Il
giocatore scelto a sorte impugna quarantuno bastoncini di
colori associati a punteggi, ne appoggia le punte sul tavolo, li lascia cadere,
li sfila uno a uno. Se ne fa muovere altri, tocca a un secondo
giocatore e così fino alla conta finale. Si apprende (attenzione, pazienza,
precisione) più che competere: è il senso del gioco.
Italia
a parte, nello Shangai elettorale
europeo si apprende «che Orban serve anche gli interessi dei
dirigenti del Partito Popolare Europeo che, senza dirlo in pubblico, sembrano
aver recuperato i temi destrema destra a fini elettorali. Tendenza che non si
smentirà allavvicinarsi delle elezioni europee 2019. Il calcolo è cinico: il
rischio è l“orbanizzazione” degli spiriti europei. Già allopera a Bruxelles.
Dopo il picco di crisi migratoria nel 2015, lossessione del primo ministro
ungherese di bunkerizzare lEuropa è stata assunta come una priorità. Il
calcolo è anche pericoloso perché, proteggendo Orban, il PPE indebolisce
Bruxelles nei suoi sforzi per fare rispettare lo Stato di diritto in UE». «Come
può la Commissione, guardiana ultima dei trattati, restare credibile se tace su
interessi di parte?» (C. Ducourtieux, Le coupable soutien à Orban, in «Le Monde», 12 aprile 2018,
p. 24). Altro
bastoncino: Orban è protetto proprio per indebolire lo Stato di diritto in UE. Laurent Wauquiez, euroscettico
presidente del Partito Repubblicano francese, in vista delle elezioni europee
«è accerchiato da linee rosse. “Non giocate con Schengen, non giocate con
leuro”, ha ammonito un peso massimo del PPE» (O. Faye, Europe: les transgressions de Wauquiez passent mal, in «Le Monde»,
13 aprile 2018, p. 9). LUE va protetta come mercato,
secondo la dottrina neoliberale di stati minimi ed elettori follower.
Nel
1938-1945 lEuropa unita è stata la risposta «ai propositi e agli atti di
coloro che, “collaboratori” o “collaborazionisti”, hanno scelto di collaborare con la Germania nazista nel tempo in cui essa
esercitava sullEuropa continentale la sua egemonia». «Lo spirito della
collaborazione anima le forze e le correnti sociopolitiche tradizionali, spesso
al potere già prima della guerra; lo spirito collaborazionista è invece proprio
delle minoranze fasciste. Tuttavia, se occorre distinguere questi due
atteggiamenti, non li si può contrapporre in modo assoluto, poiché non ci sono
tra essi frontiere nette». «Ci auguriamo che gli europei di oggi non
dimentichino, dopo due generazioni, che in nessun caso il progetto hitleriano
degli anni quaranta può essere ritenuto un modello precursore, né coloro che accettarono
di collaborarvi, in un modo o nellaltro e più o meno a lungo, possono essere
considerati alla stregua di esempi da seguire» (Y. Durand, Il nuovo ordine europeo. La collaborazione nellEuropa tedesca
(1938-1945), Bologna, il Mulino, 2002, pp. 10 e 225).
Lunità
europea è inscritta nella storia, su due vie: armonizzare le diversità nella
democrazia e nel diritto o eliminarle con la violenza – nazismo, neonazismo,
bullismo di stato – destinata a finire male perché epidemica. Invece lEuropa
unita nel diritto e nella democrazia ci ha dato settantanni di pace e di benessere,
nonostante la perdurante guerra mondiale (fredda) fino al 1989, quando,
cresciuto nelle guerre e rimasto senza contrappesi dopo il crollo dellURSS, si
è esteso apparentemente vittorioso nel mondo il “complesso
militare-industriale”, contro il quale il presidente Dwight Eisenhower mise in guardia il
popolo degli Stati Uniti nel discorso di commiato del 17 gennaio 1961.
«The
Economist» estrae un altro bastoncino e informa che siamo in un nuovo mondo.
«Una delle idee che più ha colpito il mondo politico in questi anni è che la
politica è sempre più definita dalla divisione tra apertura e chiusura invece
che sinistra e destra. Apertura sia economica (immigrazione e libero mercato)
che culturale (accoglienza di minoranze etniche e sessuali). Chiusura è il
contrario». «Ma cè una spiegazione migliore della polarizzazione politica. È
il divario tra promossi e bocciati». «I promossi abbinano unabilità condivisa
nel gestire i lati negativi della globalizzazione con una visione condivisa –
diciamo un cosmopolitismo narcisistico – che li unisce e ne legittima il
disdegno per le tribù rivali. I bocciati, intanto, sono uniti nella rabbia
contro gli elitari che proclamano lapertura fin che il loro lavoro è protetto.
Sempre più vogliono vedere crollare il sistema. Parlare di apertura e chiusura
è un duplice errore. Nasconde le forze più profonde che dividono il mondo, e
protegge i vincitori svalutando le legittime preoccupazioni dei perdenti» (Bagehot. The Politics of Illusion, in
«The Economist», 24 marzo 2018, p. 33).
Dalle
tribù globali alla democrazia e allo Stato di diritto globali. Un percorso che Razmir Keucheyan, professore di Sociologia
alluniversità di Bordeaux, ci aiuta a capire traendo un altro bastoncino.
«Articolare un “fronte culturale” coi fronti economico e politico esistenti:
sta qui la grande idea». E fa un esempio. «In dicembre 2017, i dipendenti
dellimpresa di pulizie Onet, in regione parigina, hanno ottenuto una vittoria
importante. Subfornitori delle ferrovie francesi SNCF per la pulizia delle
stazioni, rivendicavano lancoraggio al contratto collettivo di manutenzione
ferroviaria della SNCF, il ritiro di una clausola di mobilità che li obbligava
a lunghe trasferte, laumento dellindennità di pasto e la regolarizzazione dei
colleghi senza documenti. Dopo quarantacinque giorni di sciopero hanno ottenuto
lessenziale, in una lotta che si annunciava tanto più improbabile perché
condotta da immigrati recenti, in una impresa di subfornitura e in un settore
che non ha un impatto vitale sulla vita sociale. Bloccare una raffineria,
significa bloccare il paese. Ma non fare le pulizie in una stazione periferica
in Seine-Saint-Denis…?». «La “battaglia delle idee” consiste nel politicizzare
queste nuove classi popolari» (R. Keucheyan, Ce que la bataille culturelle nest pas, in «Le Monde
diplomatique», marzo 2018, p. 3).
La
ritrovata – riappresa – capacità diffusa di pensare e agire politicamente è la
chiave di volta dello Stato di diritto e della democrazia nel mondo globale che
opprime in egual modo persone di paesi, culture e tradizioni più diversi. Da
qui la guerra allimmigrazione da parte delle destre anche europee, memori che
le grandi migrazioni interne e internazionali hanno reso politicamente
necessari Stato di diritto e democrazia, soli strumenti possibili di governo,
invece che di soppressione, delle diversità.
Così
pure per il reinventato culto nazionalista. «È
la classica tattica militare, dividere per meglio controllare» dice Sinan Hatahet, analista vicino allopposizione siriana parlando
della battaglia finale di Ghouta in Siria (B. Barthe, Bachar Al-Assad et son allié russe reprennent le Goutha, in «Le
Monde», 13 aprile 2018, p. 3). Non lontano, solo in apparenza in un altro
mondo, Mohana Abad, direttore medico
dellospedale Al-Awda a Gaza, parla delle centinaia di feriti partecipanti alla
“marcia del gran ritorno” nel territorio palestinese: «La natura delle ferite,
a ginocchia e caviglie, mostra la volontà di trasformare dei giovani in
handicappati. I cecchini israeliani si addestrano» (P. Smolar, A Gaza, un troisième vendredi sous les
balles, in «Le Monde», 15-16 aprile 2018, p. 6). Tattiche militari dei
potenti di turno nel mondo ormai globale dove la scelta è armonizzarne le
complessità nella democrazia e nel diritto o eliminarle con la violenza, come
in Europa abbiamo cercato di fare in due guerre mondiali, imparando la lezione
a caro prezzo. Su scala globale il prezzo è inimmaginabile.
Salvo
lo UK ora sulla via di Brexit, lUE ha vinto non facendola, la guerra in Iraq,
ancora in corso dal 2004, oltre allirresolubile danno collaterale di
Guantanamo per lo Stato di diritto USA.
Italia a parte. Dopo Berlusconi/Trump,
siamo laboratorio dellelementare (buoni/cattivi) marketing elettronico globale, cosiddetto social, oggi sotto i riflettori del Congresso USA con le scuse di Mark Zuckerberg. «Ma il padrone di
Facebook è oggi più desolato di quando nel 2003, studente a Harvard, aveva
creato Facemash, sito che si proponeva di valutare gli studenti dal loro
fisico? O le sue scuse sono più sincere di quelle offerte nel 2006 lanciando
News Feed, funzionalità che permette a chiunque di tracciare azioni e gesti
degli “amici”? Quanto valgono oggi le sue scuse rispetto a quelle del 2007,
quando la rete sociale aveva creato Beacon, piattaforma pubblicitaria che
raccoglieva dati dagli acquisti sui siti partner di Facebook? Che dire
dellatto di contrizione del 2009 per il tentativo di appropriarsi a vita dei
contenuti postati dagli utilizzatori? E del rincrescimento espresso nel 2010,
dopo aver trasferito i loro dati a Microsoft e Yelp? Infine, Zuckerberg si
sente più colpevole di quando nel 2017 si pentì di aver fatto da vettore della
propaganda russa e diffuso false notizie nellelezione presidenziale USA?». «E
se leterno penitente fosse solo un pericoloso recidivo?» (Facebook: ce nest pas un accident de parcours, in «Le Monde», 13
aprile 2018, p. 21).
«Lamministratore
delegato di Facebook ha un bel ripetere nelle audizioni che Facebook non vende
i dati, è proprio per questo che la borsa ha valorizzato il gruppo 480 miliardi
di dollari (390 in euro) e Mark Zuckerberg ne ha ammassati 64». «Finora
lEuropa era accusata di attitudine difensiva nel cercare di controllare meglio
i giganti del Web, non potendo far loro concorrenza con le proprie imprese. Oggi
gli Stati Uniti si rendono conto che questa battaglia non è naif né ostile
allinnovazione. È solo la condizione sine
qua non perché si sviluppi in armonia con la democrazia» (ibid.). Armonia
che le destre USA ed europee detestano perché la democrazia pretende
addirittura di porre limiti a imprese oggi libere da obblighi verso ogni
società e nazione, come Facebook. Mark Zuckerberg rappresenta lepifania anche generazionale di
una rivoluzione industriale che non cè perché, scrive il professore di scienze
sociali alla Northwestern University Robert
J. Gordon (in The Rise And Fall of
American Growth, New Jersey, Princeton University Press, 2016) citando Peter Thiel: «Volevamo le auto volanti,
invece abbiamo avuto 140 caratteri» (ivi, p. 566).
«La
terza rivoluzione industriale, dellinformazione e comunicazione, cominciò nel
1960 ed è in corso. Come la seconda, ha realizzato un cambiamento
rivoluzionario ma in una sfera relativamente meno ampia dellattività umana. La
seconda coprì virtualmente lintero arco dei bisogni e desideri umani, inclusi
cibo, abiti, casa, trasporti, intrattenimento, comunicazione, informazione,
salute, medicina, condizioni di lavoro. Ma poche di queste dimensioni,
soprattutto intrattenimento, comunicazione e informazione, sono state
rivoluzionate dalla terza. I limiti della terza rivoluzione industriale bastano
a spiegare perché lo sviluppo della produzione pro-capite e oraria ha
cominciato a frenare dopo il 1970» (ivi, p. 320). «La ricognizione storica
sulla fonte delle invenzioni dal 1870 pone in evidenza un andamento a U in cui
dopo il dominio dellinventore individuale nel diciannovesimo secolo seguì per
la maggior parte del ventesimo secolo il ruolo preponderante dei laboratori di
ricerca delle grandi imprese. Dopo il 1975 tornarono gli inventori individuali
come Bill Gates, Steve Jobs e Mark Zuckerberg con la
creazione della moderna età elettronica» (ivi, p. 567).
«La
lenta crescita della produttività, solo 0,6% annuo dal 2009 rispetto al 2,8%
tra 1920 e 1970, è la più forte evidenza del modesto impatto sinora manifestato
da stampa 3D, robot, veicoli autonomi e Intelligenza Artificiale nelleliminare
impieghi e aumentare la produttività». «Lallarmismo dei cosiddetti
“tecno-ottimisti” che una quarta rivoluzione industriale è in procinto di
distruggere milioni di impieghi in massa finora mostra di essere unillusione
accolta con favore» (ivi, p. 658). «Il problema dellera del computer non è la
disoccupazione di massa, ma la graduale sparizione di buoni impieghi intermedi
fissi a causa non di robot e algoritmi, ma della globalizzazione e
dellesternalizzazione in altri paesi, unitamente alla concentrazione
dellaumento dei posti di lavoro in occupazioni manuali banali e poco
remunerate. […] Questione squisitamente politica, a partire dalluguaglianza di
opportunità educative di sostanza e non solo di intrattenimento, comunicazione
e informazione» (ivi, pp. 604 e 647-648). Zuckerberg è lo specchio di una
generazione che non ha ancora interiorizzato il saper vivere trasmessoci con Alice nel Paese delle Meraviglie, Lisola del tesoro, il Pifferaio di Hamelin e crede in startup, Bitcoin, Big data.
Direttrice
dellUnità di Ricerca sulla Resilienza e professore allUniversità Cattolica di
Milano, Cristina Castelli il 16
aprile 2018 ha presentato la open lecture
Enzo Avitabile Music Life, sottolineando che la chiave di volta del futuro
è la resilienza, coltivata in particolare con il linguaggio universale della
musica. Risorsa soprattutto dei poveri – insieme allo studio e alla volontà,
sottolineate da Avitabile – la resilienza è sempre più preziosa nellarea
millenaria dincontro delle civiltà di Africa, Asia, Europa: quel Mediterraneo
dove da troppi anni muoiono decine e decine di migliaia di persone dogni
condizione e età, in cerca di futuro, spinte da guerra, fame, ingiustizia. Vecchio
Continente che, nelleffimera sua componente di mercato anche politico, si mura
vivo in una ricchezza materiale anchessa effimera senza la capacità
insostituibile dello Stato di diritto e della democrazia di produrre
cittadinanza.
Non
a caso, «Malta vende passaporti e nazionalità». «Per poco più di un milione di
euro la piccola isola mediterranea vende la nazionalità maltese, porta
dingresso nellUnione Europea». «Le condizioni poste dallUnione europea non
sono rispettate. La giornalista Daphne
Caruana Galizia, assassinata, aveva denunciato queste derive» (titoli di
testa in «Le Monde», 20 aprile 2018, p. 1). «Trecento addetti e sede a Jersey
(isola autonoma dipendente dalla Corona inglese), lo studio Henley &
Partners ha proposto il programma “cittadini dinvestimento” al presidente
socialista maltese Joseph Muscat che
si è permesso, un mese dopo lassassinio di Daphne Caruana Galizia, di mancare
alla discussione in Parlamento europeo su Stato di diritto e democrazia a
Malta, per intervenire a Singapore in un seminario commerciale di Henley»
(J.-B.C. e A. Mi., Profession, vendeur de
nationalité, in «Le Monde», 20 aprile 2018, p. 3). Nella sua ferocia
lalternativa non potrebbe essere più chiara, in tempo di pace e in Europa.
|
|