivare la crisi
USA del 2007, poi mondiale nel 2008 e molto più grave che nel 1929. Certo senza
volerlo, come il bimbo che svela la nudità dellimperatore vestito, additò
linconsistenza dellabito neoliberista cucito dalla Chicago School sul Cile
totalitario di Pinochet. Ma alla
London School of Economics aveva studiato e insegnato Susan Strange, che aveva previsto la crisi in Casino Capitalism
(Oxford, Basil Blackwell, 1986), poi in The Retreat of the State: The
Diffusion of Power in the World (Cambridge, Cambridge University Press,
1996).
Nudi
nellabito neoliberista, agli stati
resta la violenza. Come in Cile e ora anche in Europa. «Le persone della mia generazione esclameranno: “Sono cose che abbiamo
già visto: fascismo, nazismo, bolscevismo!”. Eppure non è così semplice. La
Storia può ripetersi, ma mai nella stessa maniera. Le nuove tirannie del genere
dell“Orbanistan” sono ampiamente diffuse nel globo. Alcune versioni, come
quella russa o quella turca, sono già ben note. Esistono ancora stati
totalitari vecchio stile, ma nessuno di loro è stato fondato negli ultimi
cinquantanni, così non vedo alcuna possibilità di un loro riaffacciarsi in Europa.
Anche per la semplice ragione che nelle società di massa (al contrario di
quelle di classe) non cè bisogno di partiti totalitari, di prendere il potere
con la forza. Le moderne tirannie sono elette e rielette ripetutamente, con il
voto della maggioranza, per così dire “democraticamente”. È per questo motivo
che esse si definiscono “democrazie”, anche se aboliscono le libertà civili,
quella di stampa in primo luogo, la divisione dei poteri, tutte le istituzioni
liberali. Perciò, quando ha definito “illiberalismo” il suo programma, Orbán ha colto nel segno. Le tirannie “post-moderne”
di questo genere possono anche differire luna dallaltra. Alcune incriminano e
imprigionano gli oppositori, professori, giornalisti, politici, altre lasciano
i partiti dellopposizione liberi di agire. Mentre negli Stati totalitari è una
delle armi principali contro i dissidenti, nelle tirannie attuali la pena
capitale è sospesa o abolita. La creazione di una propria oligarchia
politicamente obbediente e la redistribuzione dei profitti in favore di
questoligarchia, tipiche delle tirannie post-moderne, sono eccezionali negli
Stati totalitari» (A. Heller, Orbanismo: il caso dellUngheria. Dalla
democrazia liberale alla tirannia, Roma, Castelvecchi, 2019, pp. 6-7). La redistribuzione oligarchica dei profitti
è il tratto comune con il neoliberismo.
«Mi
limiterò allUe. I partiti e i leader del nazionalismo etnico si possono
trovare in tre diverse posizioni. Ci sono quelli che governano e controllano
pienamente uno Stato, quelli che fanno parte del governo, e infine quelli che
aspirano ad assumere il governo nel loro Paese. Cosa li accomuna tutti quanti?
Lideologia, la politica. Si riconoscono come alleati, come amici. Amici per
che cosa? Contro che cosa?». «La risposta è già stata data da Orbán: per
prendere il controllo dellUnione. Invece di lasciarla, cosa che non è così
semplice (vedi la Brexit) sembra più facile conquistare la maggioranza
allinterno dellUnione e, raggiunto questobiettivo, imporre politiche di
nazionalismo etnico a tutti gli Stati dEuropa. Il sogno del federalismo, di
una più salda unità europea, finirebbe, se i sostenitori del nazionalismo
etnico avessero il controllo delle istituzioni dellUe. Per fare cosa? Per
rendere lEuropa “libera dai migranti”. E dopo?». «Se un governo fonda il
proprio potere sullideologia del nazionalismo etnico, non può sbarazzarsene a
piacimento. Una volta che un partito ottiene il sostegno della maggioranza
della popolazione per la sua ideologia nazionalista, può conservare il potere
solo perseguendo una politica nazionalista. Le ideologie nazionali hanno
bisogno di un nemico. Quando il nazionalismo etnico avrà preso il sopravvento
in Ue, chi sarà il nemico degli Stati etnici? Chi sarà “il Nemico”? La risposta
è semplice e si basa sullesperienza storica: il nemico di uno Stato nazionale
è sempre un altro Stato nazionale. Le piccole schermaglie diplomatiche di oggi
diverranno guerre domani. Non sono parole vane: basta solo ricordare la guerra
dei Balcani degli anni Novanta» (ivi, pp. 7-8). Il nemico è la preda, e
viceversa. In Europa ci siamo già passati, alla grande.
«Nellaprile
del 1945 lufficiale britannico Julius
Posener tornò in quella che era stata in passato la sua Heimat tedesca.
Arrivò nella Colonia distrutta dalle bombe risalendo la zona del Basso Reno. […]
Posener, ingegnere edile di professione civile, si era aspettato di trovare le
città distrutte, anche se poi le dimensioni della devastazione risultarono
superiori a quelle che aveva immaginato. Ciò che lo sorprese fu però la vista
delle persone: “Non cera corrispondenza fra la gente e le distruzioni. La
gente aveva un bellaspetto, erano tutti rosei, allegri, curati e assai ben
vestiti. Quello che esibiva in tal modo i suoi risultati era un sistema
economico che era stato tenuto in piedi fino alla fine dal lavoro di milioni di
mani straniere e dalla rapina di tutto un continente”. Chi non vuol parlare dei
vantaggi che ne trassero milioni di semplici tedeschi farebbe meglio a tacere
sul nazionalsocialismo e sullolocausto» (G. Aly, Lo stato sociale di
Hitler. Rapina, guerra razziale e nazionalsocialismo, Torino, Einaudi,
2007, pp. 361-362). E anche sul mistero del consenso.
Il
troppo è troppo e sulle ceneri di quellapocalittico nazionalismo etnico è
sorta passo dopo passo lUnione Europea, ora preda ambita di «ideologie
nazionali che hanno bisogno di un nemico» per farne soldi facili, pur se in modo
meno apocalittico perché le lobbies
neoliberiste insediate a Bruxelles vogliono “solo” accedere al più importante
mercato mondiale eliminando vincoli sanitari, ambientali, climatici: meglio se
spezzettato in nazioni tra loro concorrenti e ostili. Le navi-scuola sono
Ungheria e Polonia. «Il nazionalismo etnico viene erroneamente etichettato come
“populismo” perché fa appello al risentimento popolare, ma, a differenza che
nel populismo, il risentimento è rivolto, non contro le classi abbienti dello
stesso Paese, ma contro gli “altri”, come lUe, i migranti e le politiche
liberali, razionali e pragmatiche. (Lunico governo populista tuttora esistente
sta proprio in questo momento conoscendo la fine in Venezuela)» (Heller, Orbanismo, cit., p. 6). Il risentimento
è strumentale, e la novità, nella globalizzazione USA ereditata da UK, è che è
rivolto anche contro pianeta e clima.
Nellultimo
libro, significativamente intitolato Mad Money (Manchester, Manchester University
Press, 1998), Susan Strange poneva
già il problema: «Le domande cruciali della economia internazionale sono sempre
le stesse. Chi vince e chi perde? Chi coglie i frutti e chi ne paga il prezzo?
Chi si vede aprire nuove opportunità e chi è costretto a assumersi nuovi
rischi? È la risposta che la gente dà a queste domande a determinare tutte le
scelte future. Gli ultimi due decenni del XX secolo hanno assistito al
passaggio di potere dallo Stato al mercato, lapparente trionfo mondiale delle
teorie economiche neoliberiste su quelle keynesiane. Nessuno può sapere se la
marea è destinata a invertirsi di nuovo» (S. Strange, Denaro impazzito, Roma,
Edizioni di Comunità, 1999, p. 273). «I conflitti tra monetaristi e fautori
delleconomia di mercato da una parte, e keynesiani e fautori dellintervento
dello Stato dallaltra, non sono di natura tecnica, ma politica. E le scelte
politiche sono determinate dallesperienza delle persone». «Dobbiamo inventare
un nuovo genere di politica ma non riusciamo a immaginare come potrebbe
funzionare. Pertanto, forse il denaro dovrà impazzire sempre di più e far
sentire le sue conseguenze negative fino in fondo prima che la gente si decida,
sulla base della esperienza, a cambiare le proprie preferenze politiche» (ivi,
p. 285).
Oggi
il denaro è sempre più impazzito e fa sentire le sue conseguenze nefaste. Se
fino in fondo o no, dipende. I più interessati al futuro, i giovani, mostrano
di aver capito: in una manifestazione in Germania a dicembre un cartello
diceva: «Wir sind jung und brauchen die Welt», “Siamo giovani e abbiamo bisogno
del pianeta”. I soldi restano al primo posto in USA dove, benché in procedura
di impeachment, Trump trae consenso da profitti e occupazione, con ogni mezzo:
facendo guerra ai migranti e agli stati concorrenti, deregolamentando,
detassando, addomesticando la Federal Reserve e, infine, abbandonando la COP21
a favore delle industrie inquinanti, inclusa quella del gas di scisto ottenuto
con la fratturazione idraulica, a spese di sempre più preziose riserve dacqua
potabile. Il suo zoccolo duro elettorale idealmente oppone ai giovani il
cartello «gli anni aumentano, i soldi no, e comunque sono fatti nostri».
Le
tirannie postmoderne vivono alla giornata, il molto più efficiente neoliberismo
di trimestrali. Ma la focalizzazione trimestrale uccide leconomia, che vive di
progetti di lunga durata, come la politica che si fa carico delle
infrastrutture materiali e immateriali, non solo della prossima elezione.
Perciò non stupisce che i giovani, che hanno nel tempo il loro capitale, si
sentano truffati e trovino nel clima e nel pianeta i loro naturali alleati,
potenti più delle tirannie postmoderne e del neoliberismo perché in sé
intrinsecamente globali nello spazio e nel tempo: lo sono da sempre e non
conoscono frontiere, neppure quelle sacre nazionali che producono consenso [da
piccoli ci raccontavano del sovrano che, informato dellarrivo dei monsoni,
ordina di respingerli, e allobiezione che sono venti, urla: fossero pure quaranta!
Sono ancora questi i nostri sovrani?]. Nelle trimestrali e nelle tirannie
postmoderne, i giovani sono sacrificati insieme al clima e al pianeta, e perciò
non ci stanno, nonostante il «clima di disinformazione», di cui scrive Vincenzo Barone nel recensire I mercanti di dubbi. Come un manipolo di
scienziati ha oscurato la verità, dal fumo al riscaldamento globale (Milano,
Edizioni Ambiente, 2019).
«Gli
storici Naomi Oreskes e Eric M. Conway hanno documentato in
maniera dettagliata il modo in cui un gruppo di scienziati statunitensi, legati
a centri ideologici di destra, è riuscito, per svariati decenni, a occupare la
scena pubblica con tesi negazioniste in materia di cancerogenicità del fumo, di
buco dellozono e di cambiamenti climatici». «A rendere efficace la strategia
del dubbio – osservano Oreskes e Conway – è una versione erronea della scienza:
“Tendiamo a pensare che la scienza fornisca certezze, quindi se le certezze
mancano, siamo portati a ritenere che essa sia in errore o incompleta”. Ma non
è così: la scienza non produce certezze assolute, bensì evidenze passate al
vaglio di analisi rigorose e controlli empirici; evidenze che, accumulandosi,
diventano risolutive. Dopo di che, non ci sono più parti contrapposte, ma solo
una conoscenza scientifica accettata». «Greta e i suoi amici dicono di avere
dalla loro parte la scienza. È vero, ed è una relativa novità per il movimento
ambientalista (a ben pensarci, forse è proprio questo che spiega certe reazioni
violente). Dalla parte opposta, cè lanti-scienza, con i suoi vari esemplari
umani: lasciamo pure che blaterino, ma – per piacere – senza megafoni» («Il
sole 24 ore», 24 novembre 2017,
p. 31).
Senza
tirannie postmoderne e neoliberismo.
Costruire
futuro
nella consapevolezza del nostro presente è compito indifferibile e, in un mondo
apparentemente dominato dai social, dipende da numeri relativamente piccoli di
persone e istituzioni con gli strumenti culturali e morali per farlo, e
soprattutto dai giovani che, in un mondo sempre più segnato da sfaldamenti e
conflitti, letteralmente si sentono mancare la terra sotto i piedi. Ma dipende
anche dalla nostra maturità collettiva. Nel 1960, nellalba della
globalizzazione attuale, Carlo Mario
Cipolla introduceva così il suo lungimirante saggio su Uomini, tecniche,
economie: «Una delle principali
conseguenze della Rivoluzione Industriale è stata la riduzione del costo e
laumento della velocità dei trasporti. Le distanze si sono ridotte a un ritmo
stupefacente. Giorno per giorno il mondo sembra diventare sempre più piccolo e
società che da millenni si ignoravano praticamente a vicenda si trovano
allimprovviso a contatto – o in conflitto. Nel nostro modo di agire, sia nel
campo politico che in quello economico, sia nel settore dellorganizzazione
sanitaria che in quello della strategia militare si impone un nuovo punto di
vista. Nel passato luomo ha dovuto abbandonare il punto di vista cittadino o
regionale per acquisirne uno nazionale. Oggi dobbiamo uniformare noi stessi e
la nostra maniera di pensare ad un punto di vista globale. Come scrisse recentemente Bertrand
Russell, “Il mondo è diventato uno, non solo per lastronomo, ma anche per il
normale cittadino”» (Milano, Feltrinelli 1990, p. 5). «In
ciò, appunto, sta il gran problema. A causa del progresso cumulativo, il
progresso tecnico dellHomo Sapiens è stato estremamente rapido. In un
numero piuttosto ridotto di generazioni, luomo è pervenuto al controllo del
suo ambiente ed al dominio delle forze più potenti della natura. Ma di quanto
ha migliorato se stesso in qualità? Luomo non può sottrarsi alla sua origine,
che è quella di un animale disgustosamente carnivoro e cannibale» (ivi, p. 136). Cè
una profonda e saggia intuizione nei giovani che si battono per salvarci – noi,
pianeta e clima – da un cannibalismo primordiale e, nel mondo globale, idiota.
È peccato contro lo spirito santo – unico imperdonabile, sanzione in sé di una
irreparabile mancanza di senno – dimenticare che la più antica istituzione
mondiale di governo, la sola ancora attiva dopo due millenni di tormentatissima
storia, allinizio del terzo millennio ha eletto Papa chi per primo nella
storia ha scelto il nome di Francesco, per poi ispirare e promulgare la Lettera
Enciclica LAUDATO SI sulla cura della casa comune del Santo Padre Francesco (Città
del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2015). Non
sono nati ieri i giovani che in Europa e nel mondo si curano della casa comune
e di noi tutti che ci viviamo.
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