Lapertura della sezione
“Orizzonti” della 76° Mostra dArte Cinematografica di
Venezia è stata nel segno di una potente, rivelatrice immagine cristiana. Lallevatrice
di cavalli tedesca Wiebke (Nina Hoss),
già madre adottiva della sveglia Nicolina (Adelie-Constance
Ocleppo), decide di affidarsi a un paese estero per adottare una seconda
figlia. Nella sala comune dellorfanotrofio, in attesa di conoscere la piccola
Raya (Katerina Lipovska), una delle
direttrici le mostra un arazzo su cui è stato dipinto un pellicano che allatta
col sangue i suoi piccoli: un simbolo religioso del sacrificio che una madre è
disposta a compiere per richiamare i propri figli dalla morte.
Una scena del film © Biennale Cinema 2019 Una sequenza
folgorante, dopo la quale il film decide di virare su territori altri. Quando Raya
comincia a manifestare sbalzi di rabbia animalesca, destinati ben presto a
sfociare in una serie infinita di inquietanti atti vandalici (disegni sulle
pareti, piccoli incendi dolosi, animali crocifissi, feci spalmate sul
pavimento), si intuisce subito quale direzione la storia vorrebbe
disperatamente prendere. Influenzata probabilmente dalla visione dellottimo Babadook
dellaustraliana Jennifer Kent
(unica donna in concorso nelledizione scorsa), dove il dolore di una perdita
si trasformava in una presenza diabolica, la regista tedesca Katrin Gebbe sceglie linquietudine di
una malattia incurabile per rappresentare la disperazione di una madre che non
può e non vuole smettere di voler bene a una figlia, indipendentemente dal
legame di sangue.
A
impedire a Raya di entrare in empatia col prossimo è infatti una rara malformazione
allamigdala, aggravatasi dopo la tragica scomparsa della vera madre («per lei,
la parola mamma ha lo stesso valore della parola sedia» dice uno specialista,
come se la piccola fosse data per “emotivamente morta”). Nella finzione, ciò
che la scienza ha decretato come “senza via duscita” è rappresentato da uninvisibile
figura a-materica e ultraterrena. Il problema è che la svolta horror non è né un punto di vista originale
né un tassello narrativo imprescindibile, anche quando nel confusionario e
ridicolo atto finale si interpellano i poteri di una strega. Se nellopera
prima della Kent lorrore rimaneva confinato allinterno della metafora, nel
film della Gebbe tale risoluzione giunge in soccorso ai “limiti” dellanalisi
scientifica, quasi a volerla screditare (assai discutibile il modo con cui
vengono visti i medici, quasi fossero loro il male da cui guardarsi). Inoltre, sviluppandosi
a ridosso della conclusione, quellespediente non funziona finendo per
invalidare le buone intenzioni della prima parte, di taglio realistico.
Una scena del film © Biennale Cinema 2019
Se è dimenticabile
la scialba figura del poliziotto spavaldo e gentile che cerca di entrare nel
nucleo familiare in difficoltà (non cera bisogno di ribadire lautosufficienza
del genere femminile), è la vicinanza costante col regno animale ad attirare
maggiormente lattenzione. Come Wiebke alleva i cavalli e li addestra ad
affrontare i pericoli, così cerca di tenere a bada le follie della figlia,
quasi a voler cercare un punto comune tra “noi” e “loro”; peccato che poi tutto
venga riformulato sotto la lente dellesorcismo e della magia nera, vanificando
le idee buone che aveva presentato allinizio.
In
definitiva, di Pelikanblut si ricordano solo una confusionaria ricerca
dellangolazione inedita e uninvolontaria capacità di far scadere nella poca
chiarezza e nella risata più scettica quelle che dovrebbero essere le sue peculiarità,
i suoi punti di forza.
*Dottore in Scienze dello spettacolo presso l'Università di Firenze. Impaginazione di Antonia Liberto, dottoranda in Storia dello spettacolo presso lUniversità di Firenze.
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