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Shangai

di Giuseppe Gario
  Shangai
Data di pubblicazione su web 22/04/2018  

Il giocatore scelto a sorte impugna quarantuno bastoncini di colori associati a punteggi, ne appoggia le punte sul tavolo, li lascia cadere, li sfila uno a uno. Se ne fa muovere altri, tocca a un secondo giocatore e così fino alla conta finale. Si apprende (attenzione, pazienza, precisione) più che competere: è il senso del gioco.

Italia a parte, nello Shangai elettorale europeo si apprende «che Orban serve anche gli interessi dei dirigenti del Partito Popolare Europeo che, senza dirlo in pubblico, sembrano aver recuperato i temi d’estrema destra a fini elettorali. Tendenza che non si smentirà all’avvicinarsi delle elezioni europee 2019. Il calcolo è cinico: il rischio è l’“orbanizzazione” degli spiriti europei. Già all’opera a Bruxelles. Dopo il picco di crisi migratoria nel 2015, l’ossessione del primo ministro ungherese di bunkerizzare l’Europa è stata assunta come una priorità. Il calcolo è anche pericoloso perché, proteggendo Orban, il PPE indebolisce Bruxelles nei suoi sforzi per fare rispettare lo Stato di diritto in UE». «Come può la Commissione, guardiana ultima dei trattati, restare credibile se tace su interessi di parte?» (C. Ducourtieux, Le coupable soutien à Orban, in «Le Monde», 12 aprile  2018, p. 24). Altro bastoncino: Orban è protetto proprio per indebolire lo Stato di diritto in UE. Laurent Wauquiez, euroscettico presidente del Partito Repubblicano francese, in vista delle elezioni europee «è accerchiato da linee rosse. “Non giocate con Schengen, non giocate con l’euro”, ha ammonito un peso massimo del PPE» (O. Faye, Europe: les transgressions de Wauquiez passent mal, in «Le Monde», 13 aprile  2018, p. 9). L’UE va protetta come mercato, secondo la dottrina neoliberale di stati minimi ed elettori follower.

Nel 1938-1945 l’Europa unita è stata la risposta «ai propositi e agli atti di coloro che, “collaboratori” o “collaborazionisti”, hanno scelto di collaborare con la Germania nazista nel tempo in cui essa esercitava sull’Europa continentale la sua egemonia». «Lo spirito della collaborazione anima le forze e le correnti sociopolitiche tradizionali, spesso al potere già prima della guerra; lo spirito collaborazionista è invece proprio delle minoranze fasciste. Tuttavia, se occorre distinguere questi due atteggiamenti, non li si può contrapporre in modo assoluto, poiché non ci sono tra essi frontiere nette». «Ci auguriamo che gli europei di oggi non dimentichino, dopo due generazioni, che in nessun caso il progetto hitleriano degli anni quaranta può essere ritenuto un modello precursore, né coloro che accettarono di collaborarvi, in un modo o nell’altro e più o meno a lungo, possono essere considerati alla stregua di esempi da seguire» (Y. Durand, Il nuovo ordine europeo. La collaborazione nell’Europa tedesca (1938-1945), Bologna, il Mulino, 2002, pp. 10 e 225).

L’unità europea è inscritta nella storia, su due vie: armonizzare le diversità nella democrazia e nel diritto o eliminarle con la violenza – nazismo, neonazismo, bullismo di stato – destinata a finire male perché epidemica. Invece l’Europa unita nel diritto e nella democrazia ci ha dato settant’anni di pace e di benessere, nonostante la perdurante guerra mondiale (fredda) fino al 1989, quando, cresciuto nelle guerre e rimasto senza contrappesi dopo il crollo dell’URSS, si è esteso apparentemente vittorioso nel mondo il “complesso militare-industriale”, contro il quale il presidente Dwight Eisenhower mise in guardia il popolo degli Stati Uniti nel discorso di commiato del 17 gennaio 1961.

«The Economist» estrae un altro bastoncino e informa che siamo in un nuovo mondo. «Una delle idee che più ha colpito il mondo politico in questi anni è che la politica è sempre più definita dalla divisione tra apertura e chiusura invece che sinistra e destra. Apertura sia economica (immigrazione e libero mercato) che culturale (accoglienza di minoranze etniche e sessuali). Chiusura è il contrario». «Ma c’è una spiegazione migliore della polarizzazione politica. È il divario tra promossi e bocciati». «I promossi abbinano un’abilità condivisa nel gestire i lati negativi della globalizzazione con una visione condivisa – diciamo un cosmopolitismo narcisistico – che li unisce e ne legittima il disdegno per le tribù rivali. I bocciati, intanto, sono uniti nella rabbia contro gli elitari che proclamano l’apertura fin che il loro lavoro è protetto. Sempre più vogliono vedere crollare il sistema. Parlare di apertura e chiusura è un duplice errore. Nasconde le forze più profonde che dividono il mondo, e protegge i vincitori svalutando le legittime preoccupazioni dei perdenti» (Bagehot. The Politics of Illusion, in «The Economist», 24 marzo 2018, p. 33).

Dalle tribù globali alla democrazia e allo Stato di diritto globali. Un percorso che Razmir Keucheyan, professore di Sociologia all’università di Bordeaux, ci aiuta a capire traendo un altro bastoncino. «Articolare un “fronte culturale” coi fronti economico e politico esistenti: sta qui la grande idea». E fa un esempio. «In dicembre 2017, i dipendenti dell’impresa di pulizie Onet, in regione parigina, hanno ottenuto una vittoria importante. Subfornitori delle ferrovie francesi SNCF per la pulizia delle stazioni, rivendicavano l’ancoraggio al contratto collettivo di manutenzione ferroviaria della SNCF, il ritiro di una clausola di mobilità che li obbligava a lunghe trasferte, l’aumento dell’indennità di pasto e la regolarizzazione dei colleghi senza documenti. Dopo quarantacinque giorni di sciopero hanno ottenuto l’essenziale, in una lotta che si annunciava tanto più improbabile perché condotta da immigrati recenti, in una impresa di subfornitura e in un settore che non ha un impatto vitale sulla vita sociale. Bloccare una raffineria, significa bloccare il paese. Ma non fare le pulizie in una stazione periferica in Seine-Saint-Denis…?». «La “battaglia delle idee” consiste nel politicizzare queste nuove classi popolari» (R. Keucheyan, Ce que la bataille culturelle n’est pas, in «Le Monde diplomatique», marzo 2018, p. 3).

La ritrovata – riappresa – capacità diffusa di pensare e agire politicamente è la chiave di volta dello Stato di diritto e della democrazia nel mondo globale che opprime in egual modo persone di paesi, culture e tradizioni più diversi. Da qui la guerra all’immigrazione da parte delle destre anche europee, memori che le grandi migrazioni interne e internazionali hanno reso politicamente necessari Stato di diritto e democrazia, soli strumenti possibili di governo, invece che di soppressione, delle diversità.

Così pure per il reinventato culto nazionalista. «È la classica tattica militare, dividere per meglio controllare» dice Sinan Hatahet, analista vicino all’opposizione siriana parlando della battaglia finale di Ghouta in Siria (B. Barthe, Bachar Al-Assad et son allié russe reprennent le Goutha, in «Le Monde», 13 aprile 2018, p. 3). Non lontano, solo in apparenza in un altro mondo, Mohana Abad, direttore medico dell’ospedale Al-Awda a Gaza, parla delle centinaia di feriti partecipanti alla “marcia del gran ritorno” nel territorio palestinese: «La natura delle ferite, a ginocchia e caviglie, mostra la volontà di trasformare dei giovani in handicappati. I cecchini israeliani si addestrano» (P. Smolar, A Gaza, un troisième vendredi sous les balles, in «Le Monde», 15-16 aprile 2018, p. 6). Tattiche militari dei potenti di turno nel mondo ormai globale dove la scelta è armonizzarne le complessità nella democrazia e nel diritto o eliminarle con la violenza, come in Europa abbiamo cercato di fare in due guerre mondiali, imparando la lezione a caro prezzo. Su scala globale il prezzo è inimmaginabile.

Salvo lo UK ora sulla via di Brexit, l’UE ha vinto non facendola, la guerra in Iraq, ancora in corso dal 2004, oltre all’irresolubile danno collaterale di Guantanamo per lo Stato di diritto USA.

Italia a parte. Dopo Berlusconi/Trump, siamo laboratorio dell’elementare (buoni/cattivi) marketing elettronico globale, cosiddetto social, oggi sotto i riflettori del Congresso USA con le scuse di Mark Zuckerberg. «Ma il padrone di Facebook è oggi più desolato di quando nel 2003, studente a Harvard, aveva creato Facemash, sito che si proponeva di valutare gli studenti dal loro fisico? O le sue scuse sono più sincere di quelle offerte nel 2006 lanciando News Feed, funzionalità che permette a chiunque di tracciare azioni e gesti degli “amici”? Quanto valgono oggi le sue scuse rispetto a quelle del 2007, quando la rete sociale aveva creato Beacon, piattaforma pubblicitaria che raccoglieva dati dagli acquisti sui siti partner di Facebook? Che dire dell’atto di contrizione del 2009 per il tentativo di appropriarsi a vita dei contenuti postati dagli utilizzatori? E del rincrescimento espresso nel 2010, dopo aver trasferito i loro dati a Microsoft e Yelp? Infine, Zuckerberg si sente più colpevole di quando nel 2017 si pentì di aver fatto da vettore della propaganda russa e diffuso false notizie nell’elezione presidenziale USA?». «E se l’eterno penitente fosse solo un pericoloso recidivo?» (Facebook: ce n’est pas un accident de parcours, in «Le Monde», 13 aprile 2018, p. 21).

«L’amministratore delegato di Facebook ha un bel ripetere nelle audizioni che Facebook non vende i dati, è proprio per questo che la borsa ha valorizzato il gruppo 480 miliardi di dollari (390 in euro) e Mark Zuckerberg ne ha ammassati 64». «Finora l’Europa era accusata di attitudine difensiva nel cercare di controllare meglio i giganti del Web, non potendo far loro concorrenza con le proprie imprese. Oggi gli Stati Uniti si rendono conto che questa battaglia non è naif né ostile all’innovazione. È solo la condizione sine qua non perché si sviluppi in armonia con la democrazia» (ibid.). Armonia che le destre USA ed europee detestano perché la democrazia pretende addirittura di porre limiti a imprese oggi libere da obblighi verso ogni società e nazione, come Facebook. Mark Zuckerberg  rappresenta l’epifania anche generazionale di una rivoluzione industriale che non c’è perché, scrive il professore di scienze sociali alla Northwestern University Robert J. Gordon (in The Rise And Fall of American Growth, New Jersey, Princeton University Press, 2016) citando Peter Thiel: «Volevamo le auto volanti, invece abbiamo avuto 140 caratteri» (ivi, p. 566).

«La terza rivoluzione industriale, dell’informazione e comunicazione, cominciò nel 1960 ed è in corso. Come la seconda, ha realizzato un cambiamento rivoluzionario ma in una sfera relativamente meno ampia dell’attività umana. La seconda coprì virtualmente l’intero arco dei bisogni e desideri umani, inclusi cibo, abiti, casa, trasporti, intrattenimento, comunicazione, informazione, salute, medicina, condizioni di lavoro. Ma poche di queste dimensioni, soprattutto intrattenimento, comunicazione e informazione, sono state rivoluzionate dalla terza. I limiti della terza rivoluzione industriale bastano a spiegare perché lo sviluppo della produzione pro-capite e oraria ha cominciato a frenare dopo il 1970» (ivi, p. 320). «La ricognizione storica sulla fonte delle invenzioni dal 1870 pone in evidenza un andamento a U in cui dopo il dominio dell’inventore individuale nel diciannovesimo secolo seguì per la maggior parte del ventesimo secolo il ruolo preponderante dei laboratori di ricerca delle grandi imprese. Dopo il 1975 tornarono gli inventori individuali come Bill Gates, Steve Jobs e Mark Zuckerberg con la creazione della moderna età elettronica» (ivi, p. 567).

«La lenta crescita della produttività, solo 0,6% annuo dal 2009 rispetto al 2,8% tra 1920 e 1970, è la più forte evidenza del modesto impatto sinora manifestato da stampa 3D, robot, veicoli autonomi e Intelligenza Artificiale nell’eliminare impieghi e aumentare la produttività». «L’allarmismo dei cosiddetti “tecno-ottimisti” che una quarta rivoluzione industriale è in procinto di distruggere milioni di impieghi in massa finora mostra di essere un’illusione accolta con favore» (ivi, p. 658). «Il problema dell’era del computer non è la disoccupazione di massa, ma la graduale sparizione di buoni impieghi intermedi fissi a causa non di robot e algoritmi, ma della globalizzazione e dell’esternalizzazione in altri paesi, unitamente alla concentrazione dell’aumento dei posti di lavoro in occupazioni manuali banali e poco remunerate. […] Questione squisitamente politica, a partire dall’uguaglianza di opportunità educative di sostanza e non solo di intrattenimento, comunicazione e informazione» (ivi, pp. 604 e 647-648). Zuckerberg è lo specchio di una generazione che non ha ancora interiorizzato il saper vivere trasmessoci con Alice nel Paese delle Meraviglie, L’isola del tesoro, il Pifferaio di Hamelin e crede in startup, Bitcoin, Big data.

Direttrice dell’Unità di Ricerca sulla Resilienza e professore all’Università Cattolica di Milano, Cristina Castelli il 16 aprile 2018 ha presentato la open lecture Enzo Avitabile Music Life, sottolineando che la chiave di volta del futuro è la resilienza, coltivata in particolare con il linguaggio universale della musica. Risorsa soprattutto dei poveri – insieme allo studio e alla volontà, sottolineate da Avitabile – la resilienza è sempre più preziosa nell’area millenaria d’incontro delle civiltà di Africa, Asia, Europa: quel Mediterraneo dove da troppi anni muoiono decine e decine di migliaia di persone d’ogni condizione e età, in cerca di futuro, spinte da guerra, fame, ingiustizia. Vecchio Continente che, nell’effimera sua componente di mercato anche politico, si mura vivo in una ricchezza materiale anch’essa effimera senza la capacità insostituibile dello Stato di diritto e della democrazia di produrre cittadinanza.

Non a caso, «Malta vende passaporti e nazionalità». «Per poco più di un milione di euro la piccola isola mediterranea vende la nazionalità maltese, porta d’ingresso nell’Unione Europea». «Le condizioni poste dall’Unione europea non sono rispettate. La giornalista Daphne Caruana Galizia, assassinata, aveva denunciato queste derive» (titoli di testa in «Le Monde», 20 aprile 2018, p. 1). «Trecento addetti e sede a Jersey (isola autonoma dipendente dalla Corona inglese), lo studio Henley & Partners ha proposto il programma “cittadini d’investimento” al presidente socialista maltese Joseph Muscat che si è permesso, un mese dopo l’assassinio di Daphne Caruana Galizia, di mancare alla discussione in Parlamento europeo su Stato di diritto e democrazia a Malta, per intervenire a Singapore in un seminario commerciale di Henley» (J.-B.C. e A. Mi., Profession, vendeur de nationalité, in «Le Monde», 20 aprile 2018, p. 3). Nella sua ferocia l’alternativa non potrebbe essere più chiara, in tempo di pace e in Europa.





 
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