«Un film è un gioco dombre, una
combinazione di macchie che il nostro occhio interpreta come ambienti,
personaggi, azioni». Così lo storico e sociologo francese Pierre Sorlin
apre Ombre passeggere (Marsilio
2013), il suo recente saggio sul rapporto tra cinema e storia; e così si
apre anche Il varco,
terzo film della coppia formata da Federico Ferrone e Michele
Manzolini, che approda alla Mostra del cinema di Venezia nella sezione “Sconfini”.
Macchie scure su fondo bianco che, come in un test di Rorschach della memoria,
diventano prima fantasmi, poi sagome, quindi un bambino che gioca con la neve,
mentre una voce di donna racconta i n russo una fiaba
popolare del ciclo Il soldato disertore e il diavolo, che già Stravinskij e Ramuz avevano scelto come base della loro Histoire du soldat. Ed è proprio la storia di un
soldato quella che ci racconta il film.
Una scena del film © Biennale Cinema 2019
È un soldato italiano (è lui quel bambino?),
veterano della guerra dAfrica che, nel 1941, viene richiamato alle armi per
partecipare alla campagna di Russia. Essendo nato da madre russa (è lei quella
voce?), conosce la lingua e quindi è capace di tenere i contatti con la
popolazione e soprattutto può interrogare i prigionieri. Quello che vediamo è
il suo viaggio, pieno di aspettative e speranze che si dissolveranno
gradualmente nellamara realtà del fronte ucraino e di una delle più tragiche e
sconsiderate esperienze della seconda guerra mondiale. Quello che passa sullo
schermo è, però, assolutamente non convenzionale: tutto infatti è ricostruito
attraverso immagini di repertorio (potremmo dire quasi “amatoriali”), girate da
due militari che su quel fronte sono stati davvero chiamati a combattere. È
così che le riprese di Adolfo Franzini e Enrico Chierici
riemergono dagli archivi della Home Movies di Bologna e tornano a una nuova
vita, svelando non solo il loro valore documentale, ma soprattutto lenorme
potenziale evocativo e narrativo, immergendoci in una sorta di lunga soggettiva
su cui si distendono i pensieri del protagonista, che hanno la voce pacata e
quasi monocorde di Emidio Clementi (cantante dei Massimo Volume), che
giustamente non enfatizza nessuno dei passaggi cruciali del racconto, così da
non distrarre né distorcerne la visione.
Una scena del film © Biennale Cinema 2019 Ai due registi sono stati necessari oltre
due anni di ricerca di archivio e quattro anni complessivi di lavoro e di
scrittura (in collaborazione con Wu
Ming 2) per comporre un film allapparenza semplice e lineare, che da un
lato torna a dirigere il suo sguardo su fatti e avvenimenti che ancora meritano
e necessitano di essere approfonditi e compresi, dallaltro non si dimentica
del tragico presente di un paese che si riscopre nuovamente teatro di una
guerra civile (quindi, se possibile, ancora più insensata). Un presente che
entra silenziosamente nel film, confondendosi nella narrazione storica,
attraverso tenui lampi di colore che mostrano passaggi, paesaggi, ma
soprattutto volti che, di fronte allincomprensibile follia di un nuovo
conflitto, evidenziano lo stesso attonito smarrimento di ottanta anni prima, a
conferma che luomo continua inesorabilmente a essere lunico animale che non
riesce davvero a imparare nulla dai propri errori. Una scena del film © Biennale Cinema 2019
Quante storie può contenere unimmagine?
Quante immagini possono ancora raccontare nuove storie? Quanti sensi si possono
stratificare su quel “gioco dombre”? Sono anche queste le domande contenute nel
film, che offre a ogni tipo di spettatore i suoi molti livelli di lettura e di
riflessione: da quello di lasciarsi semplicemente trasportare dalle vicende
mostrate, fino ad arrivare a interrogarsi sullontologia stessa dellimmagine
audiovisiva, su quello che può essere il suo
effettivo valore come documento e su quanto sia complesso il suo
rapporto con la storia e la storiografia, temi molto cari allo stesso Sorlin dellincipit: «La vicenda che vediamo
svilupparsi sullo schermo è stata registrata tempo addietro, il film è la
traccia di momenti svaniti e per questo simparenta con il ricordo
dellaccaduto che chiamiamo “storia”».
Che strano, sembra quasi che abbia (pre)visto il
film.
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