Dirigere
la storia di due sopravvissute allo schiavismo significa identificare con
convinzione il proprio cinema in strumento di denuncia sociale e umana. Ed è
quello che sceglie di fare Nouri Bouzid
con Les épouvantails, film crudo nello
stile e che, sebbene si affidi alla finzione, restituisce senza orpelli ma con
tragica forza la drammatica condizione femminile nei paesi islamici.
La
pellicola si apre con luscita dal carcere di Zina e Djo, due donne che per
ragioni opposte sono finite schiave dei terroristi dellISIS, in quella
disumana condizione definita dalla cosiddetta “jihad sessuale”. La scarcerazione non coincide però con la libertà:
né per Djo, tormentata dai fantasmi di quel terribile periodo di prigionia che
la condurranno al suicidio, né per la bellissima, ammaliante Zina, che ha su di
sé lonta di essere scappata di casa seguendo ciecamente luomo amato e finendo
da lui venduta.
Una scena del film © Biennale Cinema 2019
Ed
è nella condizione di Zina che il film trova la sua raison detre: innocente per sé stessa ma colpevole per tutti gli
altri, eccetto forse che per la madre dilaniata dal conflitto interiore tra il
biasimo per le azioni sconsiderate della figlia e lineludibile amore materno.
Così lavvocatessa che dovrebbe aiutarla si mostra restia a fidarsi di lei mentre
il padre, accecato dalla vergogna, dopo averla ripudiata tenterà persino di
sacrificarla, in un insano gesto che innesca lo sconcerto dello spettatore
occidentale di fronte a un sistema di codici “civili” ai limiti
dellabominevole. Solo lamicizia di Driss, giovane omosessuale, dona a Zina
qualche attimo di pace dal rancore e dal disprezzo che la circondano.
A
supportare una narrazione sì di finzione ma radicata nella realtà
contemporanea, una prova recitativa di spessore, a partire dalla giovane Afef Ben Mahmoud che riesce a portare
in scena una Zina mai banale o stonata ma sempre in grado di mostrare la sua
doppia natura di corpo giovane e attraente, oltremodo testarda nel suo rifiuto
di rinnegare le proprie scelte, e di “morta che cammina”, di “spaventapasseri” (da
qui il titolo) senza più nulla dentro perché annichilita dagli orrori della
prigionia e dal tradimento delluomo amato. Un scena del film
Al
netto di qualche eccessivo virtuosismo di camera (confusionaria nei movimenti
in alcune scene) e di alcuni clichés
da film dellorrore, il regista mostra abilità e sensibilità nella scelta di
relegare in fuoricampo quel terribile periodo di prigionia, i cui supplizi e
atrocità infestano però ogni scena e che proprio in quanto non visti e non
detti, ma solo accennati ed evocati, danno valore e bellezza al film.
Bouzid
dimostra così di aver compreso come il cinema sia un efficiente dispositivo di
denuncia sociale non tanto perché capace di mettere in scena una condizione
reale, quanto piuttosto perché in grado di costruire visivamente quella
scissione tra una realtà che si conosce ma si relega ai margini della
coscienza, perché troppo estrema e sconvolgente, e quanto si decide di vedere,
perché comodo e abitudinario. Zina col suo corpo vuoto si muove proprio nella
zona limite di questa sfaldatura. Esattamente come nella sua disperata corsa
finale, quando, oramai lontana e ai margini di uninquadratura finalmente
sgombra dal peso di pregiudizi e sguardi predatori, si volta quasi a chiederci
dove sia ora il suo posto nel mondo.
* Dottorando in Storia dello spettacolo presso lUniversità di Firenze. Impaginazione di Antonia Liberto, dottoranda in Storia dello spettacolo presso lUniversità di Firenze.
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